71 – Aprile ‘91

aprile , 1991

Stadelmann, di Claudio Magris, è un esempio di quel teatro colto e letterario, che, in genere, viene considerato poco coinvolgente. Indubbiamente le parole del copione sono molte e quando cercano di calarsi in azioni sceniche dinamiche, perdono un po’ della loro efficacia. Veramente validi sono soprattutto i monologhi, e non solo quelli del protagonista, che per la loro grande intensità letteraria riescono a diventare anche teatralmente azzeccati. Stadelmann, personaggio realmente esistito, fu un domestico del grande Goethe, successivamente scacciato, finito in un ospizio di lena, sopravvivendo alla morte del suo illustre padrone. Per un caso, in mancanza di meglio viene invitato a tenere la commemorazione di Goethe in occasione del decimo anniversario della morte. Come richiamato a nuova dignità umana, il vecchio laido e misero si accende di una luce interiore, che però presto lo spinge al delirio. Incalzante in ogni momento si percepisce l’identificazione del servo con la figura del padrone, amato e detestato allo stesso tempo. Il vecchio si esalta con frasi magniloquenti che ripetono le teorie dei colori, delle affinità elettive, dei pensieri di vita e di morte del Poeta e letterato. Tutto è infarcito dai ricordi di una frequentazione intima e quotidiana che ha avuto in comune anche qualche passione amorosa e la inclinazione al vino. La tragedia si costruisce lentamente: sogni e disperazione si mescolano e tutt’attorno a Stadelmann-Goethe, turbina una miriade di personaggini, meschini, petulanti, disperati e cattivi, disegnati da Magris, in punta di penna, con efficacia, anche se ben lontani dalla grandezza drammatica del protagonista. L’epilogo si avrà con il suicidio per impiccagione commesso dal vecchio incapace di consegnarsi nuovamente ad una vita solo sua. La scena tragica raggiunge un’acmé molto intensa. Qui a nostro avviso si sarebbe dovuto concludere lo spettacolo, che invece prosegue con un andirivieni di commenti moralistici e fatterelli che disperdono la tensione in un velo di noia.
Tino Schirinzi dà un saggio di bravura tecnica e poetica, raffinato fino all’estremo non tralascia però di usare tutti gli effetti di un grande attore che vuole commuovere e coinvolgere. Abbastanza bravi tutti gli altri componenti del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, che la regia di Egisto Marcucci guida con efficacia ed appropriatezza. Le scene di Graziano Gregori assolvono con facilità una funzione preziosa di rapidi cambiamenti di atmosfere, con qualche suggestione d’effetto, come la gigantesca carrozza, o il marchingegno del mutilato. Le musiche di Daisy Lumini non ci sembrano aggiungere molto all’intensità complessiva dell’allestimento, mancando forse un’occasione importante, in uno spettacolo così cangiante per le atmosfere e le suggestioni.