Anabolizzanti, vitamine, proteine, ma anche eroina, ecstasy, crack e cocaina oppure fumo e alcool, tutto va bene per non rimanere rinchiusi nella propria realtà. Infatti quella che tutti scambiano per ansia di autodistruzione, tale non è: in ciascuna vittima e in ciascun superstite c e il desiderio di andare oltre i limiti, per spirito di trasgressione anche, ma soprattutto per spirito di insoddisfazione ed emulazione, per raggiungere quel modello che non ha identità precisa ma che è strettamente collegato alla cultura dell’apparenza. Il disastro è inevitabile poiché quella dell’apparire non ha rapporto che labilissimo con la realtà dell’essere, o più precisamente «apparire» significa sempre di più «non essere». L’immagine è quella luccicante della fotografia, perfetta nei particolari, ideale nella suggestione, essenziale per una promozione consumistica. Oggi la fotografia ha potenziato le sue capacità illusionistiche: l’immagine del video clip danza a tempo di musica, accarezza gli oggetti simbolo di una condizione privilegiata, viola le anguste leggi dello spazio e del tempo, rimane eterno simbolo di perfezione. Senza difese culturali da parte di quella società moralistica che dello scandalo fa cinica professione, ma che solo immagini tiene come punti di riferimento, i migliori come i peggiori si affannano per realizzare, incarnare, un modello ideale. Perché bello, perché ricco, perché conturbante sessualmente, perché potente economicamente, perché negazione trasgressiva di ogni modello. La psicoanalisi è forse in grado di fornire spiegazioni non generali e per questo non generiche, ma la consapevolezza psicoanalitica è sempre più elusa per l’austerità intellettuale che impone; allora ci appaghiamo di sentenze gratificanti, che ci mettono dall’altra parte. L’aspirante campione di pesistica sedotto a morte dal modello appeso con quattro puntine alla testiera di un lettino troppo stretto, che anche fisicamente obbliga all’autosoddisfazione; la bellina terrorizzata della propria vulnerabilità, stuprata mille volte in un corpo che non sa cosa voglia dire amore e piacere; ma anche campioni e dive dello star system sfasati rispetto al book-office si rivolgono ad una medicina onnipotente, che definitivamente li renderà liberi, straripanti fuori della propria pelle e vincenti. Non desiderio di autodistruzione, né velleità di performance, ma sogno di onnipotenza di piccole menti che la saggezza sconfitta dei benpensanti stigmatizza con soddisfatto compiacimento. Sana e santa mediocrità che altro non rischia che i pochi centesimi investiti in un guardaroba, automobile od orologio firmati. Né migliore né peggiore dunque la scelta di chiedere ad una sostanza, per qualche ragione magica, di dare realtà al sogno, dell’altra scelta di restare passivi consumatori di notizie letali, segretamente contenti di non aver rischiato, irrimediabilmente costretti ad una necrofilia quotidiana, servita a colazione col giornale fresco. Vivi, sopravvissuti e morti non abbiamo altro destino che di essere digeriti da Cronos, tempo senza memoria, e dalla sua figliastra, la Cronaca dai fetidi artigli.
Archivio di aprile 1991
72 – Aprile ‘91
lunedì, 1 aprile 199171 – Aprile ‘91
lunedì, 1 aprile 1991Paprika, il film tanto discusso di Tinto Brass, non è certo un’opera d’arte e forse non è neppure un bel film; ha però un grandissimo merito: quello di smascherare i «tartufi». Sappiamo che quello che diremo irriterà molte persone, anche tra i nostri amici; ma noi abbiamo l’impressione di non sbagliarci. Se qualcuno dopo aver visto il film, vi dirà con aria sussiegosa: «È un film noioso e per nulla eccitante», avrebbe bisogno di qualche seduta di analisi per potersi liberare ancora di un bel po’ di frigidità ed ipocrisia. Abbiamo detto che non è un bel film, aggiungiamo che è proprio brutto; si può accettare che sia necessariamente un po’ ripetitivo: sono buttate alla rinfusa sullo schermo scene di natiche, tette, coiti di tutti i tipi, scene lussuriose, proprio come può avvenire nelle fantasie masturbatorie di un sedicenne. Però in questo campo, nessuno, maschio o femmina ha mai veramente superato i suoi sedici anni. Noi vecchi signori siamo orgogliosi di essere rimasti adolescenti e di avere il coraggio di confessarlo. La storia di Paprika, è quella di una fanciulla che, negli anni cinquanta decide di sacrificarsi per il suo ragazzo, adattandosi a lavorare in un «casino», per raggranellare rapidamente un buon gruzzolo. Ovviamente resterà invischiata nei meandri della nuova professione che oltretutto non le dispiace e dopo un susseguirsi di alti e bassi nella carriera finirà maritata ad un vecchio conte che la lascerà vedova e ricca, padrona, dopo l’avvento della legge Merlin, di sposare il suo vero amore, che non è più quello dell’inizio, ma un prestante capitano di marina. Tinto Brass ha già dimostrato altre volte di avere una fantasia molto fervida ed è anche spiritoso; riesce così a costruire più di una scena sessualmente eccitante, senza moralismi, nostalgie del bel tempo che fu e una discreta voglia di sghignazzare volgarmente su maschi e femmine infoiati. Inoltre alcune atmosfere delle vecchie case di tolleranza, se pur espressionisticamente esagerate, hanno una certa efficacia. Qui potrebbe innescarsi una polemica senza fine se ci chiedessimo come possa l’oscenità volgare risultare anche sessualmente eccitante. Senza dubbio i kouroi greci e le veneri cinquecentesche eccitano anche i sensi, oltre che elevare lo spirito (qui potremmo fare una battutaccia a proposito del film degna del regista: tartufismo nostro o buon gusto?). Certo però che chi, terminata la lettura di queste righe, con la boccuccia a «culo di gallina» dirà: «Sarà… però io ho trovato il film solo noioso…» sappia di essere diventato irrimediabilmente vecchio. Il difetto principale, oltre la volgarità, è che nessuna delle figure di contorno riesce a diventare un personaggio: sono solo macchiette quelle che risultano, malgrado l’ottimo rendimento di tutto il cast. Debora Caprioglio, la protagonista, riesce ad essere solare come una vera puttana, partecipando al personaggio con tutte le sue doti personali.
