66 – Ottobre ‘90

ottobre , 1990

Il volume di Massimo Cacciari, Dell’inizio (Adelphi, 1990, pagg. 701, Lit. 65.000) vorrebbe essere ad un tempo una «summa» medievale, una storia della filosofia e una raccolta di scritti esoterici. Le osservazioni innumerevoli, talvolta sono stimolanti, talvolta rasentano il delirio; però sono spesso psicagogiche: accompagnano il pensiero di chi legge, senza lasciare che si smarrisca.
Noi vogliamo qui gettare qualche fascio di luce radente sull’affollarsi e l’aggrovigliarsi di concetti e immagini, sistematicamente asistematici. Si parte nel primo Libro parlando a lungo di Kant, cercando di salvare di lui anche ciò che non è salvabile.
Si dicono cose già dette da molti, però nell’analizzare con Kant il principio-non principio della conoscenza, si seguono alcuni percorsi fecondi. Cominciando dal problema della Ragione. Che cosa è la Ragione? Q. almeno, che cos’è per coloro che, come Kant, usano termini come Vernunft, Nous o appunto Ragione? La ragione risulta così una presenza ambigua e irrazionale; ma che cosa è a sua volta l’irrazionale? Le navi di Kaspar Friedrich salpano verso lidi incomprensibili, o desolamente ovvi. Kant parla di una Ragione che non conosce, ma che inventa nelle sue fantasticherie poetiche. Il tribunale della Ragione non ha come giudice la Ragione stessa ma i suoi giudici non sono che i rappresentanti dell’empirismo pragmatico e dogmatico ai quali Kant non riconosce alcun diritto. Secondo noi Kant è il filosofo dell’irrazionale, geniale nella sua inconsapevolezza. La filosofia potrebbe incominciare da lui, ma forse in lui ha trovato la propria morte.
Dice Cacciari: «Kant ripete il gesto dell’ Aristotele di Raffaello. La mano che tempera e dispone, delimita e comprende, fissa il nostro orizzonte» (pag.55). I Buchstabenmenschen, gli uomini che compitano, si servono nel dipinto di Raffaello, di un dito:
all’insù va quello di Platone, all’ingiù quello di Aristotele. Kant però conosceva il Platone e l’Aristotele che stancamente allora come oggi troppi ripetono.
«L’applicazione trascendentale dei principi della ragione trasforma in apparenza perciò reifica, l’Incondizionato» (pag. 149 L’incondizionato coincide con l’indeterminatezza che c’è tra l’essere e il nulla? Dice l’autore che la matematica ce ne dà la dimostrazione. A noi sembra piuttosto un gioco semplicistico non solo dell’Idealismo. Quale matematica? Fino a che non si risolverà questo quesito Kant ed Hegel non potranno darci risposte esaurienti. Noi pensiamo che il loro discorso vada oltre: non verso la ragione, ma verso la «poesia», intesa nel duplice significato di «arte» e di «poiesis». Altre risposte ci dice Cacciari vengono da Schelling per cui si può sfuggire ad un sistema affermando la positività dell’incondizionato o Wittgenstein per il quale ciò che conta è: «Non come il mondo è, ma che è, ciò è il Mistico» Il misticismo e Plotino sono due fra i temi ricorrenti. Per il filosofo neo-platonico Trinità non è mai Tre; può essere due Padre-Figlio o uno: Eros; in questa prospettiva Plotino viene presentato come colui che tenta di superare la contraddizione della propria eresia.
Il secondo Libro Crux Philosophorum inizia sulle rive dell’Ilisso. Dopo un divagare tra miti e invocazioni alla divinità, l’autore e il suo interlocutore cercano di placare le Muse, consapevoli, come lo siamo tutti che esse non sono benevole Eumenidi, ma restano le Erinni di sempre. Da Methis passa alla memoria e da questa al tempo. Con molta arguzia ci viene proposta la pretesa contrapposizione tra la concezione del tempo immanente-trascendente dei moderni filosofi come Heidegger e la sua spazializzazione fisica da parte degli antichi. Siamo tutti d’accordo, con buona pace anche di Einstein, che sono riusciti meglio a dare senso a spazio e tempo i filosofi di ieri che gli scienziati e i pensatori di oggi.
Nel Libro finale si torna a dibattere il concetto di inizio e l’argomentare si fa sempre più rarefatto: Plotino si disperde in Cusano; il tempo del Figlio si smarrisce nel: «batter del ciglio che il lampo dell’Aiòn, della Vita vera…» (pag. 483). Abbastanza interessante abbiamo trovato il discorso sulla ambivalenza e contraddittorietà delle pulsioni: bisogna seguire Bosch per capire, più che il bene e il male, la colpa e la punizione.
L’oscurità della tragedia del kouros, di Pan e delle Madri si confonde poi nell’esposizione successiva con il mito di Dioniso che si sovrappone al Figlio; che infine diventa tensione drammatica e lotta.
Vorremmo anche noi dire a Cacciari: «Speravo che lei profetasse… mentre invece ha preteso di dire in ispirito quei «mysteria» che nessuno comprende» (pag. 678). Il tutto si conclude tra il riso e il sorriso di un Gesù analizzato con cura eccessivamente scenografica e con un astuto uso del linguaggio «poetico».