Psicoanalisi contro n.64 – «Cerco l’uomo»

giugno , 1990

L’ arte dello scalco, in senso stretto, è quella del macellaio o dell’anatomista; intesa in senso più lato, è quell’attività che consente di separare, all’interno di una struttura, alcune sottostrutture, tenendo conto delle connessure e delle caratteristiche funzionali. Se prendiamo in esame un organismo vivente, articolato in organi e apparati, può sembrare facile separare i singoli componenti, delimitando le varie parti in base’ a criteri funzionali o morfologici; ma addentrandoci nell’operazione ci accorgiamo che agisce nel meccanismo di individuazione anche una nostra predisposizione mentale. Per esempio, la medicina orientale segue criteri di identificazione e separazione diversi da quelli validi per la medicina occidentale; basti per tutti citare il caso dell’insieme fegato-milza, visto dagli orientali come unitario e invece valutato separatamente in occidente. Troppo facile sarebbe giudicare deliranti, primitivi o barbarici i criteri di quell’antica scienza; per quanto sia faticoso, bisogna accettare che altri vedano la realtà da punti prospettici diversi dai nostri, restando il fatto che ciascun punto di vista può essere giudicato opinabile. Secondo la medicina occidentale, fegato e milza sono due organi distinti con caratteristiche fisiologiche sufficientemente autonome; secondo la secolare tradizione orientale, i due termini designano invece un tutto sufficientemente unitario. Quindi una ideale mappa dell’organismo umano vedrebbe disegnate aree funzionali e morfologiche ben diverse, a seconda che segua i dettami di questa o quella scienza medica. Non è qui il caso di aprire l’annosa questione sull’efficacia terapeutica di tecniche mediche come l’agopuntura, da noi praticata con una alternanza di risultati positivi e negativi, non dissimile da quelli di qualunque altra tecnica terapeutica occidentale, a cominciare dalla psicoanalisi essa.

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Non è quindi utile considerarsi, in quanto occidentali, gli unici depositari di una verità scientifica ed è meglio anzi cercare di trarre il massimo vantaggio dalle ipotesi formulate altrove e secondo parametri diversi, mettendo a confronto il maggior numero possibile di sistemi. Questo va detto avendo però cura di demistificare quella pseudo-cultura misticheggiante che, dagli anni sessanta in poi, ha imperversato nell’occidente con l’accettazione superficiale e acritica di un ciarpame folc1oristico pseudo-terapeutico derivato da una cattiva assimilazione dei principi filosofici dell’oriente, ritenuto stupidamente detentore di una metafisica superiorità assoluta. Purtroppo i ciarlatani esistono nei templi d’oriente e imperversano; al pari dei maghi semi-analfabeti sproloquianti dagli schermi televisivi di casa nostra.
Credo che sia importante saper accettare anche in campo scientifico un atteggiamento di compromesso. Io non credo che il compromesso sia di per sé un elemento negativo, lo è se la scelta è di tipo qualunquistico, ma non lo è più se esprime la consapevolezza del relativismo culturale di questo o quel sistema.
Bisogna dunque sapersi riscattare dall’accettazione supina dei principi che presiedono all’arte dello scalco imposti come assoluti. Questo vale anche al di fuori del campo ristretto dell’anatomia. Bisogna liberarsi da una visione troppo rigida della realtà, da una consuetudine che ci induce a delimitarne i contorni secondo forme già date da sempre. Non è detto che sempre il bene stia dalla stessa parte. Bisogna liberarsi dalle ovvietà del buon senso di ieri, ma anche dalla banalità sottilmente persuasiva dei messaggi televisivi, degli slogan politici. Bisogna imparare a decodificare.

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Non si tratta comunque di scegliere fra i metodi c1assificatori dell’occidente e quelli dell’oriente; ma di accettare la possibilità che l’anatomia e la fisiologia trasmesseci dalla scienza cui abbiamo da sempre fatto riferimento non abbiano necessariamente valore assoluto.
L’uomo, quindi, di cui io posso parlare in termini filosofici e clinici corrisponde ad una particolare concezione culturale, che si ritrova anche nell’inconscio sociale dell’occidente.
Ancora una volta ribadisco la differenza, per me molto significativa, tra il mio concetto di inconscio sociale e l’inconscio collettivo di derivazione junghiana; differenza fondata su basi metafisiche e metapsicologiche.
Per me, anche l’inconscio del gruppo sociale è in divenire come l’inconscio individuale, inseriti entrambi nel processo storico; Jung aveva invece postulato un inconscio collettivo, uguale per tutti e determinato una volta per sempre, indifferente al divenire del mondo; ultimo e insultante fraintendimento alla teoria platonica delle idee.

