Psicoanalisi contro n. 72 – Alcune riflessioni critiche

aprile , 1991

Tutti noi diciamo quotidianamente una a grande quantità di cose ovvie. Certo, non si può sperare di pronunziare soltanto frasi pregnanti e definitive.
Tutti parliamo anche per riempire il silenzio, ripetiamo cose già dette, riprendiamo frasi mille volte risentite. Lo spazio e il tempo si riempiono di gesti banali e di ovvietà verbali; si guarda la rosa di un roseto e si dice: «Come è bella, sembra dipinta!» Poi si osserva la rosa riprodotta in un quadro e si dice: «Come è bella, sembra vera!»
Gli alberi di melo, a primavera, sembra «siano stati investiti da una nevicata»; gli stessi rami, incrostati, in inverno, di neve e di ghiaccio scintillanti nel loro biancore «sembrano fioriti». Si dice che le donne «pensano solo ai vestiti» ed i maschi «parlano soltanto di calcio». Affermazioni vere e false allo stesso tempo;per quel che concerne le ultime due si sa che la noia e l’inconscio sociale condizionano maschi e femmine costringendoli con violenza brutale a riprodurre stereotipi. La solita cretina continua sospirando a dire: «Vorrei essere me stessa!» E il solito idiota dichiara che vorrebbe: «Essere più spontaneo!» Una cretina e un idiota che non sono felici dentro la loro pelle. Le banalità si sovrappongono e si accavallano e talvolta sembrano addirittura esprimere un barlume di verità. Ribellarsi al dominio delle frasi fatte e dei luoghi comuni più o meno stupidi è importante; ma la ribellione non deve esprimersi a sua volta negli stessi termini sciocchi e qualunquistici. Ricordo che molti anni fa una ragazza di sinistra e rigorosamente vegetariana, stesa su di una sudicia spiaggia, sporca e affollata da un’ambigua umanità, non appena mi sentì accennare una canzoncina tratta da un noto spot televisivo mi si erse contro come una Erinne, ridicola in quell’atteggiamento di furia, in contrasto con la figuretta spellata dal sole, e mi disse: «Queste canzoni non si cantano: sono imposte dai padroni e concorrono allo stordimento delle masse operaie per fini consumistici.» lo mi irritai appena, accorgendomi di quanto suonasse stupida in quel suo superficiale anticonformismo, mentre si riteneva paga di quel mare sporco, di quella pseudocultura naturistica, del suo femminismo d’accatto.
La stupidità dilaga, si insinua ovunque, forse non è più nemmeno possibile difendercene, ammesso che sia mai stato possibile.

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Si possono dire sciocchezze non solo a proposito degli argomenti di ordinaria quotidianità, ma anche si può parlare scioccamente di cibernetica, di filosofia kantiana, di epidemiologia, della pittura caravaggesca e della musica beethoveniana: noi tutti siamo immersi nel fluire continuo del tempo che passa. Non abbiamo tregua, i pensieri ruotano nella nostra mente e le parole ci escono di bocca quasi senza che lo vogliamo. Pensieri sciocchi, frasi inutili! È importante soffermarci a riflettere su quello che stiamo per dire, andando a ritroso, alla ricerca delle fantasie e dei desideri che ci muovono, perché così è possibile scoprire una ricchezza interiore, un’originalità che vengono perdute nel tragitto che le trasforma in parole. Perché, viene da domandarsi, il linguaggio verbale è così povero in confronto alla ricchezza di contenuti da cui parte? Proviamo ora ad analizzare le espressioni del linguaggio cosiddetto «accademico»: dei professori universitari, dei fIlosofi patentati, ma anche dei cardinali e dei politici, dei giornalisti. Tutte queste persone parlano e scri- .
vono moltissimo, anche per mestiere, ma quanti di loro sono veramente capaci di dire qualcosa di significativo e di originale? Per lo più si abbandonano a tronfi esercizi di retorica: la religione, la politica, la guerra, il bene, il male, la vita e la morte divengono formule banali raccontate da gente che è rimasta sempre un passo indietro, o a lato dei problemi. Le loro parole si costruiscono in frasi irrimediabilmente vuote, anche quando affrontano realtà della scienza (non mi riferisco qui all’ovvietà istituzionalizzata dei «divulgatori scientifici»). Le parole si traducono spesso in segni neri lasciati su fogli bianchi e le pagine si snodano inessenziali, vanificando anni di studio.