71 – Aprile ‘91
lunedì, 1 aprile 1991Antonio da Montecavallo, forse fratello di Andrea Bregno, e Donato Bramante costruirono tra il 1400 e il 1500 il bel Palazzo della Cancelleria. Bellissima è la sala Riaria o Aula Magna. Elegante il soffitto affrescato, severi gli antichi scranni. Lo spazio è ben ritmato ed elegante; però qualche mente perversa si ostina a voler usare questa gradevole sala come luogo per fare musica. Qui è sopportabile, ma non molto di più, ascoltare un clavicembalo, un pianoforte o, al massimo, due o tre archi, altrimenti le risonanze diventano insopportabili, i suoni si incrociano e si sovrappongono, distorcendosi; il disequilibrio degli insiemi diventa quasi assoluto.
La sera di mercoledì 20 marzo, ci è capitato di ascoltare l’orchestra dell’Associazione Musicale Romana, diretta da Franco Presutti, con la partecipazione dell’oboista Franco Pollastri in un programma tutto mozartiano, inserito nel ciclo Musica a Palazzo.
L’esecuzione nel suo complesso non ci è certo sembrata eccelsa, però, pur avendo cambiato posto durante il concerto, alla ricerca di suoni meno sporchi, dobbiamo riconoscere che il nostro giudizio permane insicuro a causa della disastrosa acustica del posto.
Il Divertimento per archi in si bemolle maggiore K137, dopo un buon inizio sommesso, si è poi vivacizzato in momenti briosi pungenti, con un’esecuzione accettabile, nonostante un’ostinata imprecisione negli attacchi.
Il successivo Concerto in do maggiore K 314 per oboe e orchestra, dopo l’iniziale pesantezza nell’ingresso dei fiati e un incerto attacco dell’oboe che pareva addirittura stonare, ma non sappiamo quanto a motivo delle già citate condizioni acustiche, è proseguito con un’esecuzione impacciata dell’orchestra, mentre il solista andava via via acquistando fluidità, nell’ultimo movimento infine l’orchestra recuperava un accettabile brio e l’oboista dava al suo strumento accenti di efficace espressività. La conclusiva Sinfonia in si bemolle maggiore K319, dopo un primo tempo eseguito in modo meccanico in cui si notava un’eccessiva preponderanza dei fiati, si assestava nel secondo movimento in un’interpretazione discreta per dinamica ed espressione; ma tornava poco omogenea e discontinua nel minuetto e nel tempo conclusivo.
Naturalmente abbiamo parlato solamente dell’interpretazione senza entrare nel merito del divino splendore dei brani mozartiani. Di sfuggita, ci viene, a questo punto, voglia di fare una considerazione: in tutto il mondo, e quindi anche a Roma, in quest’anno la musica di Mozart viene eseguita in tutte le circostanze possibili, cosa di cui siamo comunque soddisfatti; però vorremmo che almeno nella capitale si facesse un po’ più d’attenzione alla qualità. Non è passato molto tempo da quando il nostro gusto è stato offeso da quella flaccida ed inespressiva realizzazione del Don Giovanni all’Opera di Roma, uno dei maggiori teatri lirici italiani. Per un verso quindi continuiamo a dire che Mozart vale comunque sempre la pena di essere eseguito ed ascoltato; ma per un altro verso ci irritiamo e ci sentiamo personalmente offesi ad ogni esecuzione troppo sciatta e disattenta.
Mercoledì 27 febbraio, nell’ex-cinema Castello, abbiamo ascoltato un concerto del batterista Billy Cobham con Ernie Watts ai sax, Brian Bromberg al basso e Joe Chindamo alla tastiera.
La sala, piccola, era gremita da un pubblico di infernali fumatori che però prestavano molta attenzione a quello che stavano ascoltando. Il concerto è stato abbastanza gradevole: musica non certo difficile, anzi piuttosto accattivante. Si passava da brani sincopati e melodici ad un rozzo contrappunto tipico del rock, a molte suggestioni di jazz anni ‘50, inoltre, qua e là riecheggiavano ricordi della musica andina; alcuni passaggi lenti, sempre occhieggianti al minore, erano decisamente troppo leggeri.
Il migliore in assoluto, secondo noi, è stato il sassofonista, sempre molto fluido e sciolto e dall’ottima cantabilità che sconfinava in alcuni punti in un virtuosismo di buona lega. Basso e tastiera ci sono invece sembrati rigidi, se pure bravi. Il batterista Billy Cobham, dalla bella figura, assolveva bene il compito di legare con buon ritmo il tutto; ma l’avremmo preferito meno ovvio e prevedibile.