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La vecchia ipotesi abbozzata da Sigmund Freud nel 1896, per la quale ad ogni sommovimento neuronale dovrebbe corrispondere nella psiche una struttura ideativa non è poi tanto ingenua: rispecchia quello che si poteva dire allora sul rapporto psiche-soma; ma oggi chi può dire di sapere di più? Quali sono i contributi effettivi di studiosi come Alexander o Marty alla nostra conoscenza in materia? Dal canto mio, ancora sono coinvolto nello stesso dilemma: se si debba parlare di psicosomatica o di somato-psichica.
Certamente si deve andare verso l’unificazione di due realtà che debbono diventare una, ma ancora non so in che modo.
Ancora oggi la scienza non ha trovato la chiave che permetta all’uomo di recuperare la sua unità di mente e di corpo.
Potrebbe ciò significare che la cosa non è possibile, che la divisione è ineliminabile e che l’uomo è composto di due realtà distinte?

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Si potrebbe anche provare a capovolgere i termini della questione ed impostarla in modo opposto a quello tradizionale: partire cioè dal corpo e risalire alle conseguenze psichiche.
Un’eruzione cutanea, un disorientamento cellulare di tipo neoplastico, un’artrosi cervicale, un’ulcera gastrica, anche solo un semplicissimo raffreddore potrebbero essere cause capaci di determinare alcuni atteggiamenti psichici di risposta, di tipo nevrotico o anche psicotico.
L’agente sarebbe puramente esterno: un virus, un batterio, un’intossicazione; ma provocherebbe nella psiche una serie di reazioni. Questo anche indipendentemente dal fatto che la malattia organica si renda o no manifesta.
La psiche finirebbe con l’appropriarsi di queste situazioni di crisi per costruire sue fantasie che finiscono però con l’avere la concretezza di una sindrome: ansia diffusa, patofobia, anoressia, bulimia, ipocondria, delirio, depressione. Non sarebbero stati, quindi, in quest’ottica, gli agenti psichici ad influenzare l’organismo che ha tentato in seguito di reagire, attraverso una propria patologia.
I virus, i batteri esistono; esistono persino i vasi che cadono sulla testa di chi passa per strada e da queste situazioni può nascere una gamma infinita di sindromi psichiche. La psiche reagisce all’aggressione del mondo esterno.

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Con questa prospettiva, tutti i disorientamenti verrebbero ad essere originati da agenti esterni di tipo organico o sociale; e le nevrosi e le psicosi non rappresenterebbero altro che le risposte dell’essere umano agli stimoli dell’ambiente esterno e dell’organismo.
Un ragazzo in analisi con me, un giorno, all’età di quattordici anni, andando a sciare si ruppe una gamba; la frattura, molto complessa, rese indispensabile una difficile se operazione chirurgica. Contemporaneamente il ragazzo stava attraversando un periodo molto difficile nel suo rapporto col resto della famiglia: i genitori avevano preannunciato una separazione, e la cosa lo faceva soffrire molto. La prima interpretazione che venne alla mia mente di «rozzo» psicoanalista fu che il ragazzo aveva tentato con quell’incidente di far riavvicinare tra loro i genitori, cosa che in effetti era avvenuta, almeno temporaneamente.
Una mia paziente, affetta da una grave n forma di vaginismo, ha scoperto durante il lavoro analitico un profondo e immotivato odio per il marito, del quale non ti si era mai resa conto in passato; eppure può essere semplicistico dire che quelle contrazioni che rendono impossibile o dolorosissima la penetrazione esprimono il rifiuto inconscio del marito; c’è infatti la possibilità opposta, che il rifiuto anche psichico del marito sia derivato proprio dalla sofferenza che quei rapporti sessuali le provocano, per cause anatomiche o fisiologiche.
Un altro ragazzo nutre, da quanto è emerso durante il lavoro analitico, forti desideri sessuali verso il proprio padre, dal quale fantastica di essere posseduto e che vorrebbe fantasticamente possedere; ebbene ad un certo punto il figlio ha sofferto di una gravissima forma di allergia, dovuta al profumo abitualmente usato dal padre, cosicché non può più sopportarne la vicinanza.
Come è possibile stabilire con precisione se la paura del rapporto perverso ha provocato la forma allergica oppure l’allergia ha ingenerato il rifiuto per il padre e le fantasie perverse da cui il ragazzo pretenderebbe di difendersi?
In un altro caso, un ragazzo che convive con un’amica che sua madre non perde occasione di insultare, prova, ogni volta che torna alla casa materna, per lo più in occasione di pranzi di circostanza, un’immediata dilatazione dello stomaco, un attacco di colite, e molti altri disagi di natura ansiosa; la giustificazione che il ragazzo si dà è la pessima cucina di sua madre, tutta a base di panna, che lui detesta. E il legittimo ribrezzo per la panna che provoca quella sintomatologia o è l’irritazione per l’atteggiamento della madre verso l’amica che provoca il disturbo?
Troppo semplicisticamente forse la psicoanalisi, fino ad oggi, ha spiegato tutto con l’azione più o meno nascosta di complessi edipici irrisolti, o con le tormentate vicende dell’inconscio.
Secondo me, invece, anche il corpo ha una sua realtà significativa di cui bisogna tenere conto e che può essere causa prima di una reazione psichica, conscia od inconsapevole.

