66 – Ottobre ‘90

ottobre , 1990

La Birreria Bavarese di via Vittoria 47 è un esercizio da poco sulla scena della ristorazione romana. Il locale è aperto fino alle due di notte, si presenta lindo, con un arredo un po’ «alla casetta dei sette nani», e alcune Biancaneve deliziosamente protettive, gentili ed affabili. «Ce n’est qu’un début!» Perciò vorremo vedere come si evolverà la cosa nel tempo; però l’altra sera abbiamo avuto l’occasione di gustare qualcosa di gradevole, offerto con generosissima abbondanza. Il piatto Bavarese è un misto di carni, di vario genere onestamente grigliate, con deliziosissimi tocchetti di patata al forno, crauti e fagioli; inusuale e ottima la proposta della coda alla russa, delicatissima, con un tocco di panna, e pazienza se in questo caso non è quella acida come prescritto dalla ricetta: ricavata cioè dall’affioramento sul latte tenuto a riposo per dodici ore in un recipiente di rame o di legno. Molto buoni anche due tra i dolci offerti: la torta di papavero e lo strudel di mele (apfelstrudel); mentre non ci è piaciuta la Sachertorte asciutta, ricoperta di panna montata insapore ed inconsistente; ma ormai tutti sanno che questo dolce si può mangiare solo a Vienna in casa Sacher o a Salisburgo all’Osterreischicher Hof! Abbiamo bevuto una birra italiana: la Forst, non sgradevole ma debole; abbiamo invece apprezzato un dolce liquore ai frutti di bosco. Il conto è il punto un po’ dolente: lo riteniamo eccessivo. All’ingresso siamo stati accolti dal suono di un concerto per violino di Mozart e la nostra Biancaneve ci ha informato sul progetto di organizzare presto serate con musica classica dal vivo, con ricerca sulla Tafelmusik dei bei tempi andati.

Eravamo molto contenti perché alcuni nostri amici ci avevano indicato un ristorantino di cucina cosiddetta «indiana», gradevole e a buon mercato. Noi siamo sempre lieti di poter indicare ai nostri lettori luoghi sfiziosi e a buon prezzo; perciò ci siamo recati, baldanzosi e ottimamente disposti alla India House di via S. Cecilia 8, in Trastevere.
La delusione è stata molto amara; non solo perché amari erano realmente i cibi, ma anche perché i prezzi non erano così bassi. Ci siamo trovati in un localaccio di dubbia igienicità, con un servizio che rasentava il delirio, un vinaccio tremendo che l’etichetta definiva toscano, acido fino all’inverosimile. I piatti poi erano quasi incredibili: qualche intruglio su cui dominava il sentore di curry, una pasta fritta almeno tre mesi prima, grondante di sgradevoli spezie; fagioli in scatola; brandelli di carni irriconoscibili e immangiabili; in più una desolante ed occidentalissima coscetta di pollo alla «mamma sono stufa» a conclusione del tutto, dal momento che, fortunatamente, la casa non aveva dessert da offrire. Noi e i nostri amici abbiamo riso e scherzato, parlando di tutt’altro; forse abbiamo anche mangiato.

L’inferno è lastricato di buone intenzioni! Sulla strada che conduce da Santa Maria Maggiore a Piazza Vittorio, esattamente al numero 45 di via Carlo Alberto si affaccia il ristorante di Agata e Romeo, coppia ottimamente intenzionata a trasformare un vecchio e popolaresco locale, dalle tradizioni un po’ «grevi», in un accogliente cenacolo, dove con qualche conforto si possano apprezzare le discrete novità di una cucina più lieve ed innovativa.
Purtroppo però anche in questo caso i neofiti della cosiddetta cucina creativa italiana rivelano i loro limiti proprio di creatività.
Offrire come piatti di apertura un filetto di coniglio mal disossato, con troppo sale e un filo di buon olio, o un altrettanto salato piattino di seppioline lessate o ancora un salmone marinato agli agrumi, che proprio per l’assenza di ogni marinatura si faccia notare, è un brutto modo di incominciare. Anche i primi piatti si rivelano alquanto deboli: siano l’evanescente crema di funghi porcini, il passato di verdure ai tre sapori anodino, o scialbe lasagnette di grano duro agli ortaggi, per non parlare delle fettuccine nere al ragù di seppie, piuttosto «pappose» e insapori. Tanto peggiori ci sono parse queste . proposte dal momento che abbiamo potuto confrontar le con due piatti «di tradizione» davvero eccellenti: la zuppa di lenticchie di Castelluccio con olio di frantoio e dadolata di pane bruno, giustamente piccante e ricca di una gamma di armoniosi sapori; e i rigatoni con la pagliata freschissima e di grande delicatezza, cotti con un sugo profumato di pomodoro e formaggio, tirato alla perfezione.
È mancato nella rosa dei secondi piatti il risvolto a sorpresa, per cui ci siamo solo un po’ intristiti provando un plastificato storione brasato al barolo; una pessima grigliata di verdure all’aceto balsamico, che ha rievocato in noi terrori infantili, quando la verdura era il «castigo»; un’orrenda e maleodorante fianchetta di vitella alla pizzaiola, un fritto misto ambiguamente giapponese ed un carré d’agnello alle erbe piuttosto trascurato. I dolci di Agata ci sono parsi di pochissima professionalità: un latte cotto, una crostatina da autogrill e un indescrivibile milefoglie sbriciolato su di una vischiosa cremina. A parte il Satrico di Aprilia, imbottigliato per la casa, la selezione dei vini m è piuttosto ampia e ben articolata; oltre ad una bottiglia di Champagne Paul Barras di Bouzy, abbiamo apprezzato un rosso Gamay di Livon dal delizioso profumo d’erba; il Vin Santo ci è sembrato piuttosto ordinario. Il conto non è troppo elevato; anche se abbiamo ragione di credere che la gestione attuale si stia barcamenando tra due tipi di clienti: quelli della zona, commercianti e turisti di passaggio, e i borghesi «gourmet» in cerca di quel qualcosa di nuovo che pare non si riesca mai a trovare.