64 – Giugno ‘90

giugno , 1990

Nei confronti della pretesa libertà dell’arte, bandiera della borghesia di quell’epoca, Lenin ebbe a sostenere in un saggio del 905: «Noi socialisti smascheriamo questa ipocrisia, smascheriamo le false insegne, non per ottenere una letteratura ed un’arte al di fuori delle classi (questo non sarà possibile che nella realtà socialista senza classi) ma per opporre a una letteratura ipocritamente pretesa libera, e di fatto legata alla borghesia, una letteratura realmente libera, apertamente legata al proletariato» (cfr. L’organizzazione e la letteratura di partito).
Non certo noi, ma la storia, ha smascherato Lenin. Una società socialista non esisterà probabilmente mai e Lenin è un mistificatore non meno degli ideologi borghesi, colpevole anch’egli di aver fondato le basi non della libertà ma di una tirannide. Stalin gli è salito sulle spalle usando come piedistallo l’arroganza del suo predecessore; ma esistono rivoluzionari che non siano arroganti? Esistono padroni del «palazzo» che non siano tiranni? Lo stalinismo è stato un’aberrazione, ma di insulti alla dignità dell’uomo ve ne sono stati tanti lungo la storia. Gli artisti sono sempre stati schiavi dello stato o di loro stessi. Neppure nell’idealizzato mondo ellenico l’arte era libera; certo, forse, qualche ventata d’aria fresca in più allora era possibile respirarla, perché uno stato non troppo ammalato può svolgere una funzione positiva anche per l’arte e gli artisti. Lo splendido Eufronio e il divino Fidia, sono però andati distrutti con quel mondo che chissà quando potrà risorgere e riprendere avvio.
L’arte purtroppo ha quindi, come abbiamo detto, dovuto sempre fare i conti con l’oppressione, esterna e interna, degli artisti. Le stupidaggini dell’ultima biennale per costruire e allestire le quali alcuni artisti asserviti al potere capitalistico-industriale hanno costretto i loro padroni a spendere miliardi, non sono certo più belle del monumento scultoreo Operaio e contadina ideato nel 1936 dalla sovietica Wera Muchina. Nonostante tutto però Michelangelo nella Sistina, cuore del potere e della cultura cattolica, ha dipinto i suoi nudi rivoluzionari e Shostakovic, umiliato e vilipeso dagli accademici musicanti di stato dello stalinismo, è riuscito a beffarli dandoci una musica che molto spesso raggiunge vette altissime anche di libertà formale.
La mostra dei Frammenti d’arte contemporanea che allinea alla Casa della Cultura, di largo Arenula 26, «32 Protagonisti dall’URSS» ci ha ispirato più che altro queste riflessioni sul destino dell’arte e sulla libertà degli artisti.
La neo-rinascimentale e storicistica Tatjana Nazarenko, il saviniano surrealista Andrej Markevich, l’informale Nicolaj Kamarov o il magrittiano Valerij Maloletkov e i loro colleghi ci sembrano più essere asserviti ad un modello di arte occidentale, che capaci davvero di instaurare con essa un rapporto dialettico e con il pubblico un dialogo di «prima mano». Questo indipendentemente dall’atmosfera di regime che già incombe sulla neo-nata perestrojka, con i suoi riti di sconfessione e riparazione.

Nella presentazione alla mostra di Marco Moschini, Paolo Vitolo, titolare dell’omonima Galleria di via Gregoriana 4, scrive: «…il mito, come oggi sappiamo di intenderlo e sentiamo di viverlo, non ha nulla di estraneo al circuito delle nostre percezioni quotidiane; è anzi quella parte di quotidianità cui siamo portati, forse inconsapevolmente ad attribuire valore…» Leggendo queste parole ci si potrebbe immaginare di trovare nella mostra grandi o piccoli quadri variopinti, in uno dei quali, per esempio, Afrodite avvolta in una vestaglietta di cotonina stampata prepara due uova al tegamino su di un fornello a gas; oppure un possente Zeus in mutande in una stanza da bagno tutta blu che si sta lavando i denti; o ancora un giovine Apollo sdraiato sul letto che suona la chitarra.
Riconosciamo che queste sarebbero immagini ovvie, banali e un po’ stucchevoli, però sempre meglio di una galleria totalmente vuota.
Noi infatti non abbiamo trovato niente nello spazio allestito da Vitolo. Se però davvero avessimo trovato quel che la parola «niente» significa: cioè pareti e pavimenti spogli, avremmo almeno potuto apprezzare lo sforzo di parodiare gli epigoni di Duchamp e del futurismo; invece il nulla che abbiamo trovato è un po’ di carta appallottolata ordinatamente disposta sul pavimento o qualche foglio incorniciato.
Che questa sia «carta riciclata» è un segno che a nostro avviso non ha alcun valore semantico; non è neppure un gioco; è soltanto un po’ triste.