71 – Aprile ‘91
lunedì, 1 aprile 1991La pittura più recente di Mario Fallani presentata alla Galleria il Gabbiano, di via della Frezza, con un’introduzione al catalogo di Federico Fellini, con cui il pittore fiorentino collaborò in occasione del ‘Casanova’, sembra avere raggiunto un livello di maturazione ottimale, libera restando però da ogni pesantezza. La maturità di chi ha raggiunto grande sicurezza di disegno e di tavolozza; la giovinezza di chi sa sorprendere e sorprendersi. Chi osserva le sue nature morte e i suoi paesaggi si stupisce per l’in usuale accostamento di oggetti, per i colori rarefatti, mediati da una luminosa foschia che vela le cose proteggendole come segreti su cui è lecito appena posare lo sguardo. Una nebbia che avvolge l’osservatore, uscendo dal quadro stesso e indugiando sui bordi delle cornici. I suoi parchi, le rose, i bricchi e le tazze vengono accostati con un criterio che non è logico: i fiori sono abbandonati su piani indefiniti o in contenitori incongrui; la tazza sta sul blocco di marmo spaccato insieme col ritratto, il cilindro d’acciaio e la stampella porta-abiti in fil di ferro. La vastità dei parchi e dei boschi è introdotta da alcuni fiori recisi languenti nella luce bagnata di ombre. Le variazioni sono minime, ma bastano a rivelare una visione del mondo che si raccoglie in se stessa, in un crepuscolare amore per le cose più intime.
Si legge nell’introduzione di Stefano Socci alla mostra di Stanfond Brent alla Galleria Incontro d’arte: «…schemi di strutture astratte che potrebbero apparire arbitrari se non fossero così intonati alla superficie emblematica». Noi invece troviamo la profusione di linee curve e rette, che si sovrappone ai quadri di Brent proprio arbitraria. Sono linee che spezzano la logica delle figure che stanno dietro, senza creare giochi contrappuntistici od armonici.
L’emblematicità poi non riusciamo a capire dove la si possa trovare. Ci è venuto anche il sospetto che questa sia una pittura per sadomasochisti: creare un tutto disarticolato e fastidioso. Per fortuna ciò che si intravede oltre i reticolati non è un gran che, e quindi il fastidio è molto mitigato da tanta inessenzialità. Non c’è molto più che qualche rilievo architettonico, appena abbozzato il più delle volte, che, come in un ripensamento che è anche un pentimento, il giovane artista americano annulla sotto linee colorate che qualche volta incorniciano, ma più spesso cancellano. Roma sembra aver disorientato il giovane ‘visiting artist’ dell’ Accademia Americana che non riuscendo a coglierne l’eredità storica ed artistica, cerca di imprigionarla in schemi personali precostituiti, che non hanno però possibilità di intesa. Del resto i pochi esempi di astrattismo geometrico non convincono dell’assimilazione profonda di una qualunque estetica o poetica.
71 – Aprile ‘91
lunedì, 1 aprile 1991Il libro di Francis Bacon, La brutalità delle cose. Conversazioni con David Sylvester (Quaderni Pier Paolo Pasolini, 175 pagg.; Lit. 32.000) comprende una serie di conversazioni del pittore di origine irlandese con il critico inglese che vanno dal 1962 al 1984. Bacon parla di sé, della sua pittura e soprattutto del suo modo di dipingere. Le sue considerazioni sono intriganti, coinvolgenti, talvolta irritanti e talaltra sulla soglia della comprensibilità. Ma sulla soglia egli intende comunque rimanere: cerca di dire l’essenziale delle cose e del fare dicendo ciò che è quasi impronunciabile. Si affollano qui disordinatamente frasi di una metafisica terrestre; egli che si professa non credente risulta ossessionato dalle figure di Cristo crocifisso e dal Papa. Sguscia da tutte le parti, pur di non lasciar trapelare il mistero sacrale racchiuso nella sua pittura. Secondo Bacon l’arte sorge dall’inconscio, parla non si sa con chi, se non con lui. L’artista è imprigionato dalla voglia del caso di divenire necessità trascendente. In questo suo parlare sempre ‘al limite’ arriva continuamente a smentirsi, ma anche a pronunciare frasi di una folgorante verità, che viene subito contraddetta , ma ugualmente agisce come stimolo al pensiero. Egli racconta con finta semplicità le sue tecniche pittoriche, che acquistano corpo e sensualità. La morte che aleggia dovunque: carne crocifissa o amici perduti, mistero di uno sfondo blu cobalto o allontanamento della vita attraverso la mediazione di un vetro, che diventa subito però energia vitale. Qua e là vi sono osservazioni interessanti sulla sua vita, sull’infanzia, sulle sue abitazioni, sulla sessualità, sull’arte, sugli altri artisti. Non sono mai osservazioni banali. Questo breve libro non è inutile: serve a meditare su di un uomo che appare essere disperatamente sincero e bugiardo allo stesso tempo e anche fa riflettere sullo sforzo che l’arte figurativa comprende in sé poiché si esprime avendo paura di esprimersi, specialmente dopo che la fotografia e il cinema l’hanno spiazzata, o forse salvata. Bacon odia ugualmente la pittura astratta e quella che lui definisce illustrativa, e lo dichiara con osservazioni che sono talmente chiare che rasentano l’incomprensibile. Bacon asserisce a più riprese di essere sempre catturato da quello che fa, al di fuori delle sue intenzioni; questo per non compromettersi mai nella ricerca di un significato.
Al di là delle considerazioni artistiche, viene fuori dalle pagine anche la descrizione di un uomo di successo, forse più disperato di molti che il successo non ha sfiorato.
