Archivio di ottobre 1990

66 – Ottobre ‘90

lunedì, 1 ottobre 1990

In un procedere molto poco hegeliano, per tesi ed antitesi, che ignora completamente ogni ipotesi di sintesi, si va, tra le altre questioni, dibattendo quella delle responsabilità individuali e/o sociali dei comportamenti cosiddetti devianti o perversi. L’austero prestigio scientifico di D. Bovet e la più mondana propensione a concedersi ai dibattiti della signora Rita Levi Montalcini hanno rimesso in gioco – a proposito della droga – meccanismi polemici ormai obsoleti. Società e cultura sembrano aver deciso di far succedere ad un periodo di paradossale e masochistica auto punizione che li induceva ad incolparsi puntualmente e totalmente di tutte le «disfunzioni» individuali e collettive di un mondo eternamente in crisi con la sua stessa ragion d’essere, una sadica epoca «giustizialista» che inchiodi ciascuno alle sue responsabilità. Così dopo il delirio antipsichiatrico che pretendeva la presa in carico per conto della società iniqua di ogni psicosi, riconosciuta immancabilmente come anelito di libertà, si gabella oggi il fallimento della legge 180 come una doverosa revisione dei suoi presupposti clinici, soltanto per far tacere del tutto il fallimento politico di ogni progetto psichiatrico. E ugualmente accade che vengano usate anche tesi scientifiche di tutto rispetto, che si riferiscono a problemi clinici e genetici di interesse universale, soltanto per costruire supporti pseudo-scientifìci ad un proibizionismo ottuso e vetusto che vede nel drogato il delinquente per viziosa determinazione. Se è vero che la società non può addossarsi nel bene e nel male -le responsabilità dei comportamenti individuali, è però vero che la somma di tali comportamenti finisce col dare il carattere ad un insieme sociale che scaturisce dall’interazione degli individui che ne fanno parte. Così ereditarietà, degenerazioni cellulari, insufficienze immunitarie inter-agiscono con una realtà ambientale che hanno contribuito a determinare. La sintesi (puntualmente ignorata) vorrebbe che la malattia fosse curata e il male fosse punito in entrambe le componenti:

individuale e sociale. Chiamare malato il delinquente e incriminare chi soffre sono due tra gli errori possibili di una politica sociale. I «distinguo» sono in ogni caso di natura ideologica e clinica allo stesso tempo. Il «Mea culpa» di un ‘intera società può essere un errore quanto l’accusa che isola ciascuno nella propria colpa. Se ne può uscire forse solo accettando una prati-ca – anche politica – che metta ciascuno per quel che lo concerne, di fronte alla propria diretta responsabilità: clinica e giudiziaria nelle grandi linee; morale e sociale in ogni quotidiano confronto con l’altro da sé, con quello che un antico eufemismo utopistico ci indicava come un prossimo da amare quanto noi stessi.

66 – Ottobre ‘90

lunedì, 1 ottobre 1990

La figura di Don Chisciotte, da quando uscì dalla penna di Cervantes, ha acquisito via via una fisionomia così variegata e poliedrica che ha affascinato letterati, filosofi, musicisti e pittori. La sua figura è stata spesso usata come l’emblema della posizione dell’uomo nel mondo: illuso e [oico, folle e pratico, vinto sempre, sconfitto mai. Narcisista e sadomasochista, Don Chisciotte manifesta spudoratamente il suo inconscio e quante storie ancora si possono inventare, usando quel personaggio terribile e ridicolo!

Il bravo librettista settecentesco, Giovanni Battista Lorenzi, saccheggiando a piene mani anche i libretti di altri e con l’occhio sempre rivolto all’originale cervantesco, ha costruito per Paisiello, una vicenda attorno al cavaliere senza macchia e senza paura, estremamente godibile. I versi scorrono con facilità. Tutti i personaggi hanno una loro fisionomia, sebbene spesso tipica;

Don Chisciotte invece sfugge alle argute stereotipie degli altri: vuol diventare matto, ma non ci riesce; è disperato e allegro e talvolta raggiunge, sia pur sfiorandola appena, l’allucinata e metafisica stralunatezza dei Don Chisciotte di S. Dalì; merito questo, in gran parte, della regia di Pino Micol; ma, ascoltando le note che Paisiello gli riserva, ci si accorge che il regista ha evidenziato qualcosa che è già nella musica. L’eroe di Cervantes acquisisce infatti una precisa fisionomia, ricca di agglomerati sonori, con improvvise scivolate nel minore, ninne nanne apparentemente incongrue e mille e mille altre trovate armoniche e melodiche di cui solo l’orecchio distratto potrebbe non cogliere la pregnanza fisiognomica con la quale astutamente costruiscono un personaggio ben disegnato e che sfugge alle facilità della tipizzazione.

Gli altri personaggi hanno musiche un po’ più convenzionali, mai però ovvie. Sempre la malinconia si intreccia all’allegria con stupefacente abilità. Talvolta un brivido del basso continuo getta addirittura un’ombra drammatica che svanisce subito. Qui bisogna stare allegri e sorridere; e il fine è pienamente realizzato.

