Archivio di giugno 1990

64 – Giugno ‘90

venerdì, 1 giugno 1990

Ci si domanda se sia accettabile che un Papa di Roma possa confondere lo sport con quelle pratiche circensi che da sempre si fondano sulla violenza e l’ottuso entusiasmo di folle becere ed inconsapevoli.

Che il gioco del calcio possa essere stato, in qualche modo e per qualche tempo, una pratica sportiva fra le altre non può far dimenticare a nessuno quello che è diventato oggi: l’espressione di una barbarie che esalta gli aspetti peggiori e «plebei» dell’animo umano.

Non è vero, come si vorrebbe far credere, che la violenza sia solo un aspetto perverso e degenerativo del gioco del calcio; al contrario: esso ha ereditato completamente le funzioni di quei ludi circensi che nei tempi più nefasti della romanità imperiale concentravano nello stadio e nel circo la più obbrobriosa miscela di tirannia del potere e abbrutito asservimento della plebe.

Gli squallidi riti calcistici sono oggi l’equivalente di quelle antiche forme di negazione della dignità ed assoluta mancanza di rispetto per la vita umana; il tifoso è il nemico di quell’uomo che il cristianesimo insegna ad amare.

Quasi nessun altro luogo come lo stadio del calcio è palestra così efficace di corruzione giovanile: violenza, divismo, mercificazione di ogni valore trasformano i ragazzi in bande di rissosi imbecilli, minacce per la tranquillità di intere città e per la vita dei cittadini.

Pur senza voler fare paragoni tra l’odierna benedizione papale all’Olimpico e quelle che l’allora vescovo di Milano Cardinal Schuster impartì alle truppe italiane in partenza per la guerra d’Africa, ugualmente non si riesce a credere che Giovanni Paolo II abbia potuto in buona fede pensare che bastasse ricordare le vittime del lavoro, cadute per la costruzione di questi catini di spazzatura che sono gli stadi dei mondiali, per giustificare tutte le occasioni di morte, fisica e morale, che dentro ed intorno ad essi ogni giorno si prospettano.

Per non parlare poi (poiché sarebbe sospetta demagogia) dei costi iperbolici di queste nefande imprese finanziate dal pubblico denaro, a scapito di interessi ben più urgenti e significativi.

Quale maggiore utilità per la comprensione fra i popoli avrebbero avuto le stesse cifre spese per garantire salute e dimore dignitose ai lavoratori stranieri malcapitati ospiti di questo Paese?

Dispiace che il Papa non abbia ritenuto opportuno rifiutare la propria complicità ad un potere così arrogante da offrire al popolo, che oggi ha la stessa fame di ieri, soltanto l’elemosina dei «circenses» di sempre.

64 – Giugno ‘90

venerdì, 1 giugno 1990

Klaus Kinski ha sceneggiato, interpretato e diretto il film Paganini.
Il grande concertista e grandissimo compositore genovese è sempre stato circondato da una leggendaria aura satanica. I suoi contemporanei ci tramandano le mirabilie delle sue straordinarie capacità virtuosistiche che hanno persino offuscato le sue qualità di creatore musicale. Tutt’oggi persone troppo frigide o troppo ignoranti musicalmente lo guardano con sufficienza e degnazione, divertendosi soprattutto ad ascoltare i moderni virtuosi impegnati nelle acrobazie sui loro violini, nel tentativo di riprodurre più o meno bene quella musica. Invece il segno lasciato da Paganini nella nostra storia musicale è grandemente significativo. La sua opera ha assai poco della civettuola frivolezza del tardo settecento italiano; si spinge infatti avanti nel primo romanticismo con impeto ed irruenza. Seppure estremamente rispettoso della forma, Paganini contorce l’armonia tradizionale fino a farla esplodere; costruisce melodie di grande bellezza e profondità; l’arditezza tecnica non è quasi mai fine a se stessa: indubbiamente alcuni momenti sono talvolta ripetitivi, però la genialità del compositore subito si riscatta, grazie alla straordinaria facilità d’invenzione.
Salvatore Accardo esegue praticamente durante tutto lo svolgimento del film la scintillante e malinconica musica del genovese, con straordinaria precisione ed efficacia, con purezza di suono unita ad un grandissimo calore; purtroppo vi sono alcuni sconsiderati che tentano di parlare sulla musica mentre sullo schermo passano immagini stupide, volgari ed idiote: donne che si masturbano o vengono stuprate, carrozze che vanno e vengono, un bambino che sconsideratamente strilla. Senza riuscire veramente a realizzare nulla Klaus Kinski si propone di raffigurare un Paganini oleografico ed idiota. I dialoghi fastidiosissimi come abbiamo detto, anche perché disturbano l’ascolto sono sciocche frasette che terminano sempre nell’ansimare della copula. La figura del grande artista non risulta affatto sensuale, né perversa, ma viene ridotta alla macchietta di un burattino che si contorce tra cosce, natiche e mammelle di donnacce che sembrano totalmente estranee a quanto accade. Anche le scene che vorrebbero essere drammatiche, come quella dello sbocco di sangue durante una esecuzione del violino, in cui persino Accardo viene costretto al delirio generale, sono soltanto noiose. Comunque Kinski non racconta la storia di Paganini, ma di un pederasta il cui figlio nevrotico si vendica succhiando con voluttà il cadavere paterno.
Le scenografie di Lentini e la fotografia di Santi si alleano nel frastornare lo spettatore con lo sfarzo degli ambienti affogato di continuo in un nebbioso e fastidioso effetto di controluce che stanca lo sguardo. Oltre a Klaus sono coinvolti nel porno-fumetto alcuni altri membri Kinski, più o meno piccini, oltre a nomi già rispettabili, come Bernard Blier, Marcel Marceau e Michel Piccoli. Le malcapitate femmine del set sono Dalila Di Lazzaro, Eva Grimaldi, Debora Caprioglio e Donatella Rettore (proprio lei).

