Psicoanalisi contro n.66 – Vili o temerari?

ottobre , 1990

Le motivazioni non sono necessariamente giustificazioni.
Invece, molto spesso gli esseri umani ritengono che sia vero il contrario. Anch’io mi sono trovato più di una volta a dire a me stesso di aver compiuto un gesto o pronunciato una frase per motivi ben precisi, dando a questi motivi e alla mia consapevolezza di essi forza sufficiente a far tacere ogni rimorso. Una volta tanto la psicoanalisi classica e il più banale senso comune si trovano d’accordo. Lo «scrutatore d’anime» si ritiene infatti appagato nello scoprire il «perché» dei comportamenti, scivolando, inconsapevolmente nell’amoralità. Chi cura – si dice – deve ritenersi appagato dal fatto di essere riuscito a distinguere la salute dalla malattia; suo compito è quello di aiutare gli uomini a combattere la malattia, senza dare giudizi di bene o di male. Questo atteggiamento comporta però il rischio di gravi inconsapevolezze.

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Il problema della giustizia o dell’ingiustizia dei comportamenti umani ha da sempre coinvolto i filosofi. Platone ed Aristotele hanno preferito dare apoditticamente le loro definizioni, senza curarsi di collegarle troppo alla realtà quotidiana. Un altro grande padre della filosofia occidentale, Socrate di Atene, ha affrontato in modo diverso il problema, collegando l’ingiustizia al male e facendo coincidere il male con l’ignoranza e il bene con la conoscenza. Egli affermava che nessuno compie il male pienamente consapevole di averlo scelto, ma credendo di scegliere invece un bene. Quest’ipotesi però è geniale e ambigua allo stesso tempo, poiché potrebbe anche indurre alla pigrizia morale. Mentre da una parte il filosofo si pone il problema della verità, dall’altra sembra infatti cedere alla più totale rassegnazione, consegnandosi all’amoralità.

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Si potrebbe tentare di snidare la cattiva coscienza, con una considerazione ulteriore che, però, almeno all’apparenza, non ci fa ancora progredire nel cammino alla ricerca della verità. Gli uomini, siano filosofi o terapeuti o anche persone qualunque, tendono a giustificare con le motivazioni soprattutto i propri comportamenti e non fanno altrettanto nei confronti degli altri, che anzi giudicano, disapprovano, e contro i quali si ribellano. Considerazione che vale anche per i terapeuti che però fingono un atteggiamento diverso nei confronti dei loro pazienti, verso le cui motivazioni ostentano indifferenza morale e assenza di giudizio.

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È vero che il cosiddetto «paziente» non deve sentirsi aggredito dal terapeuta con giudizi morali inesorabili e distruttivi, altrimenti è tentato di rifugiarsi nella menzogna o nel silenzio; ma anche il terapeuta della psiche deve porsi il problema del proprio atteggiamento morale.
L’indifferenza è dannosa perché abbandona gli uomini nella solitudine: ci si mette nelle mani di un terapeuta o di un amico anche per non sentirsi soli. Trovarsi di fronte soltanto uno specchio freddo e gelido è disperante. L’essere umano, fin da bambino, è pronto a tutto: malattia, strilli, esibizioni di ogni genere pur di attirare su di sé l’attenzione altrui. Così è anche per gli adulti: la mancanza di un vero interesse, del calore affettuoso di un altro, possono provocare serie crisi di depressione narcisista o sadomasochista. Il narcisismo infatti ci permette di illuderci di una possibilità di esistenza completamente autocentrica, che prescinde da ogni altro, mentre il sadomasochismo ci permette di sfruttare la sofferenza nostra e altrui come fonte di piacere esistenziale.

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Mi si potrebbe obiettare che quello che la terminologia tradizionale designa come «senso di colpa» (e che io oggi preferisco chiamare «rimorso») è la prova che non sempre la conoscenza delle motivazioni serve come principio di giustificazione; per cui un eccesso di moralismo intransigente può risultare distruttivo per chi già sente su di sé il peso della colpa. Il giusto atteggiamento deve dunque trovarsi a metà strada tra l’indifferenza terapeutica e il rigore morale? Orazio, l’antico poeta latino, avrebbe risposto affermativamente, contraddetto però da quell’Aristotele cui pretendeva di rifarsi, e per il quale invece la virtù che sta nel mezzo tra due eccessi è tale solo quando non reca in sé le tracce di alcuno dei due, ma nasce da quell’azione perfettamente armoniosa che la ragione costruisce. Il coraggio è altrettanto lontano dalla temerarietà quanto dalla viltà, e non ne reca traccia alcuna.

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Socrate è stato un vile o un temerario?
Ha invitato gli uomini a non dare giudizi morali oppure li ha indotti a concentrarsi sulla ricerca del vero nella quale soltanto è possibile trovare il bene? Ha difeso la sua coerenza fino al sacrificio della propria vita; ma la sua vita è stata coerenza a che principio? Alla sua personale idea di bene, che difatto non esiste in base a quanto egli stesso ha affermato: il bene coincide con la verità, ovvero la verità distrugge il concetto di bene; ma l’unico bene è nella ricerca della verità. Socrate è andato alla ricerca dell’essenza dell’uomo, se non l’ha trovata è perché non la si può trovare. Bisogna forse morire per affermare ciò che non può essere detto?