Abbiamo trovato apprezzabilissima la messa in scena del Don Chisciotte di Giovanni Paisiello, che il Teatro dell’Opera ha realizzato al Teatro Valle, anche se la gustosa direzione di Pier Giorgio Morandi è stata ogni tanto tradita da un’orchestra un po’ distratta. Paolo Barbacini (Don Chisciotte), eccellente attore, si è fatto notare per la voce potente e per i bei vocalizzi, però non sempre è risultato preciso nei finali delle frasi e la sua dizione ci è parsa ambigua. Romano Franceschetto (Sancio Pancia) è stato eccezionale, con una bella voce pastosa, profonda e molto espressiva.

Maria Angela Peters (La Contessa) ha esibito una bella voce fluida e squillante. Elena Zilio (La Duchessa) pur espressiva, ha lamentato soprattutto nella prima parte, qualche difficoltà nel passare dai toni acuti a quelli gravi, ma si è ripresa più che brillantemente nell’ultimo atto. Mario Bolognesi (Don Calafrone) ha esibito una voce rotonda e aristocratica. Bruno Praticò (Don Platone) si è distinto per i bei giochi di caratterizzazione vocale. Brave anche Bernadette Lucarini (Carmosina), Francesca Arnone (Cardolella) e Annabella Rossi (Ricciardetta) .

Il gruppo dei Mimi si è ben mosso sui suggerimenti coreografici di Marta Ferri e le scene e i costumi di Ugo Nespolo hanno gustosamente ambientato la scena sotto un Vesuvio quasi futurista. Della regia di Pino Micol, oltre a quanto abbiamo già detto, diremo ancora che è stata capace di amalgamare il tutto con grande sensibilità «armonica» .

66 – Ottobre ‘90

lunedì, 1 ottobre 1990

In una situazione molto sgradevole siamo stati costretti ad assistere alla proiezione del film La stazione di e con Sergio Rubini. La sala del Capranichetta in via di ristrutturazione ha ora le dimensioni di uno strettissimo e lungo ridotto; sorta di budello dalla pessima acustica, in cui pur pochi spettatori risultano ammassati in modo inverosimile. Anche lo schermo ha dimensioni poco più che televisive. Diciamo questo perché il lettore possa fare la tara considerando che il nostro giudizio può essere stato influenzato dalla nostra irritazione. Comunque sosteniamo senza mezzi termini che si tratta di un film irrimediabilmente brutto; trasudante caramelloso sentimentalismo. Il copione è banale, la sceneggiatura è fatta di battute iper-scontate, che però fingono di essere altamente poetiche nella loro disarmante ovvietà. Noi crediamo di non amare i film «kolossal», con piramidi, Napoleoni, Regine di Saba, eccetera, e sappiamo che un bel film può essere fatto di inquadrature semplici che rappresentano il quotidiano, quasi sorprendendolo nelle sue più dimesse, ma per questo poetiche, situazioni. Nel film di Rubini c’è poca poesia: un capostazione sciroccato, un’irritante bellona fuggita da una festa di ricchi, un fidanzato violento e citrullo. Su tutto ciò piove. Nella stazioncine di provincia passano alcuni treni ed uno involerà la bellona, dopo un bacio d’addio al capostazione.
Ci hanno lasciati stupefatti le musiche di Antonio di Pofi che ci sono risuonate assolutamente scollegate dal resto. La loro fattura è sapiente e raffinata: ondeggianti come sono tra Debussy, Léhar e Strawinsky, sembrerebbero scritte per un’altra storia.
Di recitazione nel film non ce n’è: ciascuno fa se stesso; per primo Sergio Rubini, la cui maschera di tenerissimo ebete persiste attraversando tutti i ruoli e risultando di volta in volta più o meno adatta; qui sarebbe adatta se egli stesso in qualità di regista avesse dato al personaggio qualche occasione, che invece va puntualmente perduta anche quando il crescendo da westerndrammatico ne offrirebbe l’opportunità. Rubini regista ha scelto un compromesso tra realismo e minimalismo, limitandosi a qualche citazione che però rinuncia subito a sviluppare, disperdendola tra locomotive e fuochi divoranti. Margherita Buy ed Ennio Fantastichini permettono alla cinepresa di riposarsi dall’obbligo di poeticità ad ogni costo e allo spettatore di esimersi per un attimo dal dovere di bontà. L’effetto notte e la pioggia esauriscono quasi tutto il potenziale narrativo della fotografia.