64 – Giugno ‘90

venerdì, 1 giugno 1990

Quando decidiamo di commentare l’esecuzione di qualche brano di W.A. Mozart lo facciamo sempre con timore ed imbarazzo. Nessuna e sottolineiamo nessuna interpretazione corrisponde mai al nostro Mozart interno; inoltre diventiamo ipersensibili, in modo patologico, al più impercettibile ritardo, ad una leggerissima difficoltà di intonazione, ad ogni sia pur quasi inesistente slabbratura del ritmo. Tutto questo ed altro ancora, lo riconosciamo, ci rende praticamente incapaci di giudicare con serenità sia pur minima ogni esecuzione del musicista di Salisburgo. L’ascolto della sua musica ci fa sempre dire, parafrasando Luigi XV: «Dopo di lui, il diluvio». Haydn, Beethoven, Strawinsky potrebbero, dopo di lui, anche non aver più scritto; e all’indietro, a parte forse Bach, il discorso è lo stesso. Per questa nostra posizione vagamente delirante, nella quale abbiamo una fede assoluta, chiediamo ai nostri lettori un po’ d’indulgenza.
Giovedì 7 giugno sono stati eseguiti all’Auditorium del Foro Italico, per la stagione dei Concerti da camera di Radio uno, i Quintetti in Do maggiore K.515 e in Sol minore K. 516 in un Incontro di solisti come Felix Ayo e Giuliano Cara (violini), Dino Asciolla e Alfonso Ghedin (viole) e Mario Brunello (violoncello).
Il primo quintetto, composto nell’aprile 87 si articola in quattro movimenti:
l’allegro, caratterizzato da una sotterranea drammaticità cosparsa di punti interrogativi che i cinque hanno reso con una correttezza sciolta, appena leggermente opaca; l’andante è un’accorata e sensuale invocazione in cui le parti sono armonicamente perfette e sensualmente ambigue, in una esecuzione molto buona nel fluire naturale delle delicatissime botte e risposte; un po’ discontinua ci è parsa invece la resa del terzo movimento dallo splendido e corposo minuetto; infine i solisti con buona espressività hanno colto dell’allegro finale il sublime volo sonoro, eseguito con brio puntiglioso anche se con ritmo non sempre perfetto.
Il quiintetto in sol minore è del maggio dello stesso anno ed apre con un allegro dal cui primo tema rampollano una serie di sublimi e disarmanti melodie e idee musicali, eseguito con piglio ora aggressivo ora sentimentale; il minuetto e trio costituiscono il secondo tempo, formando un insieme di grande profondità e bellezza che ha permesso agli esecutori di dimostrare buone doti di equilibrio; splendida poi l’esecuzione dell’adagio ma non troppo: un divino e sovrumano lavoro in filigrana nel quale tutte le parti sono limpidamente nitide e meravigliosamente amalgamate; l’adagio-allegro conclusivo è di una bellezza disperata che si scioglie, nell’allegro, in un brio appena un po’ più sereno, ancora percorso da qualche brivido sconvolgente; l’interpretazione anche questa volta è stata buona, nonostante alcune sonorità «sporche».

