76 – Ottobre ‘91

ottobre , 1991

La mostra di Carlo Cattaneo a Palazzo Braschi si raccomanda per l’articolata intelligenza dell’allestimento: della copiosissima produzione del pittore di Alassio viene presentata una scelta che nella sua essenzialità ha però il requisita della completezza.
Tanto che la sensazione che se ne trae è quella di aver visto «il quadro» di Cattaneo.. Le atmosfere delle tele, degli oli, delle matite e degli acquerelli si ritmano: luci, ambre, amore per la vita e inquietudine per la morte si intrecciano, accompagnando il visitatore nel mistero di un monda ricco e talvolta annebbiato. La scena che si rappresenta è vita, ma è soprattutto teatro e le figure si lasciano sorprendere lascive e celate alla stesso tempo; non c’è naturalismo o verismo, ma sempre rappresentazione, sia quella collettiva del1e locande affollate, sia quella più circoscritta dei gruppetti o delle coppie, infine addirittura quella individuale delle figure alle prese con loro stesse: bambine, modelle, autoritratti, solo apparentemente colti di sorpresa, ma in realtà già disposti ad una recita per compiacere l’osservatore e forse anche il pittore. La rappresentazione poi si intrica vieppiù, si affolla di oggetti e di animali, si affolla anche di quadri che si espongono a loro volta. L’esibizionismo è in certi particolari espliciti delle anatomie, soprattutto femminili, ma è anche nel raddoppiarsi del soggetto in un doppio ritratto negli amplessi paralleli alla scena principale, come in Salomé o nel Violinista, dove il titolare del quadro è quasi spodestato dalla prepotente scena di sensualità che lo relega in un angolo della tela. Inoltre ovunque è un brulicare di animali: insetti, a volte decorativamente significativi come le farfalle, ma anche uccelli e soprattutto cani: che giocano, che siedono in grembo, che osservano, che partecipano. Cattaneo ha sfiorato la psicoanalisi, se ne è rapidamente allontanato, senza puerilmente contestarla, ma senza accettarla, l’incontro lo ha però segnato, anche se il rispetto e la stima, oltre che l’amicizia rendono illegittimo il gioco spesso crudele delle «interpretazioni».

Alla Galleria l’Isola, di via Gregoriana, c’è stata la ripresa di una mostra nata nell’ambito del festival di Todi, curata da Vittoria Zileri Dal Verme. Si tratta di un gruppo di sculture che sono rappresentative di una tendenza che accomuna gli autori, pur nella diversità del loro operare. La caratteristica principale di questa Scultura in atto è l’assoluta banalità di concezione: non c’è neppure una sufficiente capacità di giocare con i materiali, caratteristica che si può talvolta riscontrare nelle cosiddette «opere informali». Non vi si trova altro che la ripetizione ennesima del qualunquismo pseudo-culturale. In catalogo si prodigano a giustificare teoreticamente la validità di questi tentativi firme importanti: da Briganti a Trucchi, da Tosi ad Argan, ma leggendo e rileggendo. non ci pare che neppure questi autorevoli maestri del pensiero critico trovino argomenti sufficienti: dire «strutture primarie» a proposito del cubo di Nicola Carrino; parlare di «stratificazioni di energie» davanti alla scultura stratosferica di Eliseo Mattiacci; sostenere che la forma delle terre cotte di Nedda Guidi stia nel «nascondere l’ansia del cuore» ci sembra un modo di offrire alibi culturali ad un operare che non sa riflettere sui propri mezzi e sui propri fini. Cercando di non sembrare totalmente privi di umorismo diciamo che abbiamo gradita la lepidezza del giochino in bronzo brunito di Giuseppe Maraniello, vivacizzato da un buffo diavoletta pensosa (da cui, forse il titola «Riflettere») così stigmatizzato da Lea Vergine: «Lo spazio non si sa mai se sia qualcosa di pieno a di vuoto, se sia materia o niente, se il vuoto è pieno ostentato o se il pieno è un vuoto orientato».

La mostra della calcografia nazionale dedicata alla grafica cecoslovacca, presenta una grande quantità di opere e di artisti contemporanei dalle tendenze estetiche e dalle poetiche più disparate. Un filo conduttore ci sembra però accomuni sia i cechi sia gli slovacchi presenti alla rassegna: la figura di Franz Kafka. Dappertutto l’immagine si fa metafisica, religiosa, angosciata, depressa e pervasa da un’ironia acre ed un poco imbelle. Come se tutti dicessero: «il mondo è una disperazione e così è destino che sia in eterno». Un grande artista influenza i suoi conterranei, però a sua volta è frutto dell’inconscio sociale da cui anche la sua opera scaturisce.
Questa è una mostra di grande interesse per chi abbia voglia di abbandonarsi alla filosofia; si esce con l’amaro in bocca e l’impressione di aver vissuto un’avventura inutile, proprio come dopo aver letto le vicende dello scarafaggio dell’autore praghese. Dal grottesco al magico si intitola la mostra allestita in via della Stamperia e noi abbiamo apprezzato la favolistica del ceco Adolf Born fatta di turchi e pifferai e le inquietanti farfalle di Ladislav Cepelak, l’esoterismo degli oggetti luminosi di Ondrei Michalek, l’impegno di Oldrich Kulhanek e il simbolismo narrativo di Karel Demel. Tra gli slovacchi ci ha interessato molto la grafica ricca di allegorie permeata di surrealismi di Albin Brunovsky e di Vladimir Gazovic, quest’ultimo più irridente, a tratti osceno, ma arguto nell’evidenziare piccoli sordidi particolari che conferiscono al suo disegno una connotazione moralistica e beffarda allo stesso tempo.
Meno convincenti i tentativi modernizzanti che paiono sudditanze non critiche agli schemi di un occidentalismo di maniera, anche se sempre le tecniche sono padroneggiate con bella sicurezza.