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Anch’io, ora così saggio e caustico, mi rendo conto che troppo spesso mi affatico ad accavallare frasi su frasi, per dire solo cose scontate. Accuso gli altri delle mie stesse colpe, ma non è sufficiente che io ora me ne renda conto, per discolparmi: le mie ovvietà rimangono tali, le mie banalità non si santificano, né io vengo da esse nobilitato. Talvolta verrebbe voglia di scegliere il silenzio. Ma non è possibile far tacere il fluire continuo dei pensieri e delle idee che gridano comunque, forti della loro miserevolezza di contenuti. Non ci si salva dalla stupidità neppure ammettendo di essere stati spesso stupidi. L’autocritica non è a questo fine niente più di un’ingenua trovatina che è rivolta solo al mondo degli sciocchi.

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Eppure sento agitarsi in me qualche elemento che si rifiuta di essere assimilato alle sciocchezze di cui pure sono impastato.
Sento sorgere a volte pensieri che penetrano al di là delle apparenze banali, che si rivolgono a quello che c’è di non solo superficiale, di effimero. Talvolta mi accade di percepire negli altri ed anche in me la genialità di alcune intuizioni. Resta però il fatto che abbiamo troppo tempo da riempire e lo sproloquio di parole diventa un mezzo come gli altri, lungo una vita che prosegue tra azioni semplici e ripetute. Ci si esibisce compiaciuti di essere osservati, omettendo troppo spesso il nostro dovere di ribellione. Proprio ora, per esempio, vorrei ribellarmi alla costrizione del quotidiano. Subito dopo mi dico che non è meno quotidiano scrivere di filosofia o condurre esperimenti scientifici di quanto non lo sia sedere a tavola e parlare coi vicini durante il pranzo. Bisogna dunque capire che non tutto ciò che è quotidiano è necessariamente sciatto e volgare. La vita di ogni giorno 1 è una lotta, se così non fosse, vivere sarebbe terribilmente noioso.

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Che cosa sia la scienza è praticamente impossibile dirlo. Si confonde irrimediabilmente con la filosofia, addirittura con la metafisica o con la religione. La scienza potrebbe essere intesa come ricerca sperimentale; ma cosa può definirsi, in senso proprio, un esperimento? Inoltre sembrerebbe indispensabile alla scienza un fondamento teoretico: l’esperimento deve basarsi su di una metodologia fondata su principi teorici. L’indagine scientifica deve andare alla ricerca della verità in quanto non può offrire risultati palesemente falsi. Le continue smentite delle diverse verità scientifiche attraverso i secoli dimostrano però che la scienza, pur ricercando la verità, trova spesso verità apparenti che si rivelano facilmente false; che il suo è un procedere per errori successivi; che la soluzione dei problemi posti avviene solo per avvicinamenti progressivi, continuamente rimessi in dubbio. È desolante dover ammettere che la scienza tende verso la verità, ma il suo cammino è costellato di false affermazioni. La verità della scienza sembrerebbe così non essere altro che un desiderio, forse «il» desiderio, mentre tutto il resto sarebbe menzogna. Però la consapevolezza dell’errore ci dà la certezza che da qualche parte esiste la verità, che la scienza ha il dovere di perseguire: ricomincia il gioco, infantile e perverso. Già anticamente si era stabilito che l’esperimento consistesse nel riprodurre in laboratorio un fenomeno naturale per osservarne il comportamento e dirigerlo; oggi i laboratori sono sofisticatissimi e vengono applicati metodi sperimentali ad ogni branca del sapere. In base a verifiche di laboratorio, la psicoanalisi ha sperimentalmente verificato che nel cosiddetto «transfert» analitico paziente e terapeuta riproducono esperienze traumatiche e rapporti interpersonali del passato, che vengono in quel modo «attualizzati». Proprio grazie a questa «attualizzazione» si può agire sugli effetti di quegli eventi ora presentificati. Ogni attualizzazione si riproduce però nel presente con caratteristiche proprie, sempre più o meno diverse e da quelle trascorse, perciò si rende necessario un nuovo transfert del transfert stesso c che ci permetta di osservarle nel «laboratorio» dello studio psicoanalitico, in parallelo a e mettendole a confronto, esperienze passate e presenti. Anche qui il tentativo spe- rimentale ci permette soltanto di avvicinarci alla verità, poiché essa non può comunque venire riprodotta uguale. Tra esperimento e vita anche in campo psicoanalitico si g verifica comunque uno scarto, infinetesimale e incolmabile.