64 – Giugno ‘90

venerdì, 1 giugno 1990

Nei confronti della pretesa libertà dell’arte, bandiera della borghesia di quell’epoca, Lenin ebbe a sostenere in un saggio del 905: «Noi socialisti smascheriamo questa ipocrisia, smascheriamo le false insegne, non per ottenere una letteratura ed un’arte al di fuori delle classi (questo non sarà possibile che nella realtà socialista senza classi) ma per opporre a una letteratura ipocritamente pretesa libera, e di fatto legata alla borghesia, una letteratura realmente libera, apertamente legata al proletariato» (cfr. L’organizzazione e la letteratura di partito).
Non certo noi, ma la storia, ha smascherato Lenin. Una società socialista non esisterà probabilmente mai e Lenin è un mistificatore non meno degli ideologi borghesi, colpevole anch’egli di aver fondato le basi non della libertà ma di una tirannide. Stalin gli è salito sulle spalle usando come piedistallo l’arroganza del suo predecessore; ma esistono rivoluzionari che non siano arroganti? Esistono padroni del «palazzo» che non siano tiranni? Lo stalinismo è stato un’aberrazione, ma di insulti alla dignità dell’uomo ve ne sono stati tanti lungo la storia. Gli artisti sono sempre stati schiavi dello stato o di loro stessi. Neppure nell’idealizzato mondo ellenico l’arte era libera; certo, forse, qualche ventata d’aria fresca in più allora era possibile respirarla, perché uno stato non troppo ammalato può svolgere una funzione positiva anche per l’arte e gli artisti. Lo splendido Eufronio e il divino Fidia, sono però andati distrutti con quel mondo che chissà quando potrà risorgere e riprendere avvio.
L’arte purtroppo ha quindi, come abbiamo detto, dovuto sempre fare i conti con l’oppressione, esterna e interna, degli artisti. Le stupidaggini dell’ultima biennale per costruire e allestire le quali alcuni artisti asserviti al potere capitalistico-industriale hanno costretto i loro padroni a spendere miliardi, non sono certo più belle del monumento scultoreo Operaio e contadina ideato nel 1936 dalla sovietica Wera Muchina. Nonostante tutto però Michelangelo nella Sistina, cuore del potere e della cultura cattolica, ha dipinto i suoi nudi rivoluzionari e Shostakovic, umiliato e vilipeso dagli accademici musicanti di stato dello stalinismo, è riuscito a beffarli dandoci una musica che molto spesso raggiunge vette altissime anche di libertà formale.
La mostra dei Frammenti d’arte contemporanea che allinea alla Casa della Cultura, di largo Arenula 26, «32 Protagonisti dall’URSS» ci ha ispirato più che altro queste riflessioni sul destino dell’arte e sulla libertà degli artisti.
La neo-rinascimentale e storicistica Tatjana Nazarenko, il saviniano surrealista Andrej Markevich, l’informale Nicolaj Kamarov o il magrittiano Valerij Maloletkov e i loro colleghi ci sembrano più essere asserviti ad un modello di arte occidentale, che capaci davvero di instaurare con essa un rapporto dialettico e con il pubblico un dialogo di «prima mano». Questo indipendentemente dall’atmosfera di regime che già incombe sulla neo-nata perestrojka, con i suoi riti di sconfessione e riparazione.

Nella presentazione alla mostra di Marco Moschini, Paolo Vitolo, titolare dell’omonima Galleria di via Gregoriana 4, scrive: «…il mito, come oggi sappiamo di intenderlo e sentiamo di viverlo, non ha nulla di estraneo al circuito delle nostre percezioni quotidiane; è anzi quella parte di quotidianità cui siamo portati, forse inconsapevolmente ad attribuire valore…» Leggendo queste parole ci si potrebbe immaginare di trovare nella mostra grandi o piccoli quadri variopinti, in uno dei quali, per esempio, Afrodite avvolta in una vestaglietta di cotonina stampata prepara due uova al tegamino su di un fornello a gas; oppure un possente Zeus in mutande in una stanza da bagno tutta blu che si sta lavando i denti; o ancora un giovine Apollo sdraiato sul letto che suona la chitarra.
Riconosciamo che queste sarebbero immagini ovvie, banali e un po’ stucchevoli, però sempre meglio di una galleria totalmente vuota.
Noi infatti non abbiamo trovato niente nello spazio allestito da Vitolo. Se però davvero avessimo trovato quel che la parola «niente» significa: cioè pareti e pavimenti spogli, avremmo almeno potuto apprezzare lo sforzo di parodiare gli epigoni di Duchamp e del futurismo; invece il nulla che abbiamo trovato è un po’ di carta appallottolata ordinatamente disposta sul pavimento o qualche foglio incorniciato.
Che questa sia «carta riciclata» è un segno che a nostro avviso non ha alcun valore semantico; non è neppure un gioco; è soltanto un po’ triste.

