Archivio di aprile 1990

62 – Aprile ‘90

domenica, 1 aprile 1990

È semplicemente falso che la nostra epoca si trovi per la prima volta ad affrontare una forma imprevista ed originale di malessere sociale: la follia distruttiva dei giovani reduci dal ballo e dallo «sballo» del sabato sera.

I giovani, gli adulti e i vecchi di ogni tempo hanno conosciuto forme di malessere che li ha trasformati, di volta in volta, in protagonisti di forme distruttive ed autodistruttive, strettamente legate alle vicende dei loro ruoli sociali. Le crisi dei valori, l’assorbimento costante di messaggi di violenza, la forza annientatrice della paura, hanno accompagnato tutte le età dell’uomo, in tutte le epoche ed i luoghi della storia del mondo. Queste considerazioni non bastano però – ovviamente – a negare la presenza di Un problema preciso, qui ed ora, anche se è vero che è solo uno, e non certo il più allarmante, dei problemi. Sta di fatto che giovanotti e giovinette, non raggruppabili in alcuna categoria omogenea, se non quella che li vede più o meno uguali per età, dopo una serata passata ballando bevendo e fumando sfogano fa loro imbecillità rischiando la pelle – quel che è più grave anche quella degli altri – sulle strade e, autostrade, mal custodite, della penisola. E indubbiamente tragico che la vita degli esseri umani sia esposta a così peregrini rischi; per cui ben vengano tutte le forme di controllo, repressione e limitazione di libertà personale che, in qualche misura, possano attenuare il fenomeno e rendere meno pericolose le vie del mondo. Manco a dirlo, si è subito acceso in proposito un vero fuoco proibizionista, un ‘irresistibile gara alla ricerca della proposta più efficace, in grado, con la rigorosa arma del divieto, di salvare i giovani dalla rovina. Già con l’alcolismo, col fumo e la droga si è chiaramente sperimentato come il proibizionismo non riesca mai a dissuadere, ma tutt’al più a favorire intorno a sé la criminalità legata ad ogni tipo di traffico clandestino; per cui c’è da temere con fondatezza un sorgere di zone <<franche» dove procurarsi quel diletto o quelle sostanze altrove interdette; e che nei luoghi deputati e mafiosamente protetti costeranno somme che nessuna attività lecita potrà permettere di spendere. Ciò ovviamente senza nessun effetto educativo individuale o sociale sulle giovani generazioni.

I ragazzi di oggi, esattamente come quelli di ieri, sono soprattutto gli strumenti utili a realizzare intenzioni, sempre consumistiche, che loro non appartengono, o che, perlomeno, altri hanno deciso siano le loro.

Qualche volta è sembrato opportuno far vestire ai giovani divise di fogge diverse ed invitarli all’olocausto, in nome di qualche idealizzato nazionalismo. Altre volte si è puntato sul colore delle ideologie per giustificare l’annientamento suicida e la inconsapevolezza criminale. Oggi si rimprovera loro il vuoto dei contenuti esistenziali, che li ha resi indifferenti alla loro e altrui incolumità. Lo sforzo di allargare al massimo le aree dell’imbecillità sembra essere costante nella storia dell’uomo, oggi è appena un po’ accelerato, visto che, in tempo reale, il più becero dei messaggi può essere teletrasmesso, stampato e spacciato. Nessuno di noi – vecchie talpe – che urliamo indignati, ha qualcosa da offrire in alternativa a questi ragazzi, né tantomeno patisce per amor loro. C’è invece una specie di stizza che ci prende nel vederli sprofondare in baratri che non sono quelli che ciascuno di noi si è industriato di scavare sotto i loro piedi.

62 – Aprile ‘90

domenica, 1 aprile 1990

Lo hanno detto tutti, sappiamo quindi di non essere per niente originali nel ripetere che il libretto di Maria Stella Sernas per Il Principe felice, opera musicata da Franco Mannino, presentata in questa stagione al Teatro dell’Opera di Roma è un brutto pasticcio. Il Principe felice e L’usignolo e la rosa, due belle fiabe di Oscar Wilde, sono state assurdamente sintetizzate in un unica favola senza senso.

Nel teatro in musica accade spesso che le parole risultino, sulla scena, incomprensibili e questo può senz’altro essere considerato un vizio di questa forma artistica, ma questa volta accade invece che parole che sarebbe meglio non capire, sono state rivestite di una musica che le rende preoccupantemente comprensibili, tanto che riescono a gettare un’ombra di squallore anche su quei punti in cui l’astuto e accattivante melodiare di Mannino riuscirebbe a costruire accettabili atmosfere.

L’orchestrazione è sapiente: gli strumenti quasi sempre suonano sommessamente e solo di rado tutta l’orchestra si sente compatta; ma per lo più sono pochi strumenti, ben assemblati che esaltano languide melodie che – puccinianamente, ma non soltanto – accarezzano l’orecchio: niente di profondo, anzi! Talvolta sono valzerini e marcette da teatro dei burattini certo non di prima mano né ai prima qualità. Secondo noi c’è una sola scena che ha un vero valore musicale, anche se scempiata dal testo purtroppo comprensibilissimo: il finale del primo atto, quando lo studente, semi-congelato e mezzo morto di fame, stupidamente, vuole che il suo smeraldo si trasformi in una rosa rossa, per darla all’amata (senza rendersi conto che, con il ricavato della vendita della pietra, con qualunque mezzo di trasporto – fosse pure un jet – poteva recarsi nel giusto luogo ove comprare interi fasci di rose purpuree); qui la musica dice col giusto accento quello che le parole non sanno dire, esprimendo l’amore con una melodia tenera e appassionata, retta da un’orchestrazione elegante. Il secondo atto – tanto lodato – non ci è piaciuto proprio per niente per la scontatezza della coreografia di Paolo Bortoluzzi, soprattutto nella prima parte, dove la povertà di idee non era coperta dalla fantasmagoria dei costumi di Luzzati nella «festa a corte». Il gruppo di danzatrici, nella scena delle rose, si muoveva in passaggi e figurazioni vetuste, come avviene in ogni saggio di scuola di danza nelle accademie tersicorèe di provincia, e nella povertà dei gesti risaltava paurosamente l’imprecisione del corpo di ballo negli insieme. Quello del corpo di ballo dell’Opera di Roma è un grosso problema che la direzione artistica ha sempre trascurato e le conseguenze ancora si vedono, malgrado l’iniziativa di alcuni personaggi coraggiosi del balletto, che si sforzano perché la tendenza finalmente cambi.