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Potrebbe a questo punto venire introdotto l’argomento dell’intuizione, ultimo rifugio di l, quelli che, giunti al punto estremo della ricerca sperimentale e documentata, debbono rinunciare al metodo e compiere un balzo nel vuoto. Intuitivamente si possono superare abissi di incertezza e giungere nel L nucleo della verità delle cose. Paghi pur nel- u la non verificabilità assoluta di tale verità. n Chi rinuncia all’intuizione si deve ritenere soddisfatto di essere andato sufficientemente vicino alla verità «scientifica» con metodo e senza avventurarsi nell’indeterminato. Può darsi che ci sia una terza possibilità capace di sintetizzare le due precedentemente enunciate, ma io non la conosco. Sperimentazione ed intuizione restano le due modalità imperfette che attendono ancora la sintesi scientificamente perfetta delle loro potenzialità, lontana tanto dallo sperimentalismo impreciso quanto dal misticismo velleitario.

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Come ho detto, la psicoanalisi è una scienza fra le altre, coi suoi laboratori e i suoi metodi di ricerca. Giustamente è lodata e denigrata, cosa che le permette di non chiudersi nell’autocontemplazione narcisistica.
Anch’essa però non ha ancora messo a punto una metodologia soddisfacente e sufficientemente inattaccabile. Prerogativa che per ora non ha raggiunto alcun settore della ricerca scientifica. Se in un solo campo ciò fosse avvenuto, l’uomo potrebbe oggi essere il padrone assoluto dell’universo per lui senza più misteri; ma così non è. La psicoanalisi, che dell’uomo cerca di conoscere desideri e fantasie, sogni e realtà, resta una scienza limitata, per la mancanza di un metodo rigoroso, per una sperimentazione disordinata, per l’incertezza claudicante delle verità che crede di attingere.
Proprio per questo è una scienza come le altre: ambigua ed inattendibile. È però, come le altre, una scienza utile.

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Io sono profondamente convinto dell’utilità della psicoanalisi; lo constato quotidianamente nel mio lavoro clinico e in quello dei miei collaboratori. La mia veste di supervisore mi consente di seguire personalmente decine di storie cliniche, che si articolano in una successione vertiginosa di sogni, fantasie, aggressioni, fughe e ritorni, difese e resistenze. Riscontro però sempre un processo evolutivo ben definito che porta spessissimo a una conclusione positiva. Senza stare ora ad esaminare dettagliatamente cosa per me significhi il termine «positivo», basterà dire che considero un positivo un processo che porta l’essere umano in questione all’arricchimento, alla conquista di una consapevolezza, al superamento di alcuni sintomi dolorosi. Ritengo insomma positivo un processo che aiuta l’uomo ad essere «più uomo». Ammetto di essere incorso in una scontata tautologia, ma non avrei saputo come esprimermi meglio. Ancor più convinto sono del fatto che la psicoanalisi non lascia indifferente chi ne viene per qualche ragione a contatto. Chiunque infatti sia rimasto per un certo tempo coinvolto in un procedimento psicoanalitico non può esserne uscito immutato. Al confronto ho trovato meno efficaci altri tipi di rapporto terapeutico. Mi pare che ciò sia dovuto alla caratteristica della psicoanalisi di intervenire sui contenuti psichici ed esistenziali più profondi, scuotendo, sommovendo, disturbando, cambiando sempre qualcosa. Io sono anche convinto che aiuti . l’uomo a stare meglio e così mi pare che avvenga. Interessante può essere notare come il mutamento in psicoanalisi riguardi non solo il paziente ma anche il terapeuta, proprio perché i due interagiscono. Forse proprio per questo è comprensibile che si abbia tanta paura della psicoanalisi, perché grande è la paura del cambiamento, del miglioramento, della guarigione stessa. Talvolta verifico nei nostri pazienti casi di guarigione sbalorditivi; so che alcuni li ritengono frutto di suggestione, ma io non li ritengol per questo meno validi, quando sono guarigioni stabili, che hanno avuto la meglio sui fantasmi della nevrosi o addirittura dellla follia.

