66 – Ottobre ‘90

ottobre , 1990

In una situazione molto sgradevole siamo stati costretti ad assistere alla proiezione del film La stazione di e con Sergio Rubini. La sala del Capranichetta in via di ristrutturazione ha ora le dimensioni di uno strettissimo e lungo ridotto; sorta di budello dalla pessima acustica, in cui pur pochi spettatori risultano ammassati in modo inverosimile. Anche lo schermo ha dimensioni poco più che televisive. Diciamo questo perché il lettore possa fare la tara considerando che il nostro giudizio può essere stato influenzato dalla nostra irritazione. Comunque sosteniamo senza mezzi termini che si tratta di un film irrimediabilmente brutto; trasudante caramelloso sentimentalismo. Il copione è banale, la sceneggiatura è fatta di battute iper-scontate, che però fingono di essere altamente poetiche nella loro disarmante ovvietà. Noi crediamo di non amare i film «kolossal», con piramidi, Napoleoni, Regine di Saba, eccetera, e sappiamo che un bel film può essere fatto di inquadrature semplici che rappresentano il quotidiano, quasi sorprendendolo nelle sue più dimesse, ma per questo poetiche, situazioni. Nel film di Rubini c’è poca poesia: un capostazione sciroccato, un’irritante bellona fuggita da una festa di ricchi, un fidanzato violento e citrullo. Su tutto ciò piove. Nella stazioncine di provincia passano alcuni treni ed uno involerà la bellona, dopo un bacio d’addio al capostazione.
Ci hanno lasciati stupefatti le musiche di Antonio di Pofi che ci sono risuonate assolutamente scollegate dal resto. La loro fattura è sapiente e raffinata: ondeggianti come sono tra Debussy, Léhar e Strawinsky, sembrerebbero scritte per un’altra storia.
Di recitazione nel film non ce n’è: ciascuno fa se stesso; per primo Sergio Rubini, la cui maschera di tenerissimo ebete persiste attraversando tutti i ruoli e risultando di volta in volta più o meno adatta; qui sarebbe adatta se egli stesso in qualità di regista avesse dato al personaggio qualche occasione, che invece va puntualmente perduta anche quando il crescendo da westerndrammatico ne offrirebbe l’opportunità. Rubini regista ha scelto un compromesso tra realismo e minimalismo, limitandosi a qualche citazione che però rinuncia subito a sviluppare, disperdendola tra locomotive e fuochi divoranti. Margherita Buy ed Ennio Fantastichini permettono alla cinepresa di riposarsi dall’obbligo di poeticità ad ogni costo e allo spettatore di esimersi per un attimo dal dovere di bontà. L’effetto notte e la pioggia esauriscono quasi tutto il potenziale narrativo della fotografia.