La regia di Alessandro Sequi non poteva fare nulla per rendere accettabile il comportamento dei personaggi; la sua grande fortuna è stata di potersi annegare nel fantasmagorico splendore delle scene e costumi di Emanuele Luzzati, che, anche sostenuto da investimenti da capogiro, ha offerto tutto il desiderabile per una scena di fiaba, di sogno e d’amore.

Il soprano Elizabeth Norberg-Schulz (la Rondine) è stata veramente eccezionale: la sua voce sgorgava da tutto il suo corpo, con estrema facilità e precisione, sia nelle note lunghe dei recitativi, sia nelle ampie melodie. Sempre musicalmente espressivissima con la voce, lo era altrettanto nella recitazione. La sua vocalità dotata di grande estensione riesce anche nelle punte estreme del registro a tornire note rotonde e piene che subito, però, quando sia necessario, si trasformano in pianissimo di grande delicatezza.

Apprezzabilissimo il tenore Ezio di Cesare (lo Studente): chiaro e melanconico. Luigi De Corato (il Principe) ha usato la sua voce di baritono con dolente efficacia. Tutti gli altri, compreso il coro diretto da Gianni Lazzari, si sono districati abbastanza bene.

62 – Aprile ‘90

domenica, 1 aprile 1990

Nuovo Cinema Paradiso, con la regia, soggetto e sceneggiatura di Giuseppe Tornatore, da quando si è presentato sugli schermi, ha collezionato una miriade di premi; ed infine come degno coronamento ha anche ottenuto l’Oscar per il miglior film stramero.
Pensiamo che tutti ne conoscano la trama, che quindi riassumiamo dicendo solo che tratta la storia di un ragazzino, Totò, innamorato del cinema e amico dell’anziano Alfredo, operatore della sala parrocchiale in un paesino siciliano, che, dopo un incendio, prende il posto dell’operatore stesso il quale nell’incidente ha perso la vista.
Poi da quella cabina di proiezione partirà per conquistarsi un posto nel mondo del cinema a Roma, da dove lo richiama solo la notizia della morte dell’antico amico. Al Paesè lo attendono la visione del vecchio cinema che viene fatto esplodere per far posto ad un parcheggio ed una misteriosa eredità in pellicola di celluloide.
Il film unisce momenti di schietta tensione drammatica e poetica, per nulla banale, a momenti di scontato sentimentalismo e facili trovate; però non si avverte mai una reale frattura fra le due fasi. Il racconto scorre fluido e solo ad una riflessione successiva, per lo più, ci si accorge di essere talvolta caduti in tranelli di dubbio gusto.
Tutta la prima parte è caratterizzata dall’antologia di spezzoni di vecchi capolavori della storia del cinema che con il loro polveroso fascino dominano l’attenzione dello spettatore, mentre i personaggi vengono introdotti quasi con discrezione e si inizia a costruire la trama del tenace rapporto tra l’uomo e il bambino. Burbero e tenero l’uno, appassionato e malizioso il piccino. Al loro fianco c’è fin da subito un fiorire di gustosi personaggi: il prete che col campanello svolge la sua censura imponendo il taglio di tutte le scene di baci appassionati; la torma dei ragazzini, la coppia dei promessi sposi, i simpatici e gli antipatici e il matto del paese, «padrone» della piazza. Un po’ scontatamente si insinua che il piccino il quale ha perso il padre in Russia cerchi nell’operatore un suo sostituto, sui due però aleggia il bruttissimo, anche artisticamente, personaggio della madre rancida, rabbiosa, stupida e inverosimile: una vera nota stonata. Era ovvio che nell’incendio fosse il bambino a salvare eroicamente l’uomo prigioniero delle fiamme e che da quel momento nella sua cecità diviene saggio come un antico filosofo, capace anche di raccontare al fanciullo diventato adolescente e innamorato di un’angelica biondina, una parabola che è la chiave, ben nascosta, di tutto il film: «Un soldato vide passare la sua bella principessa e se ne innamorò. Per dimostrarle il suo amore le disse che sarebbe stato capace di rimanere cento giorni e cento giorni, immobile sotto il suo balcone. Pioggia, vento, caldo, freddo, mosche e zanzare lo riducevano ad uno spettro, ma il giovane non desisteva. Giunse infine la novantanovesima notte e la principessa era ormai conquistata. Però a quel punto avvenne questo: il soldato, voltò le spalle alla principessa e se ne andò per sempre». Alfredo dopo aver raccontato la storia a Totò gli dice: «Non chiedermi cosa vuol dire perché io non lo so!» Noi crediamo di averlo capito assistendo alla sequenza finale in cui Totò proietta sullo schermo le pellicole della misteriosa eredità: tutti i baci delle storie cinematografiche censurate nel passato si succedono uno dopo l’altro in una appassionata confessione d’amore a colmare il vuoto dei baci che i due non si erano potuti dare finché Alfredo visse.
Fanno da cornice a Philippe Noiret, l’operatore – efficace nel rendere il suo personaggio di volta in volta virile, ironico, affettuoso ed anche emblematico nell’ultima maschera del cieco – alcuni tra i migliori attori e caratteristi del nostro cinema: da Pupella Maggio, che impersona, riscattandone la figura, il personaggio tenerissimo della madre ormai anziana, Leopoldo Trieste, Leo Gullotta e Isa Danieli.
Dei tre attori che danno corpo e immagine al protagonista nelle varie età abbiamo trovato eccezionalmente bravo Marco Leonardi, giusto nella parte non solo per il fisico del ruolo, ma anche per la sua capacità di penetrazione nella psicologia dell’adolescente e del giovane uomo tormentato dai problemi dell’amore e della vita. Salvatore Cascio è un bambino troppo vezzoso per rendere realisticamente un personaggio così sfaccettato come quello del piccolo Totò, anche malizioso, bugiardo e sensuale. Jacques Perrin ha saputo con garbo far tacere l’urlante inverosimiglianza fisica nei confronti del suo personaggio con una recitazione contenuta e commossa. Ottime le musiche di Ennio Morricone: alcuni archi ripetevano un tema ossessivo e struggente, alternandosi con grande efficacia alle stridenti colonne sonore dei vecchi film. Molto gradevole e ben costruito il «tema dell’amore» di Andrea Morricone.