66 – Ottobre ‘90

lunedì, 1 ottobre 1990

Balthasar Klossowski de Rola in arte Balthus, è un pittore francese che ha ormai ottantasette anni, il quale tra gli anni sessanta e settanta è stato direttore dell’ Accademia di Francia di Villa Medici, che oggi gli ha dedicato una grande mostra, cosa che noi riteniamo giusta e dovuta. In Italia lo si vorrebbe far passare per un grande pittore, ma Balthus non lo è. È un artista piccolo, piccolo che sa disegnare, ma non ben dipingere, il cui mondo poetico è estremamente limitato, ristretto a due gatti e due donne con le tette scoperte; il resto quasi non c’è. Un artista «vero» può descrivere il mondo attraverso un particolare solo, invece la sua è una pittura sempre scritta in lettere minuscole. Noi siamo piuttosto stanchi di leggere le note di quei critici imbelli che sostengono che un artista quando non contorce o smembra le figure è un «classico». In Balthus non c’è classicità; le sue sono povere immagini ripetute con squallida onestà, che annoiano e mortificano. L’arte vera turba e disturba oppure dà gioia. Queste esposte a Villa Medici sono tele buone per mamme che hanno un vuoto sulla parete del soggiorno da riempire. Un gatto allo specchio non è che un gatto allo specchio, se il pittore non sa dargli altri significati. Chi abbia anche solo una volta osservato l’atteggiamento di un felino davanti ad una superficie riflettente, avrà notato una quantità quasi illimitata di espressioni, metafisicamente entusiasmanti; quello di Balthus invece è solo un gatto davanti allo specchio. Secondo noi, forse, Balthus potrebbe da domani cominciare a dipingere sul serio.

66 – Ottobre ‘90

lunedì, 1 ottobre 1990

Il volume di Massimo Cacciari, Dell’inizio (Adelphi, 1990, pagg. 701, Lit. 65.000) vorrebbe essere ad un tempo una «summa» medievale, una storia della filosofia e una raccolta di scritti esoterici. Le osservazioni innumerevoli, talvolta sono stimolanti, talvolta rasentano il delirio; però sono spesso psicagogiche: accompagnano il pensiero di chi legge, senza lasciare che si smarrisca.
Noi vogliamo qui gettare qualche fascio di luce radente sull’affollarsi e l’aggrovigliarsi di concetti e immagini, sistematicamente asistematici. Si parte nel primo Libro parlando a lungo di Kant, cercando di salvare di lui anche ciò che non è salvabile.
Si dicono cose già dette da molti, però nell’analizzare con Kant il principio-non principio della conoscenza, si seguono alcuni percorsi fecondi. Cominciando dal problema della Ragione. Che cosa è la Ragione? Q. almeno, che cos’è per coloro che, come Kant, usano termini come Vernunft, Nous o appunto Ragione? La ragione risulta così una presenza ambigua e irrazionale; ma che cosa è a sua volta l’irrazionale? Le navi di Kaspar Friedrich salpano verso lidi incomprensibili, o desolamente ovvi. Kant parla di una Ragione che non conosce, ma che inventa nelle sue fantasticherie poetiche. Il tribunale della Ragione non ha come giudice la Ragione stessa ma i suoi giudici non sono che i rappresentanti dell’empirismo pragmatico e dogmatico ai quali Kant non riconosce alcun diritto. Secondo noi Kant è il filosofo dell’irrazionale, geniale nella sua inconsapevolezza. La filosofia potrebbe incominciare da lui, ma forse in lui ha trovato la propria morte.
Dice Cacciari: «Kant ripete il gesto dell’ Aristotele di Raffaello. La mano che tempera e dispone, delimita e comprende, fissa il nostro orizzonte» (pag.55). I Buchstabenmenschen, gli uomini che compitano, si servono nel dipinto di Raffaello, di un dito:
all’insù va quello di Platone, all’ingiù quello di Aristotele. Kant però conosceva il Platone e l’Aristotele che stancamente allora come oggi troppi ripetono.
«L’applicazione trascendentale dei principi della ragione trasforma in apparenza perciò reifica, l’Incondizionato» (pag. 149 L’incondizionato coincide con l’indeterminatezza che c’è tra l’essere e il nulla? Dice l’autore che la matematica ce ne dà la dimostrazione. A noi sembra piuttosto un gioco semplicistico non solo dell’Idealismo. Quale matematica? Fino a che non si risolverà questo quesito Kant ed Hegel non potranno darci risposte esaurienti. Noi pensiamo che il loro discorso vada oltre: non verso la ragione, ma verso la «poesia», intesa nel duplice significato di «arte» e di «poiesis». Altre risposte ci dice Cacciari vengono da Schelling per cui si può sfuggire ad un sistema affermando la positività dell’incondizionato o Wittgenstein per il quale ciò che conta è: «Non come il mondo è, ma che è, ciò è il Mistico» Il misticismo e Plotino sono due fra i temi ricorrenti. Per il filosofo neo-platonico Trinità non è mai Tre; può essere due Padre-Figlio o uno: Eros; in questa prospettiva Plotino viene presentato come colui che tenta di superare la contraddizione della propria eresia.
Il secondo Libro Crux Philosophorum inizia sulle rive dell’Ilisso. Dopo un divagare tra miti e invocazioni alla divinità, l’autore e il suo interlocutore cercano di placare le Muse, consapevoli, come lo siamo tutti che esse non sono benevole Eumenidi, ma restano le Erinni di sempre. Da Methis passa alla memoria e da questa al tempo. Con molta arguzia ci viene proposta la pretesa contrapposizione tra la concezione del tempo immanente-trascendente dei moderni filosofi come Heidegger e la sua spazializzazione fisica da parte degli antichi. Siamo tutti d’accordo, con buona pace anche di Einstein, che sono riusciti meglio a dare senso a spazio e tempo i filosofi di ieri che gli scienziati e i pensatori di oggi.
Nel Libro finale si torna a dibattere il concetto di inizio e l’argomentare si fa sempre più rarefatto: Plotino si disperde in Cusano; il tempo del Figlio si smarrisce nel: «batter del ciglio che il lampo dell’Aiòn, della Vita vera…» (pag. 483). Abbastanza interessante abbiamo trovato il discorso sulla ambivalenza e contraddittorietà delle pulsioni: bisogna seguire Bosch per capire, più che il bene e il male, la colpa e la punizione.
L’oscurità della tragedia del kouros, di Pan e delle Madri si confonde poi nell’esposizione successiva con il mito di Dioniso che si sovrappone al Figlio; che infine diventa tensione drammatica e lotta.
Vorremmo anche noi dire a Cacciari: «Speravo che lei profetasse… mentre invece ha preteso di dire in ispirito quei «mysteria» che nessuno comprende» (pag. 678). Il tutto si conclude tra il riso e il sorriso di un Gesù analizzato con cura eccessivamente scenografica e con un astuto uso del linguaggio «poetico».