71 – Aprile ‘91
lunedì, 1 aprile 1991Il Caffé degli Specchi, all’inizio dell’omonima via, è stato da noi visitato più volte. Il posto risulta abbastanza gradevole, sebbene un po’ angusto; sotto le basse volte si fatica a respirare, soprattutto a causa delle orme di giovani «yuppies» che fumano imperterriti, parlando di affari e di viaggi, senza prestare attenzione a quello che stanno mangiando. Il locale sembra avere due anime; infatti se ci si arriva a sera molto tarda, si può avere la sorpresa di uno spuntino, ricco e fantasioso, di piatti gradevoli per lo più non cucinati affatto o appena assemblati, accoppiati a discreti vini; se però si premedita una cena e si prenota per tempo si va incontro a grossi rischi. Lo chef sembra assolutamente incapace di cucinare davvero: i suoi risotti sono slavati e puerili, i tonnarelli sono inaccettabili strozza-avventori, papposi e mal conditi, la zuppa di frutti di mare acquosa e piena di sabbia, i ravioli di pesce mascherano la loro insignificanza dietro una punta di piccante fuori luogo. I secondi piatti sono anche peggio: un fritto vegetale unto all’inverosimile, e quello di mare sembra essere il frutto di un ripensamento che ha spinto in padella un pesce pre-bollito dopo averlo malamente rivestito di una pastella della settimana precedente. Persino le mousse risultano spugnose senza leggerezza e con poco sapore, siano al cioccolato o allo zabaglione o al caffè. Abbiamo detto che la scelta dei vini è discreta, anche se spesso non sono serviti alla giusta temperatura (ricordiamo un Grattamacco quasi tiepido).
Le due anime del locale hanno in comune una sola cosa: il prezzo decisamente molto elevato.
In via S. Maria del Pianto, alle soglie dell’antico Ghetto si trova l’Enoteca Bleve. Noi apprezziamo molto l’ampia scelta di vini, italiani e francesi, ma non solo, offerti con garbo e competenza da Anacleto. Ragion per cui ci siamo sentiti spingere dalla speranza, oltre che dalla curiosità, quando in alcune salette dell’esercizio è stato avviato un servizio di ristorazione rapida: i tavoli reggono bene l’affollamento abituale, sono apparecchiati con una certa cura, tutto sembrerebbe rappresentare un’alternativa «umana» agli imperversanti e laidi fast-food. Però le buone intenzioni, risultano, all’atto pratico, totalmente smentite: il cibo pronto o precotto è quello delle peggiori tavole calde; noi pensiamo che l’errore sia di aver voluto strafare: troppi piatti e poco diversificati. Le paste e i risi sono inqualificabili, tutti scottissimi e senza sapore. Le preparazioni fredde sono orribili, come gli involtini al prosciutto di Praga, ripieni di un pastrocchio amalgamato con scialba maionese, le patate al salmone per metà crude e metà bruciate, mischiate a sbriciolature di pesce di qualità discutibile, le tremende fettine di manzo alla salsa verde, insipida ed oleosa; appena accettabile l’assortimento di pesci affumicati: spada, salmone, etc. sommersi da un prato di erba verde. Anche i due formaggi sono rinsecchiti ed artefatti come quello «della fossa» e quello al tartufo. La generosa buona volontà dei gestori viene alla luce con la bella offerta di delizie al cioccolato, di faraonica generosità; di gran lunga migliori dei dolci della casa, torta di visciole o crema al limone. Stupefacente è poi che un così esperto enologo non si avveda dei gravissimi errori di successione dei vini; non si può infatti sul menu proporre un vino bianco dell’1988 e poi un rosso del 1989, peraltro tutti e due insignificanti. Il costo a noi ‘è parso sorprendentemente contenuto.
Ci dispiace aver dovuto registrare, per onestà le molte pecche di uri’iniziativa in cui per primi avremmo voluto credere.
71 – Aprile ‘91
lunedì, 1 aprile 1991Stadelmann, di Claudio Magris, è un esempio di quel teatro colto e letterario, che, in genere, viene considerato poco coinvolgente. Indubbiamente le parole del copione sono molte e quando cercano di calarsi in azioni sceniche dinamiche, perdono un po’ della loro efficacia. Veramente validi sono soprattutto i monologhi, e non solo quelli del protagonista, che per la loro grande intensità letteraria riescono a diventare anche teatralmente azzeccati. Stadelmann, personaggio realmente esistito, fu un domestico del grande Goethe, successivamente scacciato, finito in un ospizio di lena, sopravvivendo alla morte del suo illustre padrone. Per un caso, in mancanza di meglio viene invitato a tenere la commemorazione di Goethe in occasione del decimo anniversario della morte. Come richiamato a nuova dignità umana, il vecchio laido e misero si accende di una luce interiore, che però presto lo spinge al delirio. Incalzante in ogni momento si percepisce l’identificazione del servo con la figura del padrone, amato e detestato allo stesso tempo. Il vecchio si esalta con frasi magniloquenti che ripetono le teorie dei colori, delle affinità elettive, dei pensieri di vita e di morte del Poeta e letterato. Tutto è infarcito dai ricordi di una frequentazione intima e quotidiana che ha avuto in comune anche qualche passione amorosa e la inclinazione al vino. La tragedia si costruisce lentamente: sogni e disperazione si mescolano e tutt’attorno a Stadelmann-Goethe, turbina una miriade di personaggini, meschini, petulanti, disperati e cattivi, disegnati da Magris, in punta di penna, con efficacia, anche se ben lontani dalla grandezza drammatica del protagonista. L’epilogo si avrà con il suicidio per impiccagione commesso dal vecchio incapace di consegnarsi nuovamente ad una vita solo sua. La scena tragica raggiunge un’acmé molto intensa. Qui a nostro avviso si sarebbe dovuto concludere lo spettacolo, che invece prosegue con un andirivieni di commenti moralistici e fatterelli che disperdono la tensione in un velo di noia.