62 – Aprile ‘90

domenica, 1 aprile 1990

«Fabula Picta/Fabula Dicta» è il titolo di un’ampia e bella mostra, dedicata all’opera di Enrico Benaglia alla Galleria Rondanini, nell’omonima piazza, con il Patrocinio della Presidenza della Giunta Regionale Lazio.
La «fabula» di cui ci sembra voglia raccontare per immagini Benaglia è quella dell’umanità, sia osservata nel suo divenire storico-mitologico: da Adamo ed Eva in avanti; sia nei suoi aspetti più intimi come gli Incontri privati, o Il ballo nella stanza, o ancora I giochi sul balcone. In questa storia pare avere un posto privilegiato la musica: Giocando con Mozart, Concerto per un compleanno, Serenata, Dopo il concerto, Il quartetto e Lezione di musica.
Lì per lì quella del pittore sembrerebbe una narrazione solo giocosa: figurinette di carta, ritagliate da quaderni o giornali, che si muovono negli svariati teatrini del mondo e del tempo; i fiammiferi sparsi che devastano qua e là, in piccoli roghi la fragile indifferenza dei personaggi sono però un piccolo grido di allarme che non può essere ignorato.
Oggetti simbolici di metafisica solennità dominano talvolta la scena: forbici, mollette da bucato, uova e piume, armadi e paraventi; ma la derivazione dal surrealismo metafisico e simbolico acquista in Benaglia colori e forme peculiari; non rinnega le suggestioni dei più grandi: da Magritte a De Chirico; ma le sostanzia di una sua maliziosa perversità, per nulla infantile.
Coerente ed uniforme, questo «canovaccio» si svolge attraverso gli anni su uno sfondo pittorico di grande ricchezza cromatica, attraverso l’uso di una tavolozza di calda sensualità, ora solare ora notturna, che riempie gli occhi e stuzzica la fantasia.

Un senso di disagio ci coglie quando non riusciamo a capire, così ci siamo a lungo interrogati sui possibili significati da dare, o su quali chiavi di lettura usare dinnanzi ad opere come quelle che l’americano di origine italiana Baldo Diodato espone alla Galleria MR di via Garibaldi 53.
Nella grande sala campeggia una struttura di zinco smerigliato nella quale sono ritagliate due sfocate e colorate fotocopie di una celebre’ scultura classica in una della molte versioni marmoree della tarda romanità: l’Apollo del Belvedere! Sulle pareti della stessa stanza: «una serie di disegni, costretti nella lucentezza della resina e racchiusi in forme scatolari di lamiera, accompagnano la grande scultura». In effetti in piccoli disegnini a matita, su carta lucida sono imprigionate figurine tratte da opere scultoree dell’arte per lo più romana, come il Fauno danzante di Pompei, desolanti per il loro tono di faticati studi di un non molto dotato allievo di liceo alle prese coi compiti di figura. Se c’è il tentativo di esprimere qualcosa, è un tentativo fallito irrimediabilmente: sono soltanto sillabe balbettate che non riescono mai a formare una parola e tanto meno una frase.

Salvatore Fiume, celebre anche perché ultimamente le sue opere mietono successi alle aste televisive di quadri, espone in questi giorni in due diversi punti di Roma: uno stanzone al pianterreno di un bel complesso edilizio in via del Mascherino 2 a Borgo Pio che la targa d’ottone definisce Galleria Athena Arte ed in una specie di negozio di mobili semi-vecchi in via Andrea Doria 34 indicato come Galleria Studio A.
Sarebbe interessante fare uno studio sociologico per capire a quale categoria di acquirenti possono piacere così tanto i quadri in questione. Sono troppo volgari per essere sopportati da una signora, per quanto osée, nel proprio salottino borghese; il disegno è troppo approssimativo e i soggetti troppo scontati per piacere agli pseudointellettuali e pensiamo che il prezzo anche solo delle litografie sia troppo elevato per un garzone di bottega che si lasci suggestionare dai deshabillés di brutte donne seminude in calze rosse e con la rosa tra i denti!
Evidentemente a noi sfugge qualcosa di fondamentale, siamo solo sicuri che la pittura che abbiamo visto in queste due pseudo-mostre è una delle peggiori che abbiamo mai incontrato!

