64 – Giugno ‘90

giugno , 1990

Quando decidiamo di commentare l’esecuzione di qualche brano di W.A. Mozart lo facciamo sempre con timore ed imbarazzo. Nessuna e sottolineiamo nessuna interpretazione corrisponde mai al nostro Mozart interno; inoltre diventiamo ipersensibili, in modo patologico, al più impercettibile ritardo, ad una leggerissima difficoltà di intonazione, ad ogni sia pur quasi inesistente slabbratura del ritmo. Tutto questo ed altro ancora, lo riconosciamo, ci rende praticamente incapaci di giudicare con serenità sia pur minima ogni esecuzione del musicista di Salisburgo. L’ascolto della sua musica ci fa sempre dire, parafrasando Luigi XV: «Dopo di lui, il diluvio». Haydn, Beethoven, Strawinsky potrebbero, dopo di lui, anche non aver più scritto; e all’indietro, a parte forse Bach, il discorso è lo stesso. Per questa nostra posizione vagamente delirante, nella quale abbiamo una fede assoluta, chiediamo ai nostri lettori un po’ d’indulgenza.
Giovedì 7 giugno sono stati eseguiti all’Auditorium del Foro Italico, per la stagione dei Concerti da camera di Radio uno, i Quintetti in Do maggiore K.515 e in Sol minore K. 516 in un Incontro di solisti come Felix Ayo e Giuliano Cara (violini), Dino Asciolla e Alfonso Ghedin (viole) e Mario Brunello (violoncello).
Il primo quintetto, composto nell’aprile 87 si articola in quattro movimenti:
l’allegro, caratterizzato da una sotterranea drammaticità cosparsa di punti interrogativi che i cinque hanno reso con una correttezza sciolta, appena leggermente opaca; l’andante è un’accorata e sensuale invocazione in cui le parti sono armonicamente perfette e sensualmente ambigue, in una esecuzione molto buona nel fluire naturale delle delicatissime botte e risposte; un po’ discontinua ci è parsa invece la resa del terzo movimento dallo splendido e corposo minuetto; infine i solisti con buona espressività hanno colto dell’allegro finale il sublime volo sonoro, eseguito con brio puntiglioso anche se con ritmo non sempre perfetto.
Il quiintetto in sol minore è del maggio dello stesso anno ed apre con un allegro dal cui primo tema rampollano una serie di sublimi e disarmanti melodie e idee musicali, eseguito con piglio ora aggressivo ora sentimentale; il minuetto e trio costituiscono il secondo tempo, formando un insieme di grande profondità e bellezza che ha permesso agli esecutori di dimostrare buone doti di equilibrio; splendida poi l’esecuzione dell’adagio ma non troppo: un divino e sovrumano lavoro in filigrana nel quale tutte le parti sono limpidamente nitide e meravigliosamente amalgamate; l’adagio-allegro conclusivo è di una bellezza disperata che si scioglie, nell’allegro, in un brio appena un po’ più sereno, ancora percorso da qualche brivido sconvolgente; l’interpretazione anche questa volta è stata buona, nonostante alcune sonorità «sporche».