66 – Ottobre ‘90

lunedì, 1 ottobre 1990

La Birreria Bavarese di via Vittoria 47 è un esercizio da poco sulla scena della ristorazione romana. Il locale è aperto fino alle due di notte, si presenta lindo, con un arredo un po’ «alla casetta dei sette nani», e alcune Biancaneve deliziosamente protettive, gentili ed affabili. «Ce n’est qu’un début!» Perciò vorremo vedere come si evolverà la cosa nel tempo; però l’altra sera abbiamo avuto l’occasione di gustare qualcosa di gradevole, offerto con generosissima abbondanza. Il piatto Bavarese è un misto di carni, di vario genere onestamente grigliate, con deliziosissimi tocchetti di patata al forno, crauti e fagioli; inusuale e ottima la proposta della coda alla russa, delicatissima, con un tocco di panna, e pazienza se in questo caso non è quella acida come prescritto dalla ricetta: ricavata cioè dall’affioramento sul latte tenuto a riposo per dodici ore in un recipiente di rame o di legno. Molto buoni anche due tra i dolci offerti: la torta di papavero e lo strudel di mele (apfelstrudel); mentre non ci è piaciuta la Sachertorte asciutta, ricoperta di panna montata insapore ed inconsistente; ma ormai tutti sanno che questo dolce si può mangiare solo a Vienna in casa Sacher o a Salisburgo all’Osterreischicher Hof! Abbiamo bevuto una birra italiana: la Forst, non sgradevole ma debole; abbiamo invece apprezzato un dolce liquore ai frutti di bosco. Il conto è il punto un po’ dolente: lo riteniamo eccessivo. All’ingresso siamo stati accolti dal suono di un concerto per violino di Mozart e la nostra Biancaneve ci ha informato sul progetto di organizzare presto serate con musica classica dal vivo, con ricerca sulla Tafelmusik dei bei tempi andati.

Eravamo molto contenti perché alcuni nostri amici ci avevano indicato un ristorantino di cucina cosiddetta «indiana», gradevole e a buon mercato. Noi siamo sempre lieti di poter indicare ai nostri lettori luoghi sfiziosi e a buon prezzo; perciò ci siamo recati, baldanzosi e ottimamente disposti alla India House di via S. Cecilia 8, in Trastevere.
La delusione è stata molto amara; non solo perché amari erano realmente i cibi, ma anche perché i prezzi non erano così bassi. Ci siamo trovati in un localaccio di dubbia igienicità, con un servizio che rasentava il delirio, un vinaccio tremendo che l’etichetta definiva toscano, acido fino all’inverosimile. I piatti poi erano quasi incredibili: qualche intruglio su cui dominava il sentore di curry, una pasta fritta almeno tre mesi prima, grondante di sgradevoli spezie; fagioli in scatola; brandelli di carni irriconoscibili e immangiabili; in più una desolante ed occidentalissima coscetta di pollo alla «mamma sono stufa» a conclusione del tutto, dal momento che, fortunatamente, la casa non aveva dessert da offrire. Noi e i nostri amici abbiamo riso e scherzato, parlando di tutt’altro; forse abbiamo anche mangiato.