64 – Giugno ‘90

venerdì, 1 giugno 1990

A qualcuno piace di essere qualcun’altro, Edmund White, vorrebbe essere Marcel Proust; ma è soltanto Un giovane americano (Einaudi, 1990, pagg. 214, Lit. 26000) come si evince anche dal titolo del suo libro recentemente tradotto. Il romanzo è un’opera timida e sciocca, timida perché racconta alcuni episodi di penetrazione omossessuale con asettico distacco, sciocca perché sproloquia su sensazioni ed emozioni che sono irreali nella loro scandalosa ovvietà. La verità si annida nell’assurdo e non in queste semplicistiche descrizioni di padri panciuti, di madri e matrigne idiote e di segretarie innamorate di chissà chi. Perché i desideri sessuali bisogna paludarli necessariamente di descrizioni filosofico-moral-estetiche?
Proust è stato un vigliacco: uno scrittore moralmente immondo, detestabile e schifoso; i suoi occhietti cisposi e il suo ventre flaccido lo hanno difeso dal dovere di dichiarare ad un altro maschio: «Ti amo». Ed ecco un armamentario di paralumi di seta, mamme imbecilli e l’attesa per qualcuno destinato a non arrivare ma che gli permettono di sviluppare interminabili racconti di serate noiosissime in casa Verdurin, dove pianisti inesperti assassinano la grande musica.
Anche White, come Proust, gioca al grande scrittore, ma a differenza del francese non riesce ad esserlo in modo accettabile: è soltanto un checchino che circonda del freddo gelo di un obitorio le sue già frigide fantasie sessuali. Nelle sue pagine si affollano immagini scontate del padre sudato, nudo tra le lenzuola, deliri sadomasochistici di fughe impossibili e di mortificanti esperienze di «college». Tutte le pagine del libro risuonano proprio come quell’organo Hammond «…che cantava inni come una bocca senza denti, come se la musica fosse stata pane imbevuto ( latte» (pag. 212).

64 – Giugno ‘90

venerdì, 1 giugno 1990

Nell’antico borgo medievale di Sacrofano, a meno di trenta chilometri da Roma, in direzione Nord, tra la Flaminia e la Cassia, sono raccolti e sopravvivono piccoli gioielli d’arte, frammenti di misteriose statue etrusche, steli romane, il meraviglioso soffitto cinquecentesco a lacunari della parrocchiale dedicata a S. Biagio e viuzze, piazzette, case con bei portali e mura segnate dal tempo. In alcuni ambienti molto suggestivi, in parte scavati nel tufo, sono sistemati i tavoli de Il Grottino, affacciato sulla attuale piazza principale.
I due Farfalloni lo scoprirono una ventina di anni fa alle loro prime uscite «fuori porta».
Ci capitammo per caso, all’ora di pranzo e trovammo riparo al sole di una primavera calda tra quei muri che sapevano di antico; il luogo era silenzioso e fresco, non c’era quasi nessuno (eravamo fuori dai giorni affollati del fine settimana). Il patriarca allora regnante, Tonino, conosceva e ancora conosce, alcuni piatti dissueti, ma rusticamente sapidi della cucina sacrofanense; i suoi due allor giovani figlioli, timidi e gentili, lo aiutavano e seguivano nella preparazione di quelle rustiche delizie.
Oggi i Farfalloni abitano lì vicino e quindi sono divenuti frequentatori quasi abituali del ristorante.
Tonino purtroppo si è stancato, ma i figli hanno avuto il buon gusto di non interrompere l’antica tradizione. Certo, quando c’era il vecchio capitano poteva accadere sovente di scoprire vere perle gastronomiche, ma anche oggi ne restano nel menù tracce consistenti.
Nella stagione di questa tarda primavera può accadere di gustare una stupenda zuppa di papaveri e fagioli, vellutata e armoniosa, o di trovare ancora una rustica polenta, servita sul piatto di legno e condita da un profumato ragù, accanto ai più consueti, ma non meno gustosi, tonnarelli ai funghi, profumati e senza panna, primi piatti sempre preceduti da una sfilata di bruschette, variamente condite, saporiti affettati e olive.
Dei piatti collaudati del trascorso inverno non si può dimenticare facilmente il cinghiale preparato in tanti modi; più al passo con la stagione sono invece le preparazioni a base di lumache piccantine e dolci; per i tradizionalisti c’è l’immancabile grigliata mista, o gli spiedini al giusto punto di cottura, quando le carni conservano i loro umori.
In ogni stagione le verdure appropriate, cotte, fanno da contorno o, crude, compongono allegre insalate. Con il tipico ciambellone di queste parti viene servito un vino rosso da dessert, dolce e frizzante, dal buon profumo di marasca; ed è una vera consolazione perché, in mezzo a tante delizie, ancora non riusciamo a capacitarci che si debbano bere un bianco e un rosso della casa, decisamente aspri e disarmonici, frutto di una pessima e dilettantesca tecnica di vinificazione. Noi l’abbiamo fatto notare, ma pare che ai romani piaccia così!
Il prezzo, pur senza essere bassissimo, è più che onesto per una località che può contare su di un intenso turismo locale, affrettato e un po’ snob.

