76 – Ottobre ‘91

ottobre , 1991

In questi giorni i due farfalloni sono molto depressi: hanno rivisitato per dovere professionale alcuni ristoranti di cui avevano parlato bene, ma hanno avuto la sgraditissima sorpresa di un’involuzione ed un degrado generali. Perciò vogliamo subito mettere in guardia i nostri lettori: non fate assolutamente riferimento a nostre affermazioni di un anno fa; nella Roma dei papi e della mafia-camorra c’è solo possibilità di regressione. Ci siamo però messi con impegno, persino a scapito della nostra già fin troppo tondeggiante linea, a visitare molti locali di vario genere della cui ristorazione dire qualcosa di positivo. Infine ne abbiamo trovato almeno uno sulla cucina del quale non avanziamo riserve.
Speriamo regga a lungo e non ci faccia sfigurare lo chef Giuseppe Todisco che cura il ristorante dell’Hotel Majestic di via Veneto, il quale ci ha dato una dimostrazione di autentica professionalità. Abbiamo trascorso nel grande salone al primo piano una serata veramente gradevole, a cominciare dall’aperitivo servito al bar, arredato con gusto e pezzi di ottimo antiquariato.
Accompagnati dalle note discrete di un giovane pianista ci siamo poi spostati al tavolo, in un’atmosfera forse un po’ eccessivamente caricata da tendaggi e cristalli in un miscuglio di vero e falso, leggermente ridicolo, ma non sgradevole, dove ha avuto inizio un’avventura gastronomica dall’esito positivissimo.
Tutti i piatti, sia quelli tradizionali, sia quelli che si affidavano ad una fertile e discreta creatività, consistevano in generose porzioni che nulla toglievano all’eleganza della presentazione e alla digeribilità, contrariamente a quanto ha cercato di far credere uno snobismo importato a casa nostra degli emuli della nouvelle cuisine d’oltralpe, che offriva al commensale affamato un francobollo di branzino decorato da un paio di rosse fragole. Squisite le cosce di coniglio al/a salsa al/o champagne, morbidissime, perfette nella loro classicità; gradevole il tonnetto affumicato dove l’equilibrio aromatico non era pregiudicato da nessuno degli ingredienti.
Di rustica sapidità, raffinati, i rigatoni al tonno fresco e fiori di capperi, e i maltagliati ai funghi porcini estivi. Tra i secondi piatti segnaliamo l’eccezionalità della costoletta milanese alle mandorle, autentica e saporitissima, a cui le mandorle aggiungevano una nota di frizzante novità, senza minimamente disturbare; la Chateaubriand ai funghi porcini impeccabile e tenerissima e la sella d’agnello alle erbe si raccomandavano per la rigorosità dell’esecuzione e per l’eccellenza degli Ingredienti; una scoperta l’anatra arrosto alle amarene squisita, delicata, originale ed armoniosa nelle sue componenti.
Meno esaltante forse il discorso sui dessert, risolto però con abbondanza di sorbetti, gelati, creme fresche e fragranti frutti di bosco, preferibili alla crostatina calda di mele e pere dalla pasta duretta e dal ripieno gommoso. Anche la carta dei vini va rivista perché è troppo scarna e piatta; noi abbiamo risolto con un Pinot grigio e uno Schiopettino, ma ci siamo sentiti a disagio. Il discorso sul prezzo questa volta si impone: è vero che si va piuttosto verso cifre elevate, ma il confronto va fatto in tutta la sua globalità: la ristorazione andante offre ambienti, servizio e qualità delle materie prime decisamente al di sotto ed in genere la ristorazione alberghiera agli stessi prezzi è di una noiosità e scipitezza oltraggiose. Ci daremo da fare per appurare se a Roma sia davvero impossibile conciliare la dignità gastronomica con la gradevolezza degli ambienti e l’accessibilità dei costi!

Il Cul de sac n.2 nel trasteverino vicolo dell’Atleta, segue una corrente che si sta diffondendo un poco anche a Roma: accanto alle osteriacce luride che però sbocciano in luoghi di paradisiaca bellezza, quali sono certi angoli delle vecchie città, in alternativa alle pizzerie disadorne e fumose o a certi ristoranti e ristorantini pseudo-eleganti, che in realtà appagano solo le voglie di falsa argenteria di antiche e meno antiche matrone, fio-riscono ora – dicevamo – localini strategicamente situati, accoglienti e puliti, persino un po’ asettici, ma dalle intenzioni rassicuranti. Nella fattispecie il locale in questione persegue l’obiettivo del bianco a tutti i costi. Bianchi sono le tende di tela che coprono le poche finestre, bianche le fodere delle sedie, immacolato il candore delle tovaglie. Bianche e tersi i piatti di buona ceramica, scintillanti posate e bicchieri; ma bisogna dire che tanto splendore non infastidisce e la cordialità del servizio cancella l’impressione clinica.
La cucina ci sembra stia ancora cercando una strada propria e si barcamena tra piatti moderatamente creativi ed altri di ispirazione «internazional-franciosa». Anche il livello di esecuzione risulta discontinuo: la crosta dello sformato di faraona è troppo spessa ed il ripieno leggermente più acidulo del dovuto; le ostriche alla crema rivelano uno squilibrio tra il sentore eccessivamente marino dei molluschi e la salsa dolciastra, e sono sommerse da troppi crostini grossolani. Molto buono per contro il tournedos, uno splendido taglio di filetto cotto alla perfezione, come a Roma di rado avviene, accompagnato da due ottime salse e da due discutibili spiedini di verdure; la coda caciuccata è invece un piatto infelice, appiccicoso e senza gusto; ottima la riuscita dei rotolini di coniglio alle erbe. Nei dessert manca un senso vero della pasticceria:
sono quasi tutti miscuglietti più o meno compromessi dai frutti di bosco, o creme gelate o semifredde, senza personalità.
Persino troppo ricca e documentata la carta dei vini: il cliente rischia di perdersi nella lettura, senza riuscire a scegliere; per di più c’è anche un eccesso di segnalazioni «esaurito» che aumentano la confusione.
Chi riesce però a venirne a capo è ricompensato da ottimi vini, ben conservati e serviti con proprietà e garbo.
Il conto, in un posto dove tutto è curato fino allo scrupolo, non può, ovviamente, essere irrisorio, ma resta adeguato, sui livelli medio alti che caratterizzano il tutto.