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Io penso quindi che nella psiche umana non alberghino emozioni che in qualche modo non corrispondano a modificazioni delle cellule del sistema nervoso o anche di cellule appartenenti a qualche altro apparato dell’organismo umano. È fin troppo facile qui ricordare la teoria di James e Lange, secondo la quale un’emozione, priva delle sue manifestazioni fisiologiche, è ben difficilmente identificabile; cosa infatti costituirebbe, secondo i due studiosi, un’emozione come, per esempio, la paura, se si prescindesse dalla tachicardia, dalla sudorazione, dalle scariche adrenaliniche e dalle altre manifestazioni organiche che caratterizzano questo stato emotivo? Una persona il cui corpo resti assolutamente inalterato in tutte le sue funzioni e rilassato può veramente provare un’emozione terrificante? Ciò non vale solo, come si sarebbe però portati a ritenere, per le grandi emozioni; ma anche per le più sottili alterazioni dello stato emotivo.
Se veramente un’emozione di qualsivoglia natura e contenuto psichico, affettivamente significante, non avesse una realtà organica su cui agire non avrebbe di per sé sostanza alcuna. È più credibile anzi che le emozioni stesse consistano in un’alterazione organica di qualunque tipo, di quanto non sia plausibile un’emotività slegata dalla concretezza del soggetto fisico che la prova.
Perciò un contenuto psichico, conscio od inconscio, che secondo me ha sempre e comunque un colorito affettivo, coincide con la relativa alterazione fisiologica e non solo si esprime attraverso di essa.
Lo stesso concetto di complesso di Edipo, il quale pur sembra avere una sua autonoma valenza astratta, non appena si realizza concretamente attraverso questo o quel sentimento di un figlio verso i genitori, produce emozioni che “sono” e non solo “producono” vere e proprie modificazioni organiche. Sarebbe fin troppo facile ironizzare sulle possibili differenze di un’alterazione cardiaca causata dal complesso di Edipo e quella espressa dal senso di inferiorità; in realtà, sia pure all’interno di un’ipotesi solo astratta, è vero che se riuscissimo ad avere gli strumenti capaci di analizzare tutti i passaggi e le caratteristiche delle alterazioni neuronali relative ad un’emozione, sapremmo anche distinguere tra la natura emotiva di una e quella dell’altra.

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Un altro problema che sento di dover porre a questo punto è il ruolo e il significato che può avere la parola che definisce o descrive una dinamica emozionale del tipo sopra accennato.
Quanto la parola contribuisce anche a costruire l’emozione stessa? La parola descrive, spiega e costruisce allo stesso tempo una realtà. Altrimenti sarebbe un puro flatus vocis e non potrebbe riferirsi all’interezza di un contenuto che si realizza nella concretezza fisica e mentale di una persona.
Possiamo dunque concludere affermando che tutte le situazioni affettive ed esistenziali: dalla cosiddetta normalità alla nevrosi e alla follia, non sarebbero nulla se non corrispondessero alla realtà di un corpo che si modifica continuamente e di una parola che le esprime. (E chiaro magari che fino a questo punto non ho voluto prendere in esame l’ipotesi di «anima»; questo mi porterebbe a tutta un’altra serie di considerazioni estranee al genere di problema di cui stiamo occupandoci).