Tino Schirinzi dà un saggio di bravura tecnica e poetica, raffinato fino all’estremo non tralascia però di usare tutti gli effetti di un grande attore che vuole commuovere e coinvolgere. Abbastanza bravi tutti gli altri componenti del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, che la regia di Egisto Marcucci guida con efficacia ed appropriatezza. Le scene di Graziano Gregori assolvono con facilità una funzione preziosa di rapidi cambiamenti di atmosfere, con qualche suggestione d’effetto, come la gigantesca carrozza, o il marchingegno del mutilato. Le musiche di Daisy Lumini non ci sembrano aggiungere molto all’intensità complessiva dell’allestimento, mancando forse un’occasione importante, in uno spettacolo così cangiante per le atmosfere e le suggestioni.
Psicoanalisi contro n. 72 – Alcune riflessioni critiche
lunedì, 1 aprile 1991Tutti noi diciamo quotidianamente una a grande quantità di cose ovvie. Certo, non si può sperare di pronunziare soltanto frasi pregnanti e definitive.
Tutti parliamo anche per riempire il silenzio, ripetiamo cose già dette, riprendiamo frasi mille volte risentite. Lo spazio e il tempo si riempiono di gesti banali e di ovvietà verbali; si guarda la rosa di un roseto e si dice: «Come è bella, sembra dipinta!» Poi si osserva la rosa riprodotta in un quadro e si dice: «Come è bella, sembra vera!»
Gli alberi di melo, a primavera, sembra «siano stati investiti da una nevicata»; gli stessi rami, incrostati, in inverno, di neve e di ghiaccio scintillanti nel loro biancore «sembrano fioriti». Si dice che le donne «pensano solo ai vestiti» ed i maschi «parlano soltanto di calcio». Affermazioni vere e false allo stesso tempo;per quel che concerne le ultime due si sa che la noia e l’inconscio sociale condizionano maschi e femmine costringendoli con violenza brutale a riprodurre stereotipi. La solita cretina continua sospirando a dire: «Vorrei essere me stessa!» E il solito idiota dichiara che vorrebbe: «Essere più spontaneo!» Una cretina e un idiota che non sono felici dentro la loro pelle. Le banalità si sovrappongono e si accavallano e talvolta sembrano addirittura esprimere un barlume di verità. Ribellarsi al dominio delle frasi fatte e dei luoghi comuni più o meno stupidi è importante; ma la ribellione non deve esprimersi a sua volta negli stessi termini sciocchi e qualunquistici. Ricordo che molti anni fa una ragazza di sinistra e rigorosamente vegetariana, stesa su di una sudicia spiaggia, sporca e affollata da un’ambigua umanità, non appena mi sentì accennare una canzoncina tratta da un noto spot televisivo mi si erse contro come una Erinne, ridicola in quell’atteggiamento di furia, in contrasto con la figuretta spellata dal sole, e mi disse: «Queste canzoni non si cantano: sono imposte dai padroni e concorrono allo stordimento delle masse operaie per fini consumistici.» lo mi irritai appena, accorgendomi di quanto suonasse stupida in quel suo superficiale anticonformismo, mentre si riteneva paga di quel mare sporco, di quella pseudocultura naturistica, del suo femminismo d’accatto.
La stupidità dilaga, si insinua ovunque, forse non è più nemmeno possibile difendercene, ammesso che sia mai stato possibile.
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Si possono dire sciocchezze non solo a proposito degli argomenti di ordinaria quotidianità, ma anche si può parlare scioccamente di cibernetica, di filosofia kantiana, di epidemiologia, della pittura caravaggesca e della musica beethoveniana: noi tutti siamo immersi nel fluire continuo del tempo che passa. Non abbiamo tregua, i pensieri ruotano nella nostra mente e le parole ci escono di bocca quasi senza che lo vogliamo. Pensieri sciocchi, frasi inutili! È importante soffermarci a riflettere su quello che stiamo per dire, andando a ritroso, alla ricerca delle fantasie e dei desideri che ci muovono, perché così è possibile scoprire una ricchezza interiore, un’originalità che vengono perdute nel tragitto che le trasforma in parole. Perché, viene da domandarsi, il linguaggio verbale è così povero in confronto alla ricchezza di contenuti da cui parte? Proviamo ora ad analizzare le espressioni del linguaggio cosiddetto «accademico»: dei professori universitari, dei fIlosofi patentati, ma anche dei cardinali e dei politici, dei giornalisti. Tutte queste persone parlano e scri- .
vono moltissimo, anche per mestiere, ma quanti di loro sono veramente capaci di dire qualcosa di significativo e di originale? Per lo più si abbandonano a tronfi esercizi di retorica: la religione, la politica, la guerra, il bene, il male, la vita e la morte divengono formule banali raccontate da gente che è rimasta sempre un passo indietro, o a lato dei problemi. Le loro parole si costruiscono in frasi irrimediabilmente vuote, anche quando affrontano realtà della scienza (non mi riferisco qui all’ovvietà istituzionalizzata dei «divulgatori scientifici»). Le parole si traducono spesso in segni neri lasciati su fogli bianchi e le pagine si snodano inessenziali, vanificando anni di studio.
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Anch’io, ora così saggio e caustico, mi rendo conto che troppo spesso mi affatico ad accavallare frasi su frasi, per dire solo cose scontate. Accuso gli altri delle mie stesse colpe, ma non è sufficiente che io ora me ne renda conto, per discolparmi: le mie ovvietà rimangono tali, le mie banalità non si santificano, né io vengo da esse nobilitato. Talvolta verrebbe voglia di scegliere il silenzio. Ma non è possibile far tacere il fluire continuo dei pensieri e delle idee che gridano comunque, forti della loro miserevolezza di contenuti. Non ci si salva dalla stupidità neppure ammettendo di essere stati spesso stupidi. L’autocritica non è a questo fine niente più di un’ingenua trovatina che è rivolta solo al mondo degli sciocchi.