62 – Aprile ‘90

domenica, 1 aprile 1990

Tonino Guerra è un bravo sceneggiatore del cinema italiano:
ha lavorato per Antonioni, Petri e Fellini; ha collaborato con Malerba scrivendo per i ragazzi e sempre è riuscito a disegnare un mondo personale, dolente ed ironico. Ci è capitato tra le mani un libriccino: L’orto d’Eliseo (Maggioli, 1989, pagg. 90, Lit. 15.000) che contiene, ripetuto tre volte, lo stesso breve poemetto; una è la stesura in dialetto romagnolo (Guerra è nato a S. Arcangelo nel 1920) della quale non possiamo giudicare stile ed assonanze perché c’è risultata incomprensibile; la seconda stesura è in lingua italiana; infine la terza stesura è, chissà perché, in lingua francese, per merito ed opera di Piera Benedetti. Ne vogliamo comunque parlare perché pur in tanta brevità Guerra riesce a tratteggiare un personaggio compiuto poeticamente, costruendogli intorno un piccolo mondo di cose minime, quotidiane e toccanti. Qui si racconta della lotta titanica di un vecchio contadino ultraottantenne contro una talpa, la quale sistematicamente distrugge i prodotti del suo orto. Lentamente però tra il vecchio e l’animale si costruisce un rapporto misto di sentimenti di amore e di morte. Tutti gli stratagemmi esistenti e i sistemi di cattura sono elusi dall’animale; e il vecchio col suo bastone appuntito affondato con rabbia ossessiva nella terra per colpire il suo nemico finisce con l’impiegare i lunghi tempi della caccia in una narrazione del proprio passato, che è confessione ed epopea; ma anche presagio di . sconfitta: «Fuori era una notte chiara con la luna caduta dentro l’acqua dei bidoni e tutte le erbe e i frutti avevano la faccia bianca dei morti.
Le ombre nere delle foglie dei cavoli si muovevano e a lui pareva che l’orto fosse ormai nelle mani delle talpe».

Il libro di Pietro Camporesi, Il brodo indiano (Garzanti, 1990, pagg. 164, Lit. 15.000) vorrebbe, attraverso l’analisi degli aspetti meno paludati della cultura settecentesca, come cibi, vestiti, suppellettili e buone maniere, offrire uno spaccato non banale, ma significativo, di un’epoca e di un costume. Secondo noi, invece, questa operazione è risultata sociologicamente, filologicamente, psicologicamente e storicamente molto scorretta. Usando il pretesto di una falsa obiettività il libro non è altro che una serie di citazioni di autori sei-settecenteschi, da Algarotti a Voltaire, appena collegate da qualche sparuta frase del compilatore. Questa antologia butta i testi d’epoca in pasto al lettore senza però avvisarlo che allora si parlava in quel modo non perché tutti i maschi fossero checche impazzite e le femmine cortigiane in deliquio, ma perché quella era la struttura linguistica del tempo che solo a noi, oggi, suona così dissueta e frivola. I frivoli esistevano anche tra i flagellanti e tra i soldati di Giovanna d’Arco, però i testi del 1200 e del 1400 hanno comunque per noi un che di aspro e rubizzo che ce li fa supporre più sobri, ruvidi ed austeri di quanto in realtà non fossero. Il signor Camporesi non ha mai letto i mora1isti medievali o il Savonarola? Anche loro condannavano vesti scandalose ed abitudini scostumate, perciò usare la lieve e pungente penna del Parini per fare apparire ridicolo il costume di un’epoca è una scorrettezza. Siamo mo consapevoli che il Settecento ha anche avuto aspetti frivoli, ma ridurre la vita quotidiana di un secolo così contraddittorio, aspro e tragico a pizzi, trine e bon-bons ci ha dato profondamente fastidio. Inoltre le poche frasi dell’autore non permettono alcuna illazione in merito allo stile letterario di questo collezionista di citazioni!

62 – Aprile ‘90

domenica, 1 aprile 1990

Siamo appena tornati da Parigi, dove ci siamo recati per assistere a quello spettacolo di bellezza addirittura stratosferica che è il Cyrano di Bergerac di Edmond Rostand, con la regia di Robert Hossein ed interpretato in modo impareggiabile da J.P. Belmondo. Non ci siamo certo lasciata scappare la possibilità di farci qualche buon pranzetto: con cifre astronomiche abbiamo potuto accedere alla sublime cucina del nostro prediletto da sempre Grand Véfour, però abbiamo anche scoperto ristoranti come Paul in rue Lappe, vicino alla Bastiglia, che per pochi denari offre piatti ottimi della tradizione parigina; basti pensare che lì è ancora possibile gustare una tartare veramente hachée (cioè tagliuzzata al coltello anziché – come avviene ormai sempre – tritata)!
Il nostro dovere però ci impone di fare i Farfalloni a Roma e perciò, prima di partire per le nostre avventure gastronomiche ci siamo reciprocamente imposti di non lasciarci influenzare dalle impressioni ricevute a Parigi ed inoltre ci siamo ripetutamente detti che anche nella Ville Lumière abbondano le trappole per turisti sprovveduti! Però la trappola in cui siamo cascati in una delle nostre ultime uscite è al di fuori di ogni umana immaginazione. Il luogo, piazza Rondanini, è stupendo e quel ristorante che si chiama L’Angoletto ha persino i tavoli esterni che promettono deliziose serate estive rinfrescate dal ponentino romano. È ancora quasi inverno per cui ci siamo dovuti addentrare al di là di quella apparentemente innocua soglia. In un intrico di salette, carrelli, tavolini sovraffollati, clienti fumosi, vapor di stoviglie siamo infine riusciti a raggiungere il nostro ristrettissimo posto a tavola, piuttosto sgomenti. La carta appena più promettente della loquace banalità del nostro cameriere pure aveva solo da offrire nomi di piatti e di vini alquanto scontati. Abbiamo voluto incominciare dal principio: un aperitivo di bianco frizzantino fresco ed insignificante. Dopo di che abbiamo costretto i nostri amici al rito usuale: provare di tutto se non proprio tutto; così abbiamo potuto dare inizio ad un pasto che aveva una caratteristica fondamentale: ogni portata, dagli antipasti ai secondi, sembrava essere condita esclusivamente con acqua di fonte. L’antipasto vegetale era sfatto ed insipido; il misto di cozze e vongole pareva costituito da grumi di cartone bruciato; la rughetta era irsuta e i gamberi erano viscidi nell’insalata di rughetta e gamberi; infine anche la bresaola e la finocchiona avevano un acquoso aspetto vetusto. Il risotto all’Angoletto era vischioso e insapore; quello alla pescatora era identico e gli spaghetti alle vongole erano scotti e acri d’aglio bruciato; i ravioli di ricotta, burro e salvia mancavano degli ultimi tre ingredienti ed erano fatti di pasta durissima. I pretesi filetti al barolo, e al pepe verde erano brutti tagli di carne lessata su cui era stato versato qualcosa di indecifrabile, dai mille incerti colori iridescenti sul fondo acquoso; gli straccetti erano idonei alla pulizia dei pavimenti e i saltimbocca avevano un bizzarro sentore di varechina, come succede talvolta quando non si sfuma bene un vino di scadente qualità; non osiamo dire cosa abbiamo pensato di fronte alla presentazione di un piatto di così aristocratica tradizione come la Chateaubriand, qui umiliata peggio che dalla rivoluzione francese! Dopo il fugace intervallo consolatorio di una sopportabile crème brulée e un tollerabile mont-blanc, siamo ripiombati nell’abisso del disgusto con la torta di ricotta! I vini, in ordine decrescente di qualità sono stati: un Sauvignon del Collio di Montecucco dell’88 acido metallico, ma ancora potabile; cui ha fatto seguito un bianco delle Colline di Ama dello stesso anno, il quale pur essendo toscano era simile al precedente ma con i difetti amplificati; il Dolcetto di Diano d’Alba dell’87 era soltanto rosso.
Graziosamente la casa ci ha offerto una scelta di pessime grappe, tra le quali brillava per indecenza quella contenuta in una bottiglia priva di etichetta, dall’inqualificabile sapore ed odore e dall’incredibile colore violetto. Il conto non è stato per niente basso. Uscendo un padre ha detto a sua figlia: «Se non stai buona la prossima volta ti mando all’angoletto».