64 – Giugno ‘90

venerdì, 1 giugno 1990

Accompagnate dal suono di quei soliti aggeggi infernali che, grazie alle risorse di una sola tastiera sono in grado di produrre il suono di tutta un’orchestra dall’organico complesso come quella dei Wiener Philarmoniker, le melodie di Mammostro riescono garbate e di buon gusto, di una certa efficacia; gli autori sono, per la maggior arte dei brani, Paolo Gatti e Alfonso Zenga, dei quali ci è parsa particolarmente azzeccata la canzone del sottofinale, che avremmo addirittura voluto fosse anche la sigla di chiusura dello spettacolo. Accanto a queste buone prove musicali figurano anche’ due brani composti da Sergio De Vito e Marco Testoni: la «quasi aria» della Regina Vittoria, ricca di semplici vocalizzi, e il «terzetto», di buona fattura, che include un astuto benché semplice concertato.
I tre attori cantanti si sono prodigati per rendere al meglio dal punto di vista teatrale le parti loro assegnate.
Lo spettacolo che la locandina definisce «pocket musical», è stato scritto da Pino Pavia.
È un apologo spiritoso e garbato, ennesima variazione sull’eterno tema della bella e la bestia.
In questo caso la bella è una ragazzina inglese graziosa e petulante, accanita lettrice di feuilleton che per sfuggire alla noia della famiglia borghese si perde in un dedalo di viuzze deserte al far della sera, cadendo preda di un inquietante mostro che vive nelle fogne che stanno sotto il londinese Covent Garden.
La piccina è tutt’altro che indifesa e il mostro dapprima si trova a mal partito; ma finisce masochisticamente coll’innamorarsene.
Quest’amore non piace però alla mamma del mostro, la quale è niente meno che la Regina Vittoria, gelosa custode del figlio e del suo segreto.
La lotta tra l’amore per la mamma e quello per la fanciulla dura, nel cuore del mostro, solo lo spazio di un sogno e i due starebbero per correre uniti verso il futuro radioso, quando i crudeli abitanti del mondo che sta sopra la fogna uccidono, per errore, la fanciulla.
Daniela Tosco ha interpretato l’acerba terribile fanciullina con ottimi risultati; la sua voce sapeva modulare dai toni acerbi dell’incipiente zitella fino a quelli dolci e accorati di una ragazzina riscaldata dall’amore.
Tutta la sua recitazione è stata un giusto dosaggio di toni bruschi e accattivanti.
Tito Vittori, nel difficile ruolo del «Mostro», è riuscito a costruire un personaggio che travalica la sua «maschera» e si arricchisce di toni e sentimenti che convincono.
Molto brava Mariateresa Gasperi che dà alla sua Regina Vittoria grinta regale e perfidia mammesca.
Il regista Roberto Marafante ha ben orchestrato (è il caso di dirlo) tutto quanto, aiutato dalle divertenti scene di Alessandro Chiti, gremite di bambolotti e topi, del quale erano anche i costumi.
Hanno contribuito all’insieme le luci da discoteca di Roberto De Rubis e i movimenti coreografici di Francesca Micheletti.

Psicoanalisi contro n.64 – «Cerco l’uomo»

venerdì, 1 giugno 1990

L’ arte dello scalco, in senso stretto, è quella del macellaio o dell’anatomista; intesa in senso più lato, è quell’attività che consente di separare, all’interno di una struttura, alcune sottostrutture, tenendo conto delle connessure e delle caratteristiche funzionali. Se prendiamo in esame un organismo vivente, articolato in organi e apparati, può sembrare facile separare i singoli componenti, delimitando le varie parti in base’ a criteri funzionali o morfologici; ma addentrandoci nell’operazione ci accorgiamo che agisce nel meccanismo di individuazione anche una nostra predisposizione mentale. Per esempio, la medicina orientale segue criteri di identificazione e separazione diversi da quelli validi per la medicina occidentale; basti per tutti citare il caso dell’insieme fegato-milza, visto dagli orientali come unitario e invece valutato separatamente in occidente. Troppo facile sarebbe giudicare deliranti, primitivi o barbarici i criteri di quell’antica scienza; per quanto sia faticoso, bisogna accettare che altri vedano la realtà da punti prospettici diversi dai nostri, restando il fatto che ciascun punto di vista può essere giudicato opinabile. Secondo la medicina occidentale, fegato e milza sono due organi distinti con caratteristiche fisiologiche sufficientemente autonome; secondo la secolare tradizione orientale, i due termini designano invece un tutto sufficientemente unitario. Quindi una ideale mappa dell’organismo umano vedrebbe disegnate aree funzionali e morfologiche ben diverse, a seconda che segua i dettami di questa o quella scienza medica. Non è qui il caso di aprire l’annosa questione sull’efficacia terapeutica di tecniche mediche come l’agopuntura, da noi praticata con una alternanza di risultati positivi e negativi, non dissimile da quelli di qualunque altra tecnica terapeutica occidentale, a cominciare dalla psicoanalisi essa.