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La psicoanalisi, come tutte le altre attività umane non sfugge purtroppo agli inconvenienti della banalizzazione ed ha un grande nemico nella divulgazione pseudo-scientifica operata dai mezzi di comunicazione c di massa; però è più vulnerabile di altri settori della scienza proprio perché l’oggetto a della sua ricerca è l’uomo, con le sue prerogative anche più semplici. Tutti magari si avventurano a pontificare sulla fisica nuc1eare, sulla genetica, sull’ecologia, però subentra spesso un certo pudore che trattiene sulla soglia chi fosse tentato di improvvisare in modo eccessivamente infondato affermazioni apodittiche. Invece la psicologia c è considerata un’acquisizione generalizzata s su cui tutti sproloquiano senza pudori per I la sua natura di scienza comprensibile e comunicabile anche dal linguaggio comune, l trasformando così in debolezza un grande pregio scientifico. Ognuno di noi nel corso della vita compie atti non facilmente spiegabili che però si sforza di capire, in genere applicando ragionamenti di buon senso, come quelli di causa ed effetto, che talvolta sono sufficienti, ma non sempre. L’inconscio individuale e l’inconscio sociale costituiscono un intreccio di desideri, idee, stimoli e pensieri quanto mai ardito e complesso che solo può essere affrontato da un metodo di analisi del profondo che abbia basi scientifiche. Così che capire fino in fondo il significato anche di un solo gesto è difficile come capire l’universo, il senso della vita e della morte, come dimostrare l’esistenza di Dio; mentre la comprensione solo parziale o a livelli più superficiali può sembrare cosa alla portata di ognuno. Per questo tutti credono di poter argomentare sulla psicoanalisi, soltanto perché ne percepiscono un superficiale livello di lettura.

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Così accade che chi pratica professionalmente la psicoanalisi venga guardato con aria di sufficienza: qualunque compagno di viaggio in treno, qualunque commensale ad un pranzo si ritiene infatti in diritto di dirgli in faccia cose sgradevoli. Agli psicoanalisti si crede di poter dire tranquillamente che la loro non è una terapia scientificamente fondata; che il loro lavoro è poco altro che circonvenzione di incapace, insultando senza scrupoli una persona che non si conosce. lo personalmente sono spesso oggetto di questi attacchi improvvisi da parte di persone che non mi conoscono:un’insegnante di ginnastica aerobica o un traduttore mi attaccano a brutto muso e senza rispetto; mentre io mai mi permetterei di dire loro che penso che ogni traduttore sia in fondo un traditore dell’opera letteraria o scientifica che traduce o che considero l’areobica un attentato alla salute umana. Sia ben chiaro:· all’interno di una discussione approfondita in merito ai pregi o difetti di una scienza o di una tecnica si può legittimamente esprimere ogni dubbio; e quindi anche sulla psicoanalisi. Prima però di insultare un traduttore, un’insegnante di ginnastica o uno psicoanalista bisogna avere almeno la decenza di giudicarli per quello che essi realmente fanno. La possibilità di giudicare uno psicoanalista e di insultarlo pare invece dispensare tutti da ogni elementare regola di buona educazione: egli può essere insultato a prima vista, le sue scelte professionali svalutate, il suo sapere deriso. Mi rendo conto che proprio questo attacco generalizzato e qualunquistico dimostra quanto sia efficace la psicoanalisi e quanto il suo metodo abbia fortemente impressionato la nostra società che così se ne difende.