62 – Aprile ‘90

domenica, 1 aprile 1990

Tito Maccio Plauto, autore, interprete, realizzatore di una grandissima quantità di commedie, operante a Roma fra il terzo e il secondo secolo avanti Cristo, è tuttora vivo, scattante ed efficace. La sua ispirazione è colta, si riferisce alla commedia nuova ellenistica, però, rifatta, rimaneggiata e spesso stravolta per adattarla al gusto del suo pubblico romano non certo composto di raffinati filosofi. Spesso le sue commedie sono licenziose, ma l’oscenità e persino la scurrilità non sono mai fini a se stesse. Per uno dei più o meno prevedibili scherzi del destino è successo a Plauto che Antonio Calenda abbia un po’ fatto a lui quello che lui faceva ai commediografi greci: prendi di qua, rivolta di là, manipola di su, metti giù. componendo un grazioso pastiche con spunti tratti da Miles Gloriosus, Casina, Alularia ed Amphitruo. Il copione che ne risulta è assolutamente omogeneo; Plautus sembra un’opera unitaria, ricca di infiniti risvolti, tante facce di grande efficacia teatrale, persino quando trapassano in gags come quella degli spettatori, con lazzi e sputazzi di «fusaje», con irrisione di attori e scollacciate matrone. Contribuisce in modo determinante ad amalgamare tutti gli elementi la musica di Germano Mazzocchetti: briosa e sapiente, che, senza scadere mai in un folc1orismo arcaicizzante, sovrappone modulazioni ed armonie bizzarre a piacevoli momenti smaccatamente e gustosamente diatonici. Musiche e canzoni, canzoncine e canzonette, spumeggiano per tutto il tempo dello spettacolo, entrando ed uscendo dal filone narrativo con grande naturalezza.
Abbiamo trovato veramente geniale l’idea di usare come lingua un latino quasi plautianamente corretto. Non ci sembra proprio il caso di metterci qui a disquisire sulla pronuncia, che, bisogna dire, ricorda più quella del latino medioevale che non quella del terzo secolo a.c.: gli spettatori così risultano essere messi perfettamente in grado di capire quasi tutto, anche se non conoscono la lingua dei patres. La mimica degli attori colma ogni lacuna e l’uso astuto della ripetizione di parole chiave comprensibilissime riportano puntualmente al testo.
Più felice e straordinaria combinazione non poteva esserci tra la ricca inventiva del regista e lo straordinario mestiere degli interpreti. Forse è più giusto dire arte anziché mestiere, grazie alle eccezionali virtù artistiche di attori capaci di produrre incessantemente idee geniali ed esilaranti, che per alcuni di loro che conosciamo e seguiamo con interesse da anni sono, come usa dire, «di repertorio»; ma che per l’occasione erano aggiustate, adattate ad esaltare proprio quelle precise situazioni comiche.
Accanto ai tre «maggiori»: Anna Campori, Aldo Tarantino e Pietro De Vico, maschere perfette, dicitori impareggiabili, mimi e ballerini (la Campori) di estroso virtuosismo, ben figurano Dodo Gagliardi, Daniela Giovanetti, Silvia Gigli e inoltre abbiamo apprezzato l’inaspettata scoperta per noi del talento di Roberto Azzurro. Le scene e i costumi di Nicola Rubertelli suggerivano e connotavano, caratterizzavano e colorivano piacevolmente le figure sul fondo scuro.
Ancora una volta è avvenuto un piccolo prodigio in cui il teatro si è vendicato della leggerezza umana: quando siamo entrati in sala, l’abbiamo trovata invasa da un’orda berciante di studenti medi, poco disposti alla rassegnazione di un barboso spettacolo in latino, imposto dagli insegnanti di lettere e che reagivano scartando panini, chiamandosi da una parte all’altra della sala, sforzandosi persino di seguire con le radioline le partite del campionato europeo in onda contemporaneamente. Sono bastati pochi minuti perché il frastuono si mutasse in un ammutolito rispetto, trasformandosi subito dopo in convinta ammirazione e sincero divertimento.