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Non è quindi utile considerarsi, in quanto occidentali, gli unici depositari di una verità scientifica ed è meglio anzi cercare di trarre il massimo vantaggio dalle ipotesi formulate altrove e secondo parametri diversi, mettendo a confronto il maggior numero possibile di sistemi. Questo va detto avendo però cura di demistificare quella pseudo-cultura misticheggiante che, dagli anni sessanta in poi, ha imperversato nell’occidente con l’accettazione superficiale e acritica di un ciarpame folc1oristico pseudo-terapeutico derivato da una cattiva assimilazione dei principi filosofici dell’oriente, ritenuto stupidamente detentore di una metafisica superiorità assoluta. Purtroppo i ciarlatani esistono nei templi d’oriente e imperversano; al pari dei maghi semi-analfabeti sproloquianti dagli schermi televisivi di casa nostra.
Credo che sia importante saper accettare anche in campo scientifico un atteggiamento di compromesso. Io non credo che il compromesso sia di per sé un elemento negativo, lo è se la scelta è di tipo qualunquistico, ma non lo è più se esprime la consapevolezza del relativismo culturale di questo o quel sistema.
Bisogna dunque sapersi riscattare dall’accettazione supina dei principi che presiedono all’arte dello scalco imposti come assoluti. Questo vale anche al di fuori del campo ristretto dell’anatomia. Bisogna liberarsi da una visione troppo rigida della realtà, da una consuetudine che ci induce a delimitarne i contorni secondo forme già date da sempre. Non è detto che sempre il bene stia dalla stessa parte. Bisogna liberarsi dalle ovvietà del buon senso di ieri, ma anche dalla banalità sottilmente persuasiva dei messaggi televisivi, degli slogan politici. Bisogna imparare a decodificare.

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Non si tratta comunque di scegliere fra i metodi c1assificatori dell’occidente e quelli dell’oriente; ma di accettare la possibilità che l’anatomia e la fisiologia trasmesseci dalla scienza cui abbiamo da sempre fatto riferimento non abbiano necessariamente valore assoluto.
L’uomo, quindi, di cui io posso parlare in termini filosofici e clinici corrisponde ad una particolare concezione culturale, che si ritrova anche nell’inconscio sociale dell’occidente.
Ancora una volta ribadisco la differenza, per me molto significativa, tra il mio concetto di inconscio sociale e l’inconscio collettivo di derivazione junghiana; differenza fondata su basi metafisiche e metapsicologiche.
Per me, anche l’inconscio del gruppo sociale è in divenire come l’inconscio individuale, inseriti entrambi nel processo storico; Jung aveva invece postulato un inconscio collettivo, uguale per tutti e determinato una volta per sempre, indifferente al divenire del mondo; ultimo e insultante fraintendimento alla teoria platonica delle idee.

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La vecchia ipotesi abbozzata da Sigmund Freud nel 1896, per la quale ad ogni sommovimento neuronale dovrebbe corrispondere nella psiche una struttura ideativa non è poi tanto ingenua: rispecchia quello che si poteva dire allora sul rapporto psiche-soma; ma oggi chi può dire di sapere di più? Quali sono i contributi effettivi di studiosi come Alexander o Marty alla nostra conoscenza in materia? Dal canto mio, ancora sono coinvolto nello stesso dilemma: se si debba parlare di psicosomatica o di somato-psichica.
Certamente si deve andare verso l’unificazione di due realtà che debbono diventare una, ma ancora non so in che modo.
Ancora oggi la scienza non ha trovato la chiave che permetta all’uomo di recuperare la sua unità di mente e di corpo.
Potrebbe ciò significare che la cosa non è possibile, che la divisione è ineliminabile e che l’uomo è composto di due realtà distinte?

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Si potrebbe anche provare a capovolgere i termini della questione ed impostarla in modo opposto a quello tradizionale: partire cioè dal corpo e risalire alle conseguenze psichiche.
Un’eruzione cutanea, un disorientamento cellulare di tipo neoplastico, un’artrosi cervicale, un’ulcera gastrica, anche solo un semplicissimo raffreddore potrebbero essere cause capaci di determinare alcuni atteggiamenti psichici di risposta, di tipo nevrotico o anche psicotico.
L’agente sarebbe puramente esterno: un virus, un batterio, un’intossicazione; ma provocherebbe nella psiche una serie di reazioni. Questo anche indipendentemente dal fatto che la malattia organica si renda o no manifesta.
La psiche finirebbe con l’appropriarsi di queste situazioni di crisi per costruire sue fantasie che finiscono però con l’avere la concretezza di una sindrome: ansia diffusa, patofobia, anoressia, bulimia, ipocondria, delirio, depressione. Non sarebbero stati, quindi, in quest’ottica, gli agenti psichici ad influenzare l’organismo che ha tentato in seguito di reagire, attraverso una propria patologia.
I virus, i batteri esistono; esistono persino i vasi che cadono sulla testa di chi passa per strada e da queste situazioni può nascere una gamma infinita di sindromi psichiche. La psiche reagisce all’aggressione del mondo esterno.