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Di fatto, la scienza di quest’ultimo secolo ci ha invece abituati a considerare l’esistenza di meccanismi mentali e di conflitti tutti contenuti all’interno della psiche, i quali possono procurare sofferenza o causare disturbi di comportamento, ma che sono soltanto entità astratte descrivibili attraverso procedimenti logici e verbali.
Questo tipo di descrizione non spiega però quale sarebbe la natura specifica di quelli tra questi meccanismi della psiche che riescono ad aprirsi un varco fino a provocare modificazioni nel corpo di chi prova questi particolari sentimenti; modificazioni che sono identificabili talvolta addirittura come processi difensivi, apparentemente indipendenti dalla volontà.
La febbre che sale e rende impossibile affrontare un impegno temuto fornisce anche la giustificazione morale della fuga. In campo organicistico si è d’altro canto sostenuta fino ad oggi l’esistenza di patologie pretese oggettive che hanno nell’organismo fisico l’origine e le manifestazioni relative e che non interesserebbero la psiche che in modo del tutto secondario o subordinato. Un agente patogeno esterno privilegia un determinato organo e con esso impegna una lotta tutta limitata ad azioni e reazioni fisiche e chimiche di tipo meccanicistico, che determinano l’esito e la risoluzione eventuale della malattia.
Questi organicisti ad oltranza non sembrano rendersi conto che così dicendo implicitamente regrediscono a ipotesi metafisiche di tipo cartesiano, poiché solo una «ghiandola pineale» a questo punto potrebbe spiegare l’eventuale partecipazione emotiva dell’individuo ad un processo di malattia e guarigione.

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Se però psicologi da una parte e organicisti dall’altra non riescono a dare una spiegazione sufficientemente plausibile di una realtà umana che contempli una psiche ed un corpo non solo in relazione tra loro, ma anche espressione di una persona unitaria, neppure le mie considerazioni che ipotizzano un continuo interscambio tra psiche e soma e viceversa, senza che una delle componenti abbia una caratteristica primaria e definita, riescono a dare una spiegazione sufficientemente strutturata. Può forse contribuire alla comprensione di realtà così complesse ricordarsi che ciascun essere umano non è solo, ma è in continua inter-relazione col mondo circostante e con gli altri.
Questo rapporto non è solo di scambio, ma è costitutivo: l’uomo si costruisce nel suo inconscio sociale, il quale a sua volta si precisa come risultato dell’insieme degli inconsci individuali ai quali contribuisce a dare forma. L’autonomia dell’inconscio individuale è quindi più che altro apparente e ciò rende più problematica che mai la definizione di un «Io» unitario composto dalla somma psiche-soma.
Ritengo però vitale, dare alla ricerca e alla pratica clinica un fondamento metapsicologico, e invito tutti coloro che decidono di intervenire o anche solo di teorizzare in un campo specifico sia della clinica organica sia della psicologia, a tenere presenti sempre queste tre componenti che contribuiscono a fare dell’uomo quella realtà unitaria che egli innegabilmente è: soma-psiche-inconscio (individuale e sociale).
Non si tratta, a questo punto, però, tanto di sostenere che al soluzione eventuale starebbe nella visione simultanea del problema da due diversi punti prospettici; magari postulando una generazione nuova di psicoanalisti capaci di avere una conoscenza sufficientemente approfondita del funzionamento degli apparati anatomo-fisiologici e dall’altra parte un’altrettanto preparata categoria di medici organicisti con una profonda preparazione di tipo psicologico e psicodinamico; ma si tratta invece – e faccio per la prima volta, con estrema consapevolezza, questa affermazione – di rendersi conto che gli psicoanalisti non sono scienziati, proprio allo stesso modo in cui non sono scienziati i medici organicisti. Perché dico questo?
Perché al momento tutte e due le categorie intervengono su di un oggetto che non esiste. Lo scienziato la cui scienza non ha oggetto non può dirsi scienziato. Oggi infatti nessuno può dire di sapere che cosa sia veramente l’uomo.