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I più infervorati sono coloro che dicono di temere soprattutto il potere di controllo che la psicoanalisi può esercitare sulla libertà individuale. Conosco un giovanotto che si dichiara affascinato dalla psicoanalisi da cui però preferisce mantenere le distanze perché teme di diventarne dipendente: «E se poi scoprissi di non poterne più fare a meno?» E questo un bel ragazzo che passa otto ore al giorno in palestra ad allenarsi.
Non gli dissi: «Ma tu lo sai che se lasci di colpo la palestra corri grossi rischi di diventare grasso e sfasciato, proprio perché il tuo organismo ora dipende dal tuo sistema di allenamento; non ti fa paura l’idea che ora non potrai più farne a meno?» Mi limitai a sorridere sorseggiando un liquore:
anche l’alcool può ingenerare dipendenza.
Una mia amica ha assoluta fiducia nel suo parroco che consulta sempre, anche a sproposito, con costernazione del buon prete che si vede costretto a dare consigli sull’arredamento e sulla gestione dei risparmi di famiglia, consigli clinici, letterari ed artistici. Difficile dire quando sia cominciata tale dipendenza che peraltro non viene messa in discussione. lo trovo che la dipendenza dalla psicoanalisi, per quanto patologica, possa se non altro contare sulla consapevolezza dello psicoanalista, il quale, se fa onestamente il proprio lavoro, sarà capace egli stesso di distruggerla. Varrebbe anche la pena di valutare le differenze tra bisogno e dipendenza. Qualcuno sostiene che il rischio più grave della psicoanalisi è il plagio. Ho dovuto molto combattere contro questa idiozia. Chi non subisce qualche forma di cosiddetto plagio (per fortuna il reato non è più contemplato dal nostro codice)? li figlio dal genitore, lo studente dal professore, i teen ager dai loro idoli cinematografici o musicali, la vecchietta dal prete, il militare dal generale, il politicante dal leader, l’amante dall’amato, il malato dal primario. Cosa mai è dunque questo plagio se non una modalità ineliminabile del rapporto di un essere umano con gli altri? li modello ispiratore c’è sempre, più o meno consapevolmente in ciascuno di noi. Ci sono ovviamente modelli negativi, tentativi violenti di imporsi, condizionamenti strumentali delle coscienze che approfittano di atteggiamenti passivi o troppo acritici, ma ciò non riguarda più la psicooanalisi che lo sport o la carriera.

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C’è poi la posizione diffusa che il disagio psichico sia un problema che ciascuno deve affrontare «da sé». Secondo questo atteggiamento ognuno deve trovare solo in se stesso la forza di affrontare i propri malesseri e non importa se il risultato finisca con essere per lo più lo scacco e la caduta nella follia: farmaci e psicoterapie sono demonizzati e temuti più che il delirio che davvero distrugge. In genere cattivi consiglieri in questo senso sono persone incapaci di stabilire un vero rapporto di solidarietà con chicchessia che inducono volentieri negli altri la tentazione dell’isolamento più completo. Perché si dovrebbe temere l’aiuto che può venirci dagli altri? Viviamo in un mondo ad alta specializzazione, dove ci sono esperti di ogni settore in grado di essere utili, se il loro intervento é accolto criticamente, ma con buonafede. Rifiutare a priori l’aiuto che può venire da uno strumento dalla ben precisa identità quale è oggi la psicoanalisi, si traduce in un gesto autolesivo, come del miope che rifiutasse l’oculistica o del cardiopatico che non accettasse la cardiologia. Chi dice che la psicoanalisi non è una scienza come le altre, perché combina disastri frequenti, non si rende forse conto di quanto disastroso possa essere l’effetto di un errore in qualsiasi settore dell’attività scientifica o tecnologica.
Dagli errori del cardiochirurgo, a quelli dell’ingegnere, a quelli del cuoco ogni intervento gestito da chi è impreparato o da chi si è lasciato sfuggire un particolare importante può avere effetti distruttivi. Intervenire vuoI dire sempre rischiare, ma l’alternativa è solo quella della paralisi impotente e passivamente rassegnata a tutto.
Vivere significa lottare per vivere sempre meglio e un rapporto terapeutico può dare il suo contributo a migliorare la qualità della vita. Quello della psicoanalisi è un cammino lungo e difficile durante il quale possono esserci momenti in cui la meta sembra essere perduta di vista, ma al fondo del quale si può ritrovare se stessi.

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C’è poi un settore dell’opinione che taccia la psicoanalisi di essere una «scienza borghese». È questo il parere soprattutto di artisti o pretesi tali che sostengono che la psicoanalisi distrugge la fantasia e la creatività umane, perché la reintegrazione che essa opera, reinserendo i pazienti nei ranghi della società conformista, ridimensiona le potenzialità artistiche che invece sarebbero esaltate dalla follia. È vero che la psicoanalisi non indulge all’esaltazione e che auspica il controllo sulle emozioni, ma questo non significa in alcun modo ridurre potenziali creativi, caso mai indica un percorso preferenziale. lo stesso sono impegnato artisticamente e non mi sono mai sentito limitato dalla consapevolezza che mi viene dalla psicoanalisi. Certo anch’essa mi fornisce spunti di riflessione, come la religione, la cultura, la scienza. Non credo di essere l’eccezione che conferma la regola.