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Con questa prospettiva, tutti i disorientamenti verrebbero ad essere originati da agenti esterni di tipo organico o sociale; e le nevrosi e le psicosi non rappresenterebbero altro che le risposte dell’essere umano agli stimoli dell’ambiente esterno e dell’organismo.
Un ragazzo in analisi con me, un giorno, all’età di quattordici anni, andando a sciare si ruppe una gamba; la frattura, molto complessa, rese indispensabile una difficile se operazione chirurgica. Contemporaneamente il ragazzo stava attraversando un periodo molto difficile nel suo rapporto col resto della famiglia: i genitori avevano preannunciato una separazione, e la cosa lo faceva soffrire molto. La prima interpretazione che venne alla mia mente di «rozzo» psicoanalista fu che il ragazzo aveva tentato con quell’incidente di far riavvicinare tra loro i genitori, cosa che in effetti era avvenuta, almeno temporaneamente.
Una mia paziente, affetta da una grave n forma di vaginismo, ha scoperto durante il lavoro analitico un profondo e immotivato odio per il marito, del quale non ti si era mai resa conto in passato; eppure può essere semplicistico dire che quelle contrazioni che rendono impossibile o dolorosissima la penetrazione esprimono il rifiuto inconscio del marito; c’è infatti la possibilità opposta, che il rifiuto anche psichico del marito sia derivato proprio dalla sofferenza che quei rapporti sessuali le provocano, per cause anatomiche o fisiologiche.
Un altro ragazzo nutre, da quanto è emerso durante il lavoro analitico, forti desideri sessuali verso il proprio padre, dal quale fantastica di essere posseduto e che vorrebbe fantasticamente possedere; ebbene ad un certo punto il figlio ha sofferto di una gravissima forma di allergia, dovuta al profumo abitualmente usato dal padre, cosicché non può più sopportarne la vicinanza.
Come è possibile stabilire con precisione se la paura del rapporto perverso ha provocato la forma allergica oppure l’allergia ha ingenerato il rifiuto per il padre e le fantasie perverse da cui il ragazzo pretenderebbe di difendersi?
In un altro caso, un ragazzo che convive con un’amica che sua madre non perde occasione di insultare, prova, ogni volta che torna alla casa materna, per lo più in occasione di pranzi di circostanza, un’immediata dilatazione dello stomaco, un attacco di colite, e molti altri disagi di natura ansiosa; la giustificazione che il ragazzo si dà è la pessima cucina di sua madre, tutta a base di panna, che lui detesta. E il legittimo ribrezzo per la panna che provoca quella sintomatologia o è l’irritazione per l’atteggiamento della madre verso l’amica che provoca il disturbo?
Troppo semplicisticamente forse la psicoanalisi, fino ad oggi, ha spiegato tutto con l’azione più o meno nascosta di complessi edipici irrisolti, o con le tormentate vicende dell’inconscio.
Secondo me, invece, anche il corpo ha una sua realtà significativa di cui bisogna tenere conto e che può essere causa prima di una reazione psichica, conscia od inconsapevole.

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Io penso quindi che nella psiche umana non alberghino emozioni che in qualche modo non corrispondano a modificazioni delle cellule del sistema nervoso o anche di cellule appartenenti a qualche altro apparato dell’organismo umano. È fin troppo facile qui ricordare la teoria di James e Lange, secondo la quale un’emozione, priva delle sue manifestazioni fisiologiche, è ben difficilmente identificabile; cosa infatti costituirebbe, secondo i due studiosi, un’emozione come, per esempio, la paura, se si prescindesse dalla tachicardia, dalla sudorazione, dalle scariche adrenaliniche e dalle altre manifestazioni organiche che caratterizzano questo stato emotivo? Una persona il cui corpo resti assolutamente inalterato in tutte le sue funzioni e rilassato può veramente provare un’emozione terrificante? Ciò non vale solo, come si sarebbe però portati a ritenere, per le grandi emozioni; ma anche per le più sottili alterazioni dello stato emotivo.
Se veramente un’emozione di qualsivoglia natura e contenuto psichico, affettivamente significante, non avesse una realtà organica su cui agire non avrebbe di per sé sostanza alcuna. È più credibile anzi che le emozioni stesse consistano in un’alterazione organica di qualunque tipo, di quanto non sia plausibile un’emotività slegata dalla concretezza del soggetto fisico che la prova.
Perciò un contenuto psichico, conscio od inconscio, che secondo me ha sempre e comunque un colorito affettivo, coincide con la relativa alterazione fisiologica e non solo si esprime attraverso di essa.
Lo stesso concetto di complesso di Edipo, il quale pur sembra avere una sua autonoma valenza astratta, non appena si realizza concretamente attraverso questo o quel sentimento di un figlio verso i genitori, produce emozioni che “sono” e non solo “producono” vere e proprie modificazioni organiche. Sarebbe fin troppo facile ironizzare sulle possibili differenze di un’alterazione cardiaca causata dal complesso di Edipo e quella espressa dal senso di inferiorità; in realtà, sia pure all’interno di un’ipotesi solo astratta, è vero che se riuscissimo ad avere gli strumenti capaci di analizzare tutti i passaggi e le caratteristiche delle alterazioni neuronali relative ad un’emozione, sapremmo anche distinguere tra la natura emotiva di una e quella dell’altra.