L’inferno è lastricato di buone intenzioni! Sulla strada che conduce da Santa Maria Maggiore a Piazza Vittorio, esattamente al numero 45 di via Carlo Alberto si affaccia il ristorante di Agata e Romeo, coppia ottimamente intenzionata a trasformare un vecchio e popolaresco locale, dalle tradizioni un po’ «grevi», in un accogliente cenacolo, dove con qualche conforto si possano apprezzare le discrete novità di una cucina più lieve ed innovativa.
Purtroppo però anche in questo caso i neofiti della cosiddetta cucina creativa italiana rivelano i loro limiti proprio di creatività.
Offrire come piatti di apertura un filetto di coniglio mal disossato, con troppo sale e un filo di buon olio, o un altrettanto salato piattino di seppioline lessate o ancora un salmone marinato agli agrumi, che proprio per l’assenza di ogni marinatura si faccia notare, è un brutto modo di incominciare. Anche i primi piatti si rivelano alquanto deboli: siano l’evanescente crema di funghi porcini, il passato di verdure ai tre sapori anodino, o scialbe lasagnette di grano duro agli ortaggi, per non parlare delle fettuccine nere al ragù di seppie, piuttosto «pappose» e insapori. Tanto peggiori ci sono parse queste . proposte dal momento che abbiamo potuto confrontar le con due piatti «di tradizione» davvero eccellenti: la zuppa di lenticchie di Castelluccio con olio di frantoio e dadolata di pane bruno, giustamente piccante e ricca di una gamma di armoniosi sapori; e i rigatoni con la pagliata freschissima e di grande delicatezza, cotti con un sugo profumato di pomodoro e formaggio, tirato alla perfezione.
È mancato nella rosa dei secondi piatti il risvolto a sorpresa, per cui ci siamo solo un po’ intristiti provando un plastificato storione brasato al barolo; una pessima grigliata di verdure all’aceto balsamico, che ha rievocato in noi terrori infantili, quando la verdura era il «castigo»; un’orrenda e maleodorante fianchetta di vitella alla pizzaiola, un fritto misto ambiguamente giapponese ed un carré d’agnello alle erbe piuttosto trascurato. I dolci di Agata ci sono parsi di pochissima professionalità: un latte cotto, una crostatina da autogrill e un indescrivibile milefoglie sbriciolato su di una vischiosa cremina. A parte il Satrico di Aprilia, imbottigliato per la casa, la selezione dei vini m è piuttosto ampia e ben articolata; oltre ad una bottiglia di Champagne Paul Barras di Bouzy, abbiamo apprezzato un rosso Gamay di Livon dal delizioso profumo d’erba; il Vin Santo ci è sembrato piuttosto ordinario. Il conto non è troppo elevato; anche se abbiamo ragione di credere che la gestione attuale si stia barcamenando tra due tipi di clienti: quelli della zona, commercianti e turisti di passaggio, e i borghesi «gourmet» in cerca di quel qualcosa di nuovo che pare non si riesca mai a trovare.

66 – Aprile ‘90

lunedì, 1 ottobre 1990

In questi ultimi anni c’è stata una grande rivalutazione di Gabriele D’Annunzio, Principe di Montenevoso. La sua fortuna nella storia della letteratura mondiale segue proprio il percorso della dialettica hegeliana. Domenico Rapagnetta lottò con disperata volontà per la sua affermazione, fino a raggiungere il suo nome scintillante e principesco una fama ambigua ma indiscutibile. Musicista, poeta, drammaturgo, seduttore di donne ed omosessuale, eroe guerresco e debosciato amante del decadente e del bello, fino a un punto di esasperata caricatura liberty; ha però saputo talvolta toccare la grandezza della .c1assicità. Un altro merito gli va ascritto: quello di avere aperto la cultura italiana a quella straniera. Troppi letterati e artisti del tempo infatti balbettavano a malapena qualche frasetta desunta dai manuali di inglese o francese, pur se molti di loro conoscevano il latino. Invece D’Annunzio, inseguito da donne, giovinetti e creditori, scorrazzava per l’Europa tornando poi in Italia a spalancare finestre troppo chiuse su un’aria di vizzo provincialismo nazionalistico. Alcune sue opere poetiche raggiungono vette eccelse: sacre e romantiche, come La sera Fiesolana o La pioggia nel pineto; o tremende di una bellezza truculenta, come Le città terribili; poi ancora non si possono dimenticare le esasperate ed efficacissime tragedie; su tutto secondo noi domina lo splendido volume delle Novelle della Pescara.
Tra le colonne del Vittoriale si aggirava il Poeta con fare un po’ cialtrone, ma non gli venne mai meno una certa dignità. La caduta del fascismo, del quale non fu mai – un ebete seguace, lo travolse (ed ecco realizzarsi l’antitesi): e dopo i veri e presunti antifascisti, i sudici sessantottini semianalfabeti si scagliarono contro di lui senza averlo mai letto, anche perché non sapevano cosa fosse il «diaspro» o credevano che la «lorica» fosse un animale. Oggi è forse giunto il momento della sintesi: si può anche guardare a D’Annunzio con affettuosa tenerezza, sorriderne benevolmente, ma apprezzare la sua opera di artista genialmente intensa; e siamo d’accordo con chi tutto questo vuole condensare nell’espressione: «un D’Annunzio simpatico».
Tullio Kezich è riuscito nel suo dichiarato intento, scrivendo un testo Il Vittoriale degli Italiani, che si evolve elegantemente senza indulgenze e senza sbavature, con umorismo e partecipazione.
Legionari, squadristi, puttane e clown affollano le stanze della villa di Cargnacco sul lago di Garda, dove il ritmo della giornata è scandito dal Questore Musso, un po’ carceriere e un po’ balia del Vate per conto del Regime che non rinuncia all’occasione di disporre a piacimento di un ostaggio tanto illustre. Il Poeta appare personaggio vinto in apparenza, ma consapevole, oltre che della sua grandezza, anche del suo potere. Recitando se stesso, quale gli altri se lo aspettano, ma anche quale lui vuole che sia, D’Annunzio si concede momenti di Verità: siano quelli dell’amore, siano quelli dell’orgoglio o del dolore; così facendo egli riesce persino a scherzare con quella Morte, sua corteggiatrice instancabile; così illusa ed elusa, da non essere certa di possederlo neppure nel feretro.
Corrado Pani ha dato vita ad uno straordinario D’Annunzio. Alle prime battute ci è parso che imitasse troppo da vicino Petrolini; ma subito dopo le due versioni di uno stesso D’Annunzio si sono delineate con chiarezza: una c1ownesca, sbracata e un po’ ridicola, che si alternava, senza fratture, con l’altra di un personaggio fortemente autoironico, ma pieno di una grande consapevolezza morale. La voce dell’attore era ricca di inflessioni, sfumature e tensioni sempre appropriatissime, così il gestire del burattino lasciava il posto alla sobrietà quasi immobile e tutta interiore dell’uomo. Pensiamo che Pani sia persino stato capace di sfuggire alla intelligente tirannide di Missiroli il cui intervento sul testo è stato in alcuni punti non proprio di buon gusto; ma si sa che ai registi spesso non piace fare il proprio mestiere; si sentono autori frustrati e come il paguro Bernardo fanno i parassiti del lavoro altrui. Nonostante ciò va riconosciuta alla regìa una grande capacità di organizzare uno spettacolo ben ritmato, allegro con intelligenza.
Bruno Alessandro, Nestor Garay e Caterina Vertova hanno sostenuto i ruoli principali a fianco del protagonista con grande impegno dando vita a tre «caratteri» della migliore tradizione teatrale. Tutti gli altri hanno costituito un «coro» variato, fatto di spunti non solo umoristici, costruendo figure che restano chiare e distinte nella memoria; li citiamo nell’ordine della locandina: Maria Sardone, Francesca Giordani, Loredana Foschi, Lorella Semi, Enrico Fasella, Lorenzo Moncelsi, Nazzareno Macri, Orazio Stracuzzi, Antonio Farallo e Luca Rocco. Le musiche di Benedetto Ghiglia, molto presenti, erano talvolta un po’ ovvie e persino fuori stile; in altri punti, pur nella loro voluta semplicità popolaresca (non capiamo il perché) erano accattivanti e accompagnavano bene l’azione. Scene e costumi di Enrico Job ci sono sembrati giustamente macchinosi e fronzuti, anche divertenti.