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Eppure sento agitarsi in me qualche elemento che si rifiuta di essere assimilato alle sciocchezze di cui pure sono impastato.
Sento sorgere a volte pensieri che penetrano al di là delle apparenze banali, che si rivolgono a quello che c’è di non solo superficiale, di effimero. Talvolta mi accade di percepire negli altri ed anche in me la genialità di alcune intuizioni. Resta però il fatto che abbiamo troppo tempo da riempire e lo sproloquio di parole diventa un mezzo come gli altri, lungo una vita che prosegue tra azioni semplici e ripetute. Ci si esibisce compiaciuti di essere osservati, omettendo troppo spesso il nostro dovere di ribellione. Proprio ora, per esempio, vorrei ribellarmi alla costrizione del quotidiano. Subito dopo mi dico che non è meno quotidiano scrivere di filosofia o condurre esperimenti scientifici di quanto non lo sia sedere a tavola e parlare coi vicini durante il pranzo. Bisogna dunque capire che non tutto ciò che è quotidiano è necessariamente sciatto e volgare. La vita di ogni giorno 1 è una lotta, se così non fosse, vivere sarebbe terribilmente noioso.
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Che cosa sia la scienza è praticamente impossibile dirlo. Si confonde irrimediabilmente con la filosofia, addirittura con la metafisica o con la religione. La scienza potrebbe essere intesa come ricerca sperimentale; ma cosa può definirsi, in senso proprio, un esperimento? Inoltre sembrerebbe indispensabile alla scienza un fondamento teoretico: l’esperimento deve basarsi su di una metodologia fondata su principi teorici. L’indagine scientifica deve andare alla ricerca della verità in quanto non può offrire risultati palesemente falsi. Le continue smentite delle diverse verità scientifiche attraverso i secoli dimostrano però che la scienza, pur ricercando la verità, trova spesso verità apparenti che si rivelano facilmente false; che il suo è un procedere per errori successivi; che la soluzione dei problemi posti avviene solo per avvicinamenti progressivi, continuamente rimessi in dubbio. È desolante dover ammettere che la scienza tende verso la verità, ma il suo cammino è costellato di false affermazioni. La verità della scienza sembrerebbe così non essere altro che un desiderio, forse «il» desiderio, mentre tutto il resto sarebbe menzogna. Però la consapevolezza dell’errore ci dà la certezza che da qualche parte esiste la verità, che la scienza ha il dovere di perseguire: ricomincia il gioco, infantile e perverso. Già anticamente si era stabilito che l’esperimento consistesse nel riprodurre in laboratorio un fenomeno naturale per osservarne il comportamento e dirigerlo; oggi i laboratori sono sofisticatissimi e vengono applicati metodi sperimentali ad ogni branca del sapere. In base a verifiche di laboratorio, la psicoanalisi ha sperimentalmente verificato che nel cosiddetto «transfert» analitico paziente e terapeuta riproducono esperienze traumatiche e rapporti interpersonali del passato, che vengono in quel modo «attualizzati». Proprio grazie a questa «attualizzazione» si può agire sugli effetti di quegli eventi ora presentificati. Ogni attualizzazione si riproduce però nel presente con caratteristiche proprie, sempre più o meno diverse e da quelle trascorse, perciò si rende necessario un nuovo transfert del transfert stesso c che ci permetta di osservarle nel «laboratorio» dello studio psicoanalitico, in parallelo a e mettendole a confronto, esperienze passate e presenti. Anche qui il tentativo spe- rimentale ci permette soltanto di avvicinarci alla verità, poiché essa non può comunque venire riprodotta uguale. Tra esperimento e vita anche in campo psicoanalitico si g verifica comunque uno scarto, infinetesimale e incolmabile.
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Potrebbe a questo punto venire introdotto l’argomento dell’intuizione, ultimo rifugio di l, quelli che, giunti al punto estremo della ricerca sperimentale e documentata, debbono rinunciare al metodo e compiere un balzo nel vuoto. Intuitivamente si possono superare abissi di incertezza e giungere nel L nucleo della verità delle cose. Paghi pur nel- u la non verificabilità assoluta di tale verità. n Chi rinuncia all’intuizione si deve ritenere soddisfatto di essere andato sufficientemente vicino alla verità «scientifica» con metodo e senza avventurarsi nell’indeterminato. Può darsi che ci sia una terza possibilità capace di sintetizzare le due precedentemente enunciate, ma io non la conosco. Sperimentazione ed intuizione restano le due modalità imperfette che attendono ancora la sintesi scientificamente perfetta delle loro potenzialità, lontana tanto dallo sperimentalismo impreciso quanto dal misticismo velleitario.
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Come ho detto, la psicoanalisi è una scienza fra le altre, coi suoi laboratori e i suoi metodi di ricerca. Giustamente è lodata e denigrata, cosa che le permette di non chiudersi nell’autocontemplazione narcisistica.
Anch’essa però non ha ancora messo a punto una metodologia soddisfacente e sufficientemente inattaccabile. Prerogativa che per ora non ha raggiunto alcun settore della ricerca scientifica. Se in un solo campo ciò fosse avvenuto, l’uomo potrebbe oggi essere il padrone assoluto dell’universo per lui senza più misteri; ma così non è. La psicoanalisi, che dell’uomo cerca di conoscere desideri e fantasie, sogni e realtà, resta una scienza limitata, per la mancanza di un metodo rigoroso, per una sperimentazione disordinata, per l’incertezza claudicante delle verità che crede di attingere.