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Un altro problema che sento di dover porre a questo punto è il ruolo e il significato che può avere la parola che definisce o descrive una dinamica emozionale del tipo sopra accennato.
Quanto la parola contribuisce anche a costruire l’emozione stessa? La parola descrive, spiega e costruisce allo stesso tempo una realtà. Altrimenti sarebbe un puro flatus vocis e non potrebbe riferirsi all’interezza di un contenuto che si realizza nella concretezza fisica e mentale di una persona.
Possiamo dunque concludere affermando che tutte le situazioni affettive ed esistenziali: dalla cosiddetta normalità alla nevrosi e alla follia, non sarebbero nulla se non corrispondessero alla realtà di un corpo che si modifica continuamente e di una parola che le esprime. (E chiaro magari che fino a questo punto non ho voluto prendere in esame l’ipotesi di «anima»; questo mi porterebbe a tutta un’altra serie di considerazioni estranee al genere di problema di cui stiamo occupandoci).

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Di fatto, la scienza di quest’ultimo secolo ci ha invece abituati a considerare l’esistenza di meccanismi mentali e di conflitti tutti contenuti all’interno della psiche, i quali possono procurare sofferenza o causare disturbi di comportamento, ma che sono soltanto entità astratte descrivibili attraverso procedimenti logici e verbali.
Questo tipo di descrizione non spiega però quale sarebbe la natura specifica di quelli tra questi meccanismi della psiche che riescono ad aprirsi un varco fino a provocare modificazioni nel corpo di chi prova questi particolari sentimenti; modificazioni che sono identificabili talvolta addirittura come processi difensivi, apparentemente indipendenti dalla volontà.
La febbre che sale e rende impossibile affrontare un impegno temuto fornisce anche la giustificazione morale della fuga. In campo organicistico si è d’altro canto sostenuta fino ad oggi l’esistenza di patologie pretese oggettive che hanno nell’organismo fisico l’origine e le manifestazioni relative e che non interesserebbero la psiche che in modo del tutto secondario o subordinato. Un agente patogeno esterno privilegia un determinato organo e con esso impegna una lotta tutta limitata ad azioni e reazioni fisiche e chimiche di tipo meccanicistico, che determinano l’esito e la risoluzione eventuale della malattia.
Questi organicisti ad oltranza non sembrano rendersi conto che così dicendo implicitamente regrediscono a ipotesi metafisiche di tipo cartesiano, poiché solo una «ghiandola pineale» a questo punto potrebbe spiegare l’eventuale partecipazione emotiva dell’individuo ad un processo di malattia e guarigione.

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Se però psicologi da una parte e organicisti dall’altra non riescono a dare una spiegazione sufficientemente plausibile di una realtà umana che contempli una psiche ed un corpo non solo in relazione tra loro, ma anche espressione di una persona unitaria, neppure le mie considerazioni che ipotizzano un continuo interscambio tra psiche e soma e viceversa, senza che una delle componenti abbia una caratteristica primaria e definita, riescono a dare una spiegazione sufficientemente strutturata. Può forse contribuire alla comprensione di realtà così complesse ricordarsi che ciascun essere umano non è solo, ma è in continua inter-relazione col mondo circostante e con gli altri.
Questo rapporto non è solo di scambio, ma è costitutivo: l’uomo si costruisce nel suo inconscio sociale, il quale a sua volta si precisa come risultato dell’insieme degli inconsci individuali ai quali contribuisce a dare forma. L’autonomia dell’inconscio individuale è quindi più che altro apparente e ciò rende più problematica che mai la definizione di un «Io» unitario composto dalla somma psiche-soma.
Ritengo però vitale, dare alla ricerca e alla pratica clinica un fondamento metapsicologico, e invito tutti coloro che decidono di intervenire o anche solo di teorizzare in un campo specifico sia della clinica organica sia della psicologia, a tenere presenti sempre queste tre componenti che contribuiscono a fare dell’uomo quella realtà unitaria che egli innegabilmente è: soma-psiche-inconscio (individuale e sociale).
Non si tratta, a questo punto, però, tanto di sostenere che al soluzione eventuale starebbe nella visione simultanea del problema da due diversi punti prospettici; magari postulando una generazione nuova di psicoanalisti capaci di avere una conoscenza sufficientemente approfondita del funzionamento degli apparati anatomo-fisiologici e dall’altra parte un’altrettanto preparata categoria di medici organicisti con una profonda preparazione di tipo psicologico e psicodinamico; ma si tratta invece – e faccio per la prima volta, con estrema consapevolezza, questa affermazione – di rendersi conto che gli psicoanalisti non sono scienziati, proprio allo stesso modo in cui non sono scienziati i medici organicisti. Perché dico questo?
Perché al momento tutte e due le categorie intervengono su di un oggetto che non esiste. Lo scienziato la cui scienza non ha oggetto non può dirsi scienziato. Oggi infatti nessuno può dire di sapere che cosa sia veramente l’uomo.