Abbiamo ancora vivida in mente la bellissima mostra sui bozzetti di scena di Luzzati che abbiamo visitato a Reggio Emilia, nelle sale del Teatro Comunale Romolo Valli, che ci aveva dato l’impressione di trovarci davvero dentro un bosco, nel quale da ogni dove si affollavano immagini fantastiche e stupende, alcune delle quali anche in movimento o proiettate, come gli straordinari cartoni animati. Su tutto si diffondevano musiche eterogenee, che ci hanno poi dato una particolare emozione perché proprio al momento del nostro arrivo siamo stati accolti dai magici accordi dell’«ouverture» del «Flauto Magico».
Stessa intensissima emozione abbiamo ritrovato l’altra sera al Teatro delle Voci di via Bombelli, dove abbiamo visto la rappresentazione di un’opera singolare e vorremmo dire quasi unica come La mia scena è un bosco di Emalmele Luzzati, realizzata dal Teatro della Tosse, con la regia di Tonino Conte.
Come tutti sanno (!) il Teatro delle Voci è molto fuori mano, dietro al Forlanini sulla via Portuense; la notte era uggiosa, piovigginava e tutt’intorno incombeva lo scenario triste delle periferie notturne delle grandi città. Quando però ci trovammo davanti alla scena, fin da subito colma di «tutto», e qualcosa incominciò a muoversi, qualcuno a parlare e soprattutto esplose in tutta la sua sonorità la musica, rimanemmo presi nell’incanto perdendo la nozione del tempo, rabbrividendo talvolta di gioia, ma anche di paura, completamente perduti in quel bosco di oggetti, di gesti, di colori, di forme, dove il tempo veniva scandito da un ritmo di «carillon». I trilli della Regina della Notte si confondevano con le battute del «Jacques» sottomesso di Ionesco proseguendo in una valanga inarrestabile di citazioni, parole e gesti amalgamati dalla musica da cui tutto sembrava scaturire e per cui ogni cosa prendeva vita, finché Pulcinella con le parole del prete alla fine del rito disse «Andate è finita». La regia di Conte è stata ottima poeticamente e robustamente luzzatiana (persino quel pizzico di Lindsay Kemp che noi non amiamo non ci ha troppo infastidito). Il ritmico pulsare incessante si è dipanato senza cesure e senza storture, per tutto il lungo atto, giustamente senza intervallo. Bravissimi sono stati tutti gli interpreti: sensuali, burleschi, poetici, ironici: Gaddo Bagnoli, Veronica Rocca, Dario Manera, Pietro Fabbri, Lorella Semi, Bruno Cereseto ed Aldo Amoroso. La colonna sonora è stata curata dello stesso regista.

Psicoanalisi contro n.62 – «Scherza con i fanti…»

domenica, 1 aprile 1990

Il leggero sorriso ironico di Socrate di Atene illumina la storia del pensiero occidentale fin dal quinto secolo avanti Cristo. Talvolta possiamo vedere in esso un po’ di impettita demagogia, anche se questo carattere gli è forse più che altro conferito dal suo discepolo Platone.
Non so se la maieutica socratica, cioè la tecnica di «tirar fuori» dall’altro le verità (per così dire) acquisti con l’ironia una maggior pregnanza. È per me una questione irrisolta se quel domandare un po’ spaurito e canzonatorio allo stesso tempo abbia un valore effettivo o sia puramente pleonastico; se si tratti di un artificio letterario oppure costituisca la sostanza della ricerca. Penso che ognuna di queste ipotesi sia valida; io intendo comunque riferirmi al Socrate quale ce lo ha reso Platone. Il vecchio Maestro riesce sempre a far capolino dietro al discepolo dalle «spalle larghe» e secondo me, malgrado tutte le possibili contraffazioni, le contraddizioni e le aggiunte, nei Dialoghi e nelle Lettere di Platone, sia quelli privatamente autentici, sia quelli considerati spuri, la presenza di Socrate, talvolta splendente come un eroe, talaltra più opaca e dimessa, sempre apporta una sua caratteristica impronta, ironica e qua e là addirittura sarcastica. Socrate lo vediamo muoversi nella sua Atene, agli angoli delle strade, all’ombra degli alberi, nei ginnasi, mai troppo lontano dall’«agorà», perché è un uomo che vuole parlare al maggior numero possibile dei suoi concittadini ateniesi. Socrate sapeva che la vita è breve e gli uomini sono troppo distratti; per questo spesso apparve come uno scomodo e sgradito sileno petulante, capace con le sue folgorazioni di lasciare senza parole tutti. Io credo, forse con presunzione, di essere riuscito a percepire tutto questo, nonostante il suo rifiuto di affidare direttamente alla carta il suo pensiero e il suo insegnamento.
La Atene del quattrocento a.C. parla con lui, ma parla anche per lui.

