66 – Aprile ‘90

ottobre , 1990

In questi ultimi anni c’è stata una grande rivalutazione di Gabriele D’Annunzio, Principe di Montenevoso. La sua fortuna nella storia della letteratura mondiale segue proprio il percorso della dialettica hegeliana. Domenico Rapagnetta lottò con disperata volontà per la sua affermazione, fino a raggiungere il suo nome scintillante e principesco una fama ambigua ma indiscutibile. Musicista, poeta, drammaturgo, seduttore di donne ed omosessuale, eroe guerresco e debosciato amante del decadente e del bello, fino a un punto di esasperata caricatura liberty; ha però saputo talvolta toccare la grandezza della .c1assicità. Un altro merito gli va ascritto: quello di avere aperto la cultura italiana a quella straniera. Troppi letterati e artisti del tempo infatti balbettavano a malapena qualche frasetta desunta dai manuali di inglese o francese, pur se molti di loro conoscevano il latino. Invece D’Annunzio, inseguito da donne, giovinetti e creditori, scorrazzava per l’Europa tornando poi in Italia a spalancare finestre troppo chiuse su un’aria di vizzo provincialismo nazionalistico. Alcune sue opere poetiche raggiungono vette eccelse: sacre e romantiche, come La sera Fiesolana o La pioggia nel pineto; o tremende di una bellezza truculenta, come Le città terribili; poi ancora non si possono dimenticare le esasperate ed efficacissime tragedie; su tutto secondo noi domina lo splendido volume delle Novelle della Pescara.
Tra le colonne del Vittoriale si aggirava il Poeta con fare un po’ cialtrone, ma non gli venne mai meno una certa dignità. La caduta del fascismo, del quale non fu mai – un ebete seguace, lo travolse (ed ecco realizzarsi l’antitesi): e dopo i veri e presunti antifascisti, i sudici sessantottini semianalfabeti si scagliarono contro di lui senza averlo mai letto, anche perché non sapevano cosa fosse il «diaspro» o credevano che la «lorica» fosse un animale. Oggi è forse giunto il momento della sintesi: si può anche guardare a D’Annunzio con affettuosa tenerezza, sorriderne benevolmente, ma apprezzare la sua opera di artista genialmente intensa; e siamo d’accordo con chi tutto questo vuole condensare nell’espressione: «un D’Annunzio simpatico».
Tullio Kezich è riuscito nel suo dichiarato intento, scrivendo un testo Il Vittoriale degli Italiani, che si evolve elegantemente senza indulgenze e senza sbavature, con umorismo e partecipazione.
Legionari, squadristi, puttane e clown affollano le stanze della villa di Cargnacco sul lago di Garda, dove il ritmo della giornata è scandito dal Questore Musso, un po’ carceriere e un po’ balia del Vate per conto del Regime che non rinuncia all’occasione di disporre a piacimento di un ostaggio tanto illustre. Il Poeta appare personaggio vinto in apparenza, ma consapevole, oltre che della sua grandezza, anche del suo potere. Recitando se stesso, quale gli altri se lo aspettano, ma anche quale lui vuole che sia, D’Annunzio si concede momenti di Verità: siano quelli dell’amore, siano quelli dell’orgoglio o del dolore; così facendo egli riesce persino a scherzare con quella Morte, sua corteggiatrice instancabile; così illusa ed elusa, da non essere certa di possederlo neppure nel feretro.
Corrado Pani ha dato vita ad uno straordinario D’Annunzio. Alle prime battute ci è parso che imitasse troppo da vicino Petrolini; ma subito dopo le due versioni di uno stesso D’Annunzio si sono delineate con chiarezza: una c1ownesca, sbracata e un po’ ridicola, che si alternava, senza fratture, con l’altra di un personaggio fortemente autoironico, ma pieno di una grande consapevolezza morale. La voce dell’attore era ricca di inflessioni, sfumature e tensioni sempre appropriatissime, così il gestire del burattino lasciava il posto alla sobrietà quasi immobile e tutta interiore dell’uomo. Pensiamo che Pani sia persino stato capace di sfuggire alla intelligente tirannide di Missiroli il cui intervento sul testo è stato in alcuni punti non proprio di buon gusto; ma si sa che ai registi spesso non piace fare il proprio mestiere; si sentono autori frustrati e come il paguro Bernardo fanno i parassiti del lavoro altrui. Nonostante ciò va riconosciuta alla regìa una grande capacità di organizzare uno spettacolo ben ritmato, allegro con intelligenza.
Bruno Alessandro, Nestor Garay e Caterina Vertova hanno sostenuto i ruoli principali a fianco del protagonista con grande impegno dando vita a tre «caratteri» della migliore tradizione teatrale. Tutti gli altri hanno costituito un «coro» variato, fatto di spunti non solo umoristici, costruendo figure che restano chiare e distinte nella memoria; li citiamo nell’ordine della locandina: Maria Sardone, Francesca Giordani, Loredana Foschi, Lorella Semi, Enrico Fasella, Lorenzo Moncelsi, Nazzareno Macri, Orazio Stracuzzi, Antonio Farallo e Luca Rocco. Le musiche di Benedetto Ghiglia, molto presenti, erano talvolta un po’ ovvie e persino fuori stile; in altri punti, pur nella loro voluta semplicità popolaresca (non capiamo il perché) erano accattivanti e accompagnavano bene l’azione. Scene e costumi di Enrico Job ci sono sembrati giustamente macchinosi e fronzuti, anche divertenti.