Manfred Karge è uno tra gli autori recentemente venuti alla ribalta dell’occidente, dopo una formazione professionale nella Berlino Est, prima della caduta del «muro». Nato a Brandeburgo nel 1938, ha lavorato anche come attore nel Berliner Ensemble e un’impronta espressionista è rimasta nel suo teatro, come si può ben vedere in questo suo testo del 1982, Max Gericke, rimesso in scena al Teatro Sala Umberto di Roma dalla Compagnia del Collettivo.
La storia, riassumibile in poche parole, è quella di una donna che, per sopravvivere, prende clandestinamente il posto del marito defunto, nella vita e sul lavoro. Quando si alza il sipario, agli occhi degli spettatori si presenta il fantoccio di Ella, che, indossando le vesti del marito gruista, esprime la fatica di una finzione durata tutta una vita.
È comprensibile che un’idea teatrale simile possa aver affascinato un attore amante del virtuosismo; però questo copione non ha saputo aggiungere alcunché allo spunto da cui prende le mosse. Il lungo monologo della donna travestita è terribilmente piatto, con tutti i più ovvi luoghi comuni: l’angoscia di voler anche essere donna; le terribili situazioni con i maschioni nazisti che la/lo vogliono denudare; riflessioni, qua e là, sulla vita, che vorrebbero essere profonde, ma per lo più fanno solo sorridere.
Non c’è vera tensione drammatica in una situazione che potenzialmente ne avrebbe molta. Lo spettacolo non costruisce davvero qualcosa e non ci riesce neppure col finale della donna che, in uno spogliarello alla rovescia, si riappropria delle sue vesti femminili.
Dicevamo prima che il testo sembrerebbe scritto soprattutto per offrire una grande occasione al virtuosismo di un attore; ma l’attrice Elisabetta Pozzi salmodia monotonamente per tutto il tempo con una voce da «Topo Gigio». Le uniche varianti sono state di alzare o abbassare in qualche punto il tono di voce, senza peraltro che ci fosse neanche di questo una vera ragione drammatica. Anche il gesticolare, chaplinianamente disarticolato, non giovava ad inverare drammaticamente il personaggio, relegandolo piuttosto in uno stereotipo.
Pessimo artefice di tale operazione e malvagio consigliere dell’attrice è stato Walter Le Moli, il quale ha curato oltre che la messa in scena, anche la traduzione.
Noi abbiamo spesso e volentieri tessuto elogi delle qualità artistiche di Elisabetta Pozzi;
ma ci pare che questa volta si sia cacciata sconsideratamente in un grosso pasticcio, forse suggestionata dalla retorica degli «effettacci» che, falsamente, si crede debbano far sempre presa sul pubblico. A ciò ha contribuito anche pesantemente il trucco di Cinzia Costantino che ha affogato dietro un mascherone grottesco ogni potenzialità espressiva. La scena di Tiziano Santi e i costumi di Susanna Montecolli ci sono sembrati assecondare mestamente il progetto complessivo.