Proprio per questo è una scienza come le altre: ambigua ed inattendibile. È però, come le altre, una scienza utile.
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Io sono profondamente convinto dell’utilità della psicoanalisi; lo constato quotidianamente nel mio lavoro clinico e in quello dei miei collaboratori. La mia veste di supervisore mi consente di seguire personalmente decine di storie cliniche, che si articolano in una successione vertiginosa di sogni, fantasie, aggressioni, fughe e ritorni, difese e resistenze. Riscontro però sempre un processo evolutivo ben definito che porta spessissimo a una conclusione positiva. Senza stare ora ad esaminare dettagliatamente cosa per me significhi il termine «positivo», basterà dire che considero un positivo un processo che porta l’essere umano in questione all’arricchimento, alla conquista di una consapevolezza, al superamento di alcuni sintomi dolorosi. Ritengo insomma positivo un processo che aiuta l’uomo ad essere «più uomo». Ammetto di essere incorso in una scontata tautologia, ma non avrei saputo come esprimermi meglio. Ancor più convinto sono del fatto che la psicoanalisi non lascia indifferente chi ne viene per qualche ragione a contatto. Chiunque infatti sia rimasto per un certo tempo coinvolto in un procedimento psicoanalitico non può esserne uscito immutato. Al confronto ho trovato meno efficaci altri tipi di rapporto terapeutico. Mi pare che ciò sia dovuto alla caratteristica della psicoanalisi di intervenire sui contenuti psichici ed esistenziali più profondi, scuotendo, sommovendo, disturbando, cambiando sempre qualcosa. Io sono anche convinto che aiuti . l’uomo a stare meglio e così mi pare che avvenga. Interessante può essere notare come il mutamento in psicoanalisi riguardi non solo il paziente ma anche il terapeuta, proprio perché i due interagiscono. Forse proprio per questo è comprensibile che si abbia tanta paura della psicoanalisi, perché grande è la paura del cambiamento, del miglioramento, della guarigione stessa. Talvolta verifico nei nostri pazienti casi di guarigione sbalorditivi; so che alcuni li ritengono frutto di suggestione, ma io non li ritengol per questo meno validi, quando sono guarigioni stabili, che hanno avuto la meglio sui fantasmi della nevrosi o addirittura dellla follia.
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La psicoanalisi, come tutte le altre attività umane non sfugge purtroppo agli inconvenienti della banalizzazione ed ha un grande nemico nella divulgazione pseudo-scientifica operata dai mezzi di comunicazione c di massa; però è più vulnerabile di altri settori della scienza proprio perché l’oggetto a della sua ricerca è l’uomo, con le sue prerogative anche più semplici. Tutti magari si avventurano a pontificare sulla fisica nuc1eare, sulla genetica, sull’ecologia, però subentra spesso un certo pudore che trattiene sulla soglia chi fosse tentato di improvvisare in modo eccessivamente infondato affermazioni apodittiche. Invece la psicologia c è considerata un’acquisizione generalizzata s su cui tutti sproloquiano senza pudori per I la sua natura di scienza comprensibile e comunicabile anche dal linguaggio comune, l trasformando così in debolezza un grande pregio scientifico. Ognuno di noi nel corso della vita compie atti non facilmente spiegabili che però si sforza di capire, in genere applicando ragionamenti di buon senso, come quelli di causa ed effetto, che talvolta sono sufficienti, ma non sempre. L’inconscio individuale e l’inconscio sociale costituiscono un intreccio di desideri, idee, stimoli e pensieri quanto mai ardito e complesso che solo può essere affrontato da un metodo di analisi del profondo che abbia basi scientifiche. Così che capire fino in fondo il significato anche di un solo gesto è difficile come capire l’universo, il senso della vita e della morte, come dimostrare l’esistenza di Dio; mentre la comprensione solo parziale o a livelli più superficiali può sembrare cosa alla portata di ognuno. Per questo tutti credono di poter argomentare sulla psicoanalisi, soltanto perché ne percepiscono un superficiale livello di lettura.
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Così accade che chi pratica professionalmente la psicoanalisi venga guardato con aria di sufficienza: qualunque compagno di viaggio in treno, qualunque commensale ad un pranzo si ritiene infatti in diritto di dirgli in faccia cose sgradevoli. Agli psicoanalisti si crede di poter dire tranquillamente che la loro non è una terapia scientificamente fondata; che il loro lavoro è poco altro che circonvenzione di incapace, insultando senza scrupoli una persona che non si conosce. lo personalmente sono spesso oggetto di questi attacchi improvvisi da parte di persone che non mi conoscono:un’insegnante di ginnastica aerobica o un traduttore mi attaccano a brutto muso e senza rispetto; mentre io mai mi permetterei di dire loro che penso che ogni traduttore sia in fondo un traditore dell’opera letteraria o scientifica che traduce o che considero l’areobica un attentato alla salute umana. Sia ben chiaro:· all’interno di una discussione approfondita in merito ai pregi o difetti di una scienza o di una tecnica si può legittimamente esprimere ogni dubbio; e quindi anche sulla psicoanalisi. Prima però di insultare un traduttore, un’insegnante di ginnastica o uno psicoanalista bisogna avere almeno la decenza di giudicarli per quello che essi realmente fanno. La possibilità di giudicare uno psicoanalista e di insultarlo pare invece dispensare tutti da ogni elementare regola di buona educazione: egli può essere insultato a prima vista, le sue scelte professionali svalutate, il suo sapere deriso. Mi rendo conto che proprio questo attacco generalizzato e qualunquistico dimostra quanto sia efficace la psicoanalisi e quanto il suo metodo abbia fortemente impressionato la nostra società che così se ne difende.