Manfred Karge è uno tra gli autori recentemente venuti alla ribalta dell’occidente, dopo una formazione professionale nella Berlino Est, prima della caduta del «muro». Nato a Brandeburgo nel 1938, ha lavorato anche come attore nel Berliner Ensemble e un’impronta espressionista è rimasta nel suo teatro, come si può ben vedere in questo suo testo del 1982, Max Gericke, rimesso in scena al Teatro Sala Umberto di Roma dalla Compagnia del Collettivo.
La storia, riassumibile in poche parole, è quella di una donna che, per sopravvivere, prende clandestinamente il posto del marito defunto, nella vita e sul lavoro. Quando si alza il sipario, agli occhi degli spettatori si presenta il fantoccio di Ella, che, indossando le vesti del marito gruista, esprime la fatica di una finzione durata tutta una vita.
È comprensibile che un’idea teatrale simile possa aver affascinato un attore amante del virtuosismo; però questo copione non ha saputo aggiungere alcunché allo spunto da cui prende le mosse. Il lungo monologo della donna travestita è terribilmente piatto, con tutti i più ovvi luoghi comuni: l’angoscia di voler anche essere donna; le terribili situazioni con i maschioni nazisti che la/lo vogliono denudare; riflessioni, qua e là, sulla vita, che vorrebbero essere profonde, ma per lo più fanno solo sorridere.
Non c’è vera tensione drammatica in una situazione che potenzialmente ne avrebbe molta. Lo spettacolo non costruisce davvero qualcosa e non ci riesce neppure col finale della donna che, in uno spogliarello alla rovescia, si riappropria delle sue vesti femminili.
Dicevamo prima che il testo sembrerebbe scritto soprattutto per offrire una grande occasione al virtuosismo di un attore; ma l’attrice Elisabetta Pozzi salmodia monotonamente per tutto il tempo con una voce da «Topo Gigio». Le uniche varianti sono state di alzare o abbassare in qualche punto il tono di voce, senza peraltro che ci fosse neanche di questo una vera ragione drammatica. Anche il gesticolare, chaplinianamente disarticolato, non giovava ad inverare drammaticamente il personaggio, relegandolo piuttosto in uno stereotipo.
Pessimo artefice di tale operazione e malvagio consigliere dell’attrice è stato Walter Le Moli, il quale ha curato oltre che la messa in scena, anche la traduzione.
Noi abbiamo spesso e volentieri tessuto elogi delle qualità artistiche di Elisabetta Pozzi;
ma ci pare che questa volta si sia cacciata sconsideratamente in un grosso pasticcio, forse suggestionata dalla retorica degli «effettacci» che, falsamente, si crede debbano far sempre presa sul pubblico. A ciò ha contribuito anche pesantemente il trucco di Cinzia Costantino che ha affogato dietro un mascherone grottesco ogni potenzialità espressiva. La scena di Tiziano Santi e i costumi di Susanna Montecolli ci sono sembrati assecondare mestamente il progetto complessivo.