Psicoanalisi contro n.66 – Vili o temerari?

lunedì, 1 ottobre 1990

Le motivazioni non sono necessariamente giustificazioni.
Invece, molto spesso gli esseri umani ritengono che sia vero il contrario. Anch’io mi sono trovato più di una volta a dire a me stesso di aver compiuto un gesto o pronunciato una frase per motivi ben precisi, dando a questi motivi e alla mia consapevolezza di essi forza sufficiente a far tacere ogni rimorso. Una volta tanto la psicoanalisi classica e il più banale senso comune si trovano d’accordo. Lo «scrutatore d’anime» si ritiene infatti appagato nello scoprire il «perché» dei comportamenti, scivolando, inconsapevolmente nell’amoralità. Chi cura – si dice – deve ritenersi appagato dal fatto di essere riuscito a distinguere la salute dalla malattia; suo compito è quello di aiutare gli uomini a combattere la malattia, senza dare giudizi di bene o di male. Questo atteggiamento comporta però il rischio di gravi inconsapevolezze.

2

Il problema della giustizia o dell’ingiustizia dei comportamenti umani ha da sempre coinvolto i filosofi. Platone ed Aristotele hanno preferito dare apoditticamente le loro definizioni, senza curarsi di collegarle troppo alla realtà quotidiana. Un altro grande padre della filosofia occidentale, Socrate di Atene, ha affrontato in modo diverso il problema, collegando l’ingiustizia al male e facendo coincidere il male con l’ignoranza e il bene con la conoscenza. Egli affermava che nessuno compie il male pienamente consapevole di averlo scelto, ma credendo di scegliere invece un bene. Quest’ipotesi però è geniale e ambigua allo stesso tempo, poiché potrebbe anche indurre alla pigrizia morale. Mentre da una parte il filosofo si pone il problema della verità, dall’altra sembra infatti cedere alla più totale rassegnazione, consegnandosi all’amoralità.

3

Si potrebbe tentare di snidare la cattiva coscienza, con una considerazione ulteriore che, però, almeno all’apparenza, non ci fa ancora progredire nel cammino alla ricerca della verità. Gli uomini, siano filosofi o terapeuti o anche persone qualunque, tendono a giustificare con le motivazioni soprattutto i propri comportamenti e non fanno altrettanto nei confronti degli altri, che anzi giudicano, disapprovano, e contro i quali si ribellano. Considerazione che vale anche per i terapeuti che però fingono un atteggiamento diverso nei confronti dei loro pazienti, verso le cui motivazioni ostentano indifferenza morale e assenza di giudizio.

4

È vero che il cosiddetto «paziente» non deve sentirsi aggredito dal terapeuta con giudizi morali inesorabili e distruttivi, altrimenti è tentato di rifugiarsi nella menzogna o nel silenzio; ma anche il terapeuta della psiche deve porsi il problema del proprio atteggiamento morale.
L’indifferenza è dannosa perché abbandona gli uomini nella solitudine: ci si mette nelle mani di un terapeuta o di un amico anche per non sentirsi soli. Trovarsi di fronte soltanto uno specchio freddo e gelido è disperante. L’essere umano, fin da bambino, è pronto a tutto: malattia, strilli, esibizioni di ogni genere pur di attirare su di sé l’attenzione altrui. Così è anche per gli adulti: la mancanza di un vero interesse, del calore affettuoso di un altro, possono provocare serie crisi di depressione narcisista o sadomasochista. Il narcisismo infatti ci permette di illuderci di una possibilità di esistenza completamente autocentrica, che prescinde da ogni altro, mentre il sadomasochismo ci permette di sfruttare la sofferenza nostra e altrui come fonte di piacere esistenziale.

5

Mi si potrebbe obiettare che quello che la terminologia tradizionale designa come «senso di colpa» (e che io oggi preferisco chiamare «rimorso») è la prova che non sempre la conoscenza delle motivazioni serve come principio di giustificazione; per cui un eccesso di moralismo intransigente può risultare distruttivo per chi già sente su di sé il peso della colpa. Il giusto atteggiamento deve dunque trovarsi a metà strada tra l’indifferenza terapeutica e il rigore morale? Orazio, l’antico poeta latino, avrebbe risposto affermativamente, contraddetto però da quell’Aristotele cui pretendeva di rifarsi, e per il quale invece la virtù che sta nel mezzo tra due eccessi è tale solo quando non reca in sé le tracce di alcuno dei due, ma nasce da quell’azione perfettamente armoniosa che la ragione costruisce. Il coraggio è altrettanto lontano dalla temerarietà quanto dalla viltà, e non ne reca traccia alcuna.

