71 – Aprile ‘91

aprile , 1991

La pittura più recente di Mario Fallani presentata alla Galleria il Gabbiano, di via della Frezza, con un’introduzione al catalogo di Federico Fellini, con cui il pittore fiorentino collaborò in occasione del ‘Casanova’, sembra avere raggiunto un livello di maturazione ottimale, libera restando però da ogni pesantezza. La maturità di chi ha raggiunto grande sicurezza di disegno e di tavolozza; la giovinezza di chi sa sorprendere e sorprendersi. Chi osserva le sue nature morte e i suoi paesaggi si stupisce per l’in usuale accostamento di oggetti, per i colori rarefatti, mediati da una luminosa foschia che vela le cose proteggendole come segreti su cui è lecito appena posare lo sguardo. Una nebbia che avvolge l’osservatore, uscendo dal quadro stesso e indugiando sui bordi delle cornici. I suoi parchi, le rose, i bricchi e le tazze vengono accostati con un criterio che non è logico: i fiori sono abbandonati su piani indefiniti o in contenitori incongrui; la tazza sta sul blocco di marmo spaccato insieme col ritratto, il cilindro d’acciaio e la stampella porta-abiti in fil di ferro. La vastità dei parchi e dei boschi è introdotta da alcuni fiori recisi languenti nella luce bagnata di ombre. Le variazioni sono minime, ma bastano a rivelare una visione del mondo che si raccoglie in se stessa, in un crepuscolare amore per le cose più intime.

Si legge nell’introduzione di Stefano Socci alla mostra di Stanfond Brent alla Galleria Incontro d’arte: «…schemi di strutture astratte che potrebbero apparire arbitrari se non fossero così intonati alla superficie emblematica». Noi invece troviamo la profusione di linee curve e rette, che si sovrappone ai quadri di Brent proprio arbitraria. Sono linee che spezzano la logica delle figure che stanno dietro, senza creare giochi contrappuntistici od armonici.
L’emblematicità poi non riusciamo a capire dove la si possa trovare. Ci è venuto anche il sospetto che questa sia una pittura per sadomasochisti: creare un tutto disarticolato e fastidioso. Per fortuna ciò che si intravede oltre i reticolati non è un gran che, e quindi il fastidio è molto mitigato da tanta inessenzialità. Non c’è molto più che qualche rilievo architettonico, appena abbozzato il più delle volte, che, come in un ripensamento che è anche un pentimento, il giovane artista americano annulla sotto linee colorate che qualche volta incorniciano, ma più spesso cancellano. Roma sembra aver disorientato il giovane ‘visiting artist’ dell’ Accademia Americana che non riuscendo a coglierne l’eredità storica ed artistica, cerca di imprigionarla in schemi personali precostituiti, che non hanno però possibilità di intesa. Del resto i pochi esempi di astrattismo geometrico non convincono dell’assimilazione profonda di una qualunque estetica o poetica.