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Per un altro verso, seguendo il banale senso comune e la presunzione degli scienziati possiamo dire che le motivazioni sono sempre giustificazioni; non solo per noi, ma anche per gli altri. Asteniamoci dunque dal giudicare e diciamo la verità; raggiungeremo così la salute. Il discorso però ricomincia daccapo: chi dirà dove sta la salute?
Che cosa è la malattia?

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Si impone a questo punto la scelta: le motivazioni sono o non sono giustificazioni?
Voglio rendere esplicita la mia scelta di uomo, di scienziato, di artista: perciò sostengo allora esplicitamente che per me le motivazioni non sempre possono essere giustificazioni. Io so che sarei disonesto se mi concedessi anche soltanto la scappatoia di dire che mentre come uomo e artista mi sento nel pieno diritto di giudicare, quando però mi pongo lo stesso problema come scienziato e terapeuta allora mi limito ad osservare, a gettare la luce della coscienza là dove c’è l’ombra dell’inconscio e sicuro della mia superiorità mi astengo da ogni giudizio.

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Proprio in questo tipo di distinzioni si annida l’inganno più grave: quello che sottrarrebbe alla mia funzione terapeutica parte della mia persona. Se sono onesto so che questo non è possibile e che la mia parzialità mi segna anche quando intervengo. Se lo negassi sarei immorale e non solo amorale; peggio: non sarei neppure uno scienziato rispettabile. Anche la scienza ha bisogno di rigore morale: non esiste psicoanalista onesto che possa dirsi imparziale senza con questo ingannare se stesso e gli altri.

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Quando, molti anni or sono, io scelsi la teoria freudiana come punto di riferimento nel mio cammino psicoanalitico, lo feci già col giudizio dell’individuo che sceglie un orientamento piuttosto che un altro, per ragioni di parte, non in base ad un oggettivo ed asettico criterio di oggettività o neutralità; ma seguendo quello che in quel momento era il mio desiderio di verità, condizionato dalla somma delle mie altre scelte ed esigenze esistenziali. Poi, con l’andare degli anni, ho scelto di costruire una mia metapsicologia, con la massima sincerità possibile nei confronti miei e del mondo; ma ugualmente non debbo fingere di ignorare che anche in questo caso scelte e condizionamenti, espliciti ed impliciti, oscuri addirittura, contribuirono a determinarmi in un senso piuttosto che in un altro. Se così non fosse il cammino scientifico si arresterebbe. Anche la scelta di un dogma non è una scelta obiettiva; il dogma può dare sicurezza, ma alle spalle della sua scelta le motivazioni possono essere chiare solo fino ad un certo punto.
Bisogna avere il coraggio di accettare per l’uomo l’impossibilità di vedere al di là di precisi limiti.

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L’arte è la sola forse che possa dare l’illusione o l’impressione reale di andare oltre i limiti stabiliti da quella che comunemente si crede sia la possibilità di conoscenza razionale: l’arte può attingere o credere di attingere il mistero. Se anche mi resta il dubbio che sia un’illusione, pure è un’illusione che mi conforta e mi rallegra. Per questo mi permetto di sperare che arte e scienza non siano poi in opposizione così netta fra loro come per lo più noi tutti crediamo. Ne può essere un indice il fatto che la voce dei primi filosofi si espresse in versi poetici.

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Dunque bisogna ribadire che l’errore più grave che uno scienziato possa compiere è quello di credere nella propria assoluta obiettività. Questo può causare il delirio: cioè un vero e proprio distacco quasi assoluto dalla realtà, nel quale si realizza la sovrapposizione di narcisismo e sadomasochismo. Molto importante invece è avere sempre la consapevolezza di quanto ambigui siano il nostro dire e il nostro pensare.

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Il pericolo opposto ed analogo da cui bisogna ugualmente guardarsi è quello di cadere in un soggettivismo parossistico per il quale al di là dell’individuo-soggetto non c’è altra realtà. Io ho i miei pensieri e le mie fantasie che non debbono però esaurire tutto il campo della mia ricerca. «L’uomo è misura di tutte le cose»; ma l’uomo deve costruirsi pesi e misure che gli permettano di affrontare la realtà. La realtà siamo noi nel mondo ed il mondo intorno a noi e con noi.

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Io non voglio ingannare gli altri e neppure me stesso; ma è impossibile uscire puliti dalla lotta per la vita. Non c’è verginità possibile per chi è destinato a conoscere il male. Perché dico «verginità» e «lotta»?
Perché sono condizionato da un’esperienza che mi costringe a sentire la vita come una colpa, una lotta da cui non posso esimermi? Tutto questo mentre io sento sempre più crescere in me il bisogno di parlare d’amore!