6

Socrate è stato un vile o un temerario?
Ha invitato gli uomini a non dare giudizi morali oppure li ha indotti a concentrarsi sulla ricerca del vero nella quale soltanto è possibile trovare il bene? Ha difeso la sua coerenza fino al sacrificio della propria vita; ma la sua vita è stata coerenza a che principio? Alla sua personale idea di bene, che difatto non esiste in base a quanto egli stesso ha affermato: il bene coincide con la verità, ovvero la verità distrugge il concetto di bene; ma l’unico bene è nella ricerca della verità. Socrate è andato alla ricerca dell’essenza dell’uomo, se non l’ha trovata è perché non la si può trovare. Bisogna forse morire per affermare ciò che non può essere detto?

7

Per un altro verso, seguendo il banale senso comune e la presunzione degli scienziati possiamo dire che le motivazioni sono sempre giustificazioni; non solo per noi, ma anche per gli altri. Asteniamoci dunque dal giudicare e diciamo la verità; raggiungeremo così la salute. Il discorso però ricomincia daccapo: chi dirà dove sta la salute?
Che cosa è la malattia?

8

Si impone a questo punto la scelta: le motivazioni sono o non sono giustificazioni?
Voglio rendere esplicita la mia scelta di uomo, di scienziato, di artista: perciò sostengo allora esplicitamente che per me le motivazioni non sempre possono essere giustificazioni. Io so che sarei disonesto se mi concedessi anche soltanto la scappatoia di dire che mentre come uomo e artista mi sento nel pieno diritto di giudicare, quando però mi pongo lo stesso problema come scienziato e terapeuta allora mi limito ad osservare, a gettare la luce della coscienza là dove c’è l’ombra dell’inconscio e sicuro della mia superiorità mi astengo da ogni giudizio.

9

Proprio in questo tipo di distinzioni si annida l’inganno più grave: quello che sottrarrebbe alla mia funzione terapeutica parte della mia persona. Se sono onesto so che questo non è possibile e che la mia parzialità mi segna anche quando intervengo. Se lo negassi sarei immorale e non solo amorale; peggio: non sarei neppure uno scienziato rispettabile. Anche la scienza ha bisogno di rigore morale: non esiste psicoanalista onesto che possa dirsi imparziale senza con questo ingannare se stesso e gli altri.

10

Quando, molti anni or sono, io scelsi la teoria freudiana come punto di riferimento nel mio cammino psicoanalitico, lo feci già col giudizio dell’individuo che sceglie un orientamento piuttosto che un altro, per ragioni di parte, non in base ad un oggettivo ed asettico criterio di oggettività o neutralità; ma seguendo quello che in quel momento era il mio desiderio di verità, condizionato dalla somma delle mie altre scelte ed esigenze esistenziali. Poi, con l’andare degli anni, ho scelto di costruire una mia metapsicologia, con la massima sincerità possibile nei confronti miei e del mondo; ma ugualmente non debbo fingere di ignorare che anche in questo caso scelte e condizionamenti, espliciti ed impliciti, oscuri addirittura, contribuirono a determinarmi in un senso piuttosto che in un altro. Se così non fosse il cammino scientifico si arresterebbe. Anche la scelta di un dogma non è una scelta obiettiva; il dogma può dare sicurezza, ma alle spalle della sua scelta le motivazioni possono essere chiare solo fino ad un certo punto.
Bisogna avere il coraggio di accettare per l’uomo l’impossibilità di vedere al di là di precisi limiti.

11

L’arte è la sola forse che possa dare l’illusione o l’impressione reale di andare oltre i limiti stabiliti da quella che comunemente si crede sia la possibilità di conoscenza razionale: l’arte può attingere o credere di attingere il mistero. Se anche mi resta il dubbio che sia un’illusione, pure è un’illusione che mi conforta e mi rallegra. Per questo mi permetto di sperare che arte e scienza non siano poi in opposizione così netta fra loro come per lo più noi tutti crediamo. Ne può essere un indice il fatto che la voce dei primi filosofi si espresse in versi poetici.

12

Dunque bisogna ribadire che l’errore più grave che uno scienziato possa compiere è quello di credere nella propria assoluta obiettività. Questo può causare il delirio: cioè un vero e proprio distacco quasi assoluto dalla realtà, nel quale si realizza la sovrapposizione di narcisismo e sadomasochismo. Molto importante invece è avere sempre la consapevolezza di quanto ambigui siano il nostro dire e il nostro pensare.

13

Il pericolo opposto ed analogo da cui bisogna ugualmente guardarsi è quello di cadere in un soggettivismo parossistico per il quale al di là dell’individuo-soggetto non c’è altra realtà. Io ho i miei pensieri e le mie fantasie che non debbono però esaurire tutto il campo della mia ricerca. «L’uomo è misura di tutte le cose»; ma l’uomo deve costruirsi pesi e misure che gli permettano di affrontare la realtà. La realtà siamo noi nel mondo ed il mondo intorno a noi e con noi.

14

Io non voglio ingannare gli altri e neppure me stesso; ma è impossibile uscire puliti dalla lotta per la vita. Non c’è verginità possibile per chi è destinato a conoscere il male. Perché dico «verginità» e «lotta»?
Perché sono condizionato da un’esperienza che mi costringe a sentire la vita come una colpa, una lotta da cui non posso esimermi? Tutto questo mentre io sento sempre più crescere in me il bisogno di parlare d’amore!