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I più infervorati sono coloro che dicono di temere soprattutto il potere di controllo che la psicoanalisi può esercitare sulla libertà individuale. Conosco un giovanotto che si dichiara affascinato dalla psicoanalisi da cui però preferisce mantenere le distanze perché teme di diventarne dipendente: «E se poi scoprissi di non poterne più fare a meno?» E questo un bel ragazzo che passa otto ore al giorno in palestra ad allenarsi.
Non gli dissi: «Ma tu lo sai che se lasci di colpo la palestra corri grossi rischi di diventare grasso e sfasciato, proprio perché il tuo organismo ora dipende dal tuo sistema di allenamento; non ti fa paura l’idea che ora non potrai più farne a meno?» Mi limitai a sorridere sorseggiando un liquore:
anche l’alcool può ingenerare dipendenza.
Una mia amica ha assoluta fiducia nel suo parroco che consulta sempre, anche a sproposito, con costernazione del buon prete che si vede costretto a dare consigli sull’arredamento e sulla gestione dei risparmi di famiglia, consigli clinici, letterari ed artistici. Difficile dire quando sia cominciata tale dipendenza che peraltro non viene messa in discussione. lo trovo che la dipendenza dalla psicoanalisi, per quanto patologica, possa se non altro contare sulla consapevolezza dello psicoanalista, il quale, se fa onestamente il proprio lavoro, sarà capace egli stesso di distruggerla. Varrebbe anche la pena di valutare le differenze tra bisogno e dipendenza. Qualcuno sostiene che il rischio più grave della psicoanalisi è il plagio. Ho dovuto molto combattere contro questa idiozia. Chi non subisce qualche forma di cosiddetto plagio (per fortuna il reato non è più contemplato dal nostro codice)? li figlio dal genitore, lo studente dal professore, i teen ager dai loro idoli cinematografici o musicali, la vecchietta dal prete, il militare dal generale, il politicante dal leader, l’amante dall’amato, il malato dal primario. Cosa mai è dunque questo plagio se non una modalità ineliminabile del rapporto di un essere umano con gli altri? li modello ispiratore c’è sempre, più o meno consapevolmente in ciascuno di noi. Ci sono ovviamente modelli negativi, tentativi violenti di imporsi, condizionamenti strumentali delle coscienze che approfittano di atteggiamenti passivi o troppo acritici, ma ciò non riguarda più la psicooanalisi che lo sport o la carriera.
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C’è poi la posizione diffusa che il disagio psichico sia un problema che ciascuno deve affrontare «da sé». Secondo questo atteggiamento ognuno deve trovare solo in se stesso la forza di affrontare i propri malesseri e non importa se il risultato finisca con essere per lo più lo scacco e la caduta nella follia: farmaci e psicoterapie sono demonizzati e temuti più che il delirio che davvero distrugge. In genere cattivi consiglieri in questo senso sono persone incapaci di stabilire un vero rapporto di solidarietà con chicchessia che inducono volentieri negli altri la tentazione dell’isolamento più completo. Perché si dovrebbe temere l’aiuto che può venirci dagli altri? Viviamo in un mondo ad alta specializzazione, dove ci sono esperti di ogni settore in grado di essere utili, se il loro intervento é accolto criticamente, ma con buonafede. Rifiutare a priori l’aiuto che può venire da uno strumento dalla ben precisa identità quale è oggi la psicoanalisi, si traduce in un gesto autolesivo, come del miope che rifiutasse l’oculistica o del cardiopatico che non accettasse la cardiologia. Chi dice che la psicoanalisi non è una scienza come le altre, perché combina disastri frequenti, non si rende forse conto di quanto disastroso possa essere l’effetto di un errore in qualsiasi settore dell’attività scientifica o tecnologica.
Dagli errori del cardiochirurgo, a quelli dell’ingegnere, a quelli del cuoco ogni intervento gestito da chi è impreparato o da chi si è lasciato sfuggire un particolare importante può avere effetti distruttivi. Intervenire vuoI dire sempre rischiare, ma l’alternativa è solo quella della paralisi impotente e passivamente rassegnata a tutto.
Vivere significa lottare per vivere sempre meglio e un rapporto terapeutico può dare il suo contributo a migliorare la qualità della vita. Quello della psicoanalisi è un cammino lungo e difficile durante il quale possono esserci momenti in cui la meta sembra essere perduta di vista, ma al fondo del quale si può ritrovare se stessi.
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C’è poi un settore dell’opinione che taccia la psicoanalisi di essere una «scienza borghese». È questo il parere soprattutto di artisti o pretesi tali che sostengono che la psicoanalisi distrugge la fantasia e la creatività umane, perché la reintegrazione che essa opera, reinserendo i pazienti nei ranghi della società conformista, ridimensiona le potenzialità artistiche che invece sarebbero esaltate dalla follia. È vero che la psicoanalisi non indulge all’esaltazione e che auspica il controllo sulle emozioni, ma questo non significa in alcun modo ridurre potenziali creativi, caso mai indica un percorso preferenziale. lo stesso sono impegnato artisticamente e non mi sono mai sentito limitato dalla consapevolezza che mi viene dalla psicoanalisi. Certo anch’essa mi fornisce spunti di riflessione, come la religione, la cultura, la scienza. Non credo di essere l’eccezione che conferma la regola.