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L’origine etimologica della parola ironia (dal greco eirònéia) non ha spiegazioni soddisfacenti; sta di fatto che, dopo Socrate, gli uomini che più spesso vi fanno ricorso sono i più malvagi, cioè narcisisti e sadomasochisti, i quali usano un’ironia spenta e triste, che mira soltanto a mettere alla berlina l’altro, a farlo soffrire e che dell’ironia socratica è una squallida e violenta parodia. Talvolta può essere efficace mettere a nudo una caratteristica negativa dell’altro; ma non se si è mossi solo da motivazioni maligne che vedono nell’interlocutore un bersaglio; da colpire con astio, senza alcuna vera motivazione psicagogiga. Questi sono esercizi di malvagia ironia, che si trasmettono da un malato ad un altro, inquinando anche l’ambiente in cui si svolgono. È fin troppo diffuso il tipo dello «spiritoso»; quello squallido personaggio definito «di compagnia», che molte volte, anche se non sempre, è un personaggio debole ed insicuro, che parla continuamente, trasformando ogni conversazione in un susseguirsi di «battute». Il mondo è pieno di questi omuncoli che, con raffinata ignobiltà, sanno raccontare le cosiddette «barzellette», che ogni cosa mettono in burla schernendo tutti e parafrasando tutto ciò che gli altri dicono, pur di rimanere al centro dell’attenzione. Se si distoglie però da loro l’interesse, costoro si afflosciano, ammutolendo pian piano, resi improvvisamente involucri, mucchietti di vestiti nei quali si affondano occhi spenti, acidi e fissi sorrisi rancidi; perché se si impedisce loro di essere ignobili protagonisti non sanno neppure essere persone. Per loro ogni incontro ed ogni occasione saranno stati magnifici solo se li avranno visti capaci in tal caso anche, di ringraziare per la «magnifica serata», con scodinzolante allegria. Sebbene ci siano anche molte donne di questo genere, sono certamente di più i maschi che scadono simili personaggi, tristemente esibizionisti. Le donne per lo più si comportano davanti a tali individui in modo diverso: o rimangono stupidamente ammirate, identificandosi e gongolando, facendosene complici, nella speranza di essere risparmiate, oppure assumono l’atteggiamento, non so dire se migliore o peggiore, di tenersi in disparte, unite in un piccolo gruppo che ghigna e sogghigna sia sulle vittime che sul pupazzo malato di protagonismo. Lo stesso vale però anche per i maschietti, vale per i giovani e per i vecchi, la viltà e la stupidità non hanno barriere, di sesso o di età. Tutti possono essere vittime e complici di questi tipi che sono per lo più sadomasochisti, ma possono anche essere narcisisti della più bell’acqua, che tra gli squarci del loro narcisismo, che li porta ad inebriarsi di se stessi e delle loro parole, riescono a percepire gli altri soltanto come bersagli della loro crudeltà, da colpire senza esitazioni.

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L’evoluzione del costume è stata nel nostro mondo costante, ma ha subito negli ultimissimi tempi un’accelerazione imprevista. Chi svolge la sua vita in un ambito piuttosto ristretto, legge libri e guarda programmi televisivi di divulgazione culturale per tenersi informato, chi cioè conduce una vita da «intellettuale» (tipo più diffuso di quanto non si creda, sebbene perseguito da una svalutazione anonima e strisciante) finisce con l’avere una visione clamorosamente distorta del mondo che lo circonda (si è detto con la consapevolezza che ogni singola visione del mondo sia in qualche modo distorta né si saprebbe come trovarne una visione chiara ed oggettivamente precisa). Al di là però di queste visioni del mondo esiste un mondo reale fatto di mercati e di strade, di ragazzi che vanno al cinema e frequentano i bar; ci sono cioè realtà percepibili quotidianamente da chi voglia come me prestare loro attenzione.
Quegli intellettuali cui mi riferivo prima parlano di una rivoluzione dei costumi che nella realtà non trova corrispondenza alcuna, di rinnovamento dei ruoli che è un’utopia.
In realtà non ci siamo liberati dai vecchi schemi di comportamento, dai ruoli sessuali, dai condizionamenti sociali. È un fatto che ancora oggi nessuno sa essere qualcosa se non ha il punto di riferimento di un ruolo, di una maschera. La persona è ancora di là da venire. Resta vero però che, se volessimo, potremmo liberarci un poco dei limiti dei ruoli, dagli stereotipi delle maschere, o almeno rinnovarli. Invece avviene il contrario: basti pensare alle modalità degli imperversanti giochi televisivi, dove conduttori, conduttrici, ben pensanti e poco letterati, intere famiglie dai nipotini ai nonnetti, aspiranti coniugi ed eterni fidanzati, casalinghe e professionisti, studenti ed operai, tutti danno dimostrazioni clamorose di imbecillità reazionaria e di crassa ignoranza, con soddisfazione dello «sponsor»; che trae il proprio profitto dall’esposizione di tanta vergogna che coinvolge tutto un mondo alla ricerca di una manciata di quattrini e di un briciolo di notorietà. Quelle sono però le famiglie reali, il paese reale, la nostra gioventù ignorante, volgare e suicida. I ruoli sono sempre gli stessi.
I trattati di sociologia parlano di trasformazioni, ma in realtà è solo aumentato il caos. Forse è sempre stato così, forse la volgarità che fa la parodia dell’ironia è sempre dilagata come oggi, protetta dal silenzio complice dei vili. Ricordo un pomeriggio di domenica, nel bar sulla piazza centrale di un bellissimo paese medioevale, nella campagna laziale. Entrato per bere qualcosa, mi trovavo appoggiato all’armadio frigorifero pieno di torte gelate: quattro rubizzi paesani, forse eccitati anche dall’ebbrezza un po’ stordente del vino e del pomeriggio troppo caldo vincevano la noia scambiandosi insulti, intercalati da grossolane risate. Si prendevano in giro reciprocamente; ma io non riuscivo a trovare divertente quel vociare grossolano, quell’aggredirsi brutale; mi sforzavo di cogliere magari l’aspetto pittoresco e folcloristico, cercando un distacco da entomologo che studia con la lente le farfalle. Però sentivo dentro di me solo tristezza per quello spettacolo di avvilimento della dignità umana, infarcito di tutti i luoghi comuni: dalle «corna», alle pretese dimostrazioni, o mancate dimostrazioni, di virilità. Non più ingenui, quegli uomini erano autentici campioni di umanità squallida, intrisi di tutti i luoghi comuni dell’antica e moderna volgarità.

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Ho incontrato nella mia vita anche persone capaci di usare nel suo giusto verso l’ironia; ovviamente questo modo di rapportarsi all’altro non può non essere intriso anche di sadomasochismo e di narcisismo, ma alcuni sanno includervi un po’ d’amore, cercando di cogliere nell’altro oltre agli aspetti negativi, grotteschi e malati, anche quelli positivi e sani. L’umorismo, di cui l’ironia fa parte, senza esaurirlo, ci ha fin da sempre abituati a ridere soprattutto delle disgrazie altrui; anche se è difficile capire perché si trovi da ridere sul cameriere che, licenziato in tronco, per aver distrutto le migliori cristallerie della casa scivolando su una buccia di banana, vede incerto il suo futuro! I modelli ed anche i moduli di comportamento e di giudizio sono ben codificati sui libri e in ciascuno di noi, consapevolmente e nel nostro inconscio individuale e sociale; così anche l’ironia finisce per esprimere gli aspetti più deleteri dell’umorismo vigliacco. Le persone cui mi riferivo appena sopra sono rare e preziose nel loro saper ironizzare con estrema dolcezza ed acume, per trarre conseguenze positive da caratteristiche individuali dalla cui messa a fuoco l’altro può anche ricavare vantaggio.
Questa è per me una delle poche possibilità accettabili e praticabili di «critica costruttiva», che con il sorriso riesce a far giungere i messaggi con discrezione ed in profondità. E una forma rara, come rara è la salute, raro l’amore allegro e sincero verso il prossimo. Davanti a questa forma di ironia è bello giocare e divertirsi. Vorrei allora vivere in un mondo di angioletti? Di esserini dalle bianche alucce, il tondo sedere e trombe d’argento? Senza giungere a tanto basterebbe tentare uno sforzo di colorata e serena fantasia; ma mi accorgo di scadere nella vacuità ottimistica che è un altro aspetto deleterio dell’uomo, preoccupato di negare anche a se stesso la realtà del male. Riescono bene a superare queste contraddizioni solo i piccoli poeti e i grandi santi, o anche i grandi poeti e i piccoli santi.

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Vi sono poi persone capaci di un’apparentemente efficace auto-ironia: costoro sembrerebbero speciali per il loro coraggio di guardare dentro di sé, scherzando sui loro difetti, con pungente spietatezza, tanto da abbagliare chi ascolta per una così grande arditezza introspettiva. Sono persone che riescono a costruire esilaranti teatrini, brillanti ed intelligenti, di cui sono gli oggetti e i soggetti esclusivi. Se questa autocritica è sincera e non serve a distogliere l’attenzione altrui da quelli che costoro sentono come i propri punti veramente deboli, allora tale comportamento può risultare utile a loro stessi e a chi assiste. Ci sono casi però in cui un simile atteggiamento denota uno stato di profondo malessere interiore, che è persino facilmente evidenziabile e facile da smascherare; sebbene sia consigliabile muoversi con estrema cautela in questa direzione perché il rischio è di fare soffrire profondamente un individuo che molti sforzi ha fatto per nascondere ciò che più da vicino lo fa star male, o che con quel gesto difensivo sta chiedendo pietà. Insicurezza e disperazione sono i sentimenti nascosti dal tono scherzoso di chi sembra fin troppo capace di prendere in giro se medesimo; disposto a tutto pur di risparmiarsi anche la frecciata apparentemente più innocua dall’esterno, che colpirebbe un bersaglio troppo debole per reggere. Spesso la denuncia di ciò che quel gioco vuol nascondere è fin troppo evidente; altre volte basta che qualcun altro sottolinei una sfumatura, aderisca con determinazione anche minima al gioco, che subito il protagonista dell’autocritica ironica si inalbera irritato: il gioco era che si aggredisse da sé, purché nessuno lo aggredisse dall’esterno, la sua richiesta era di pietà. Sono pochissimi gli uomini e le donne così sani da sapersi guardare dentro con allegra e dolce spietatezza, usando questa capacità come una modalità sana di rapporto con gli altri, determinati ad affidare a chi è disposto a riceverle le confessioni di proprie debolezze, di ingenuità fantasiose, capaci di riderne insieme. In questo caso l’amore di sé non è una chiusura narcisistica né una ripulsa sadomasochistica; non è cioè egoismo, che è quanto di più lontano ci sia dall’amore di sé; poiché l’amore di sé è un sentimento che non può non comprendere gli altri: se non si amano gli altri non si può amare se stessi, se non si ama se stessi non si può amare gli altri. Ogni sentimento umano è frammisto di altri sentimenti, in accordo e in contrasto con esso; ma ugualmente è possibile ritrovare dentro un amore genuino, un sincero erotismo; in questo caso, raccontarsi può anche essere un piacere, un ironico gusto di vivere. Questo atteggiamento mentale di amore e ironia per sé e per gli altri deve essere presente anche in chi si impegna nella ricerca scientifica: sebbene io stesso quando ho voluto percorrere la strada dell’autoironia abbia visto alcuni di quelli che mi stavano intorno spaventarsi e perdere la loro fiducia in me. Non tolleravano che io, sia pur scherzosamente, ammettessi errori, confessassi disorientamenti, smentissi mie affermazioni, denunciassi mie vanità o frivolezze; tutto ciò non sembrava più compatibile con le mie pretese di scientificità, con la dignità della mia figura. Talvolta anch’io ho usato l’autoironia come difesa e me ne sono potuto rendere conto solo dopo che quei momenti di malattia erano stati superati; ciò non toglie che io ami scherzare su di me con sincerità e che trovi buffo ad esempio certo mio modo di lanciare anatemi alla Savonarola; lo trovo buffo: anche se credo nei principi che mi fanno essere così intransigente, eccessivo addirittura.
La verità sta nella voglia della verità.

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Ho già detto che molto spesso quelle persone che sono capaci di grande autoironia, non sono però capaci di tollerare che gli altri facciano ironia su di loro; in questo caso si adombrano, si irrigidiscono e appena possono si vendicano, come se rivendicassero solo a se stessi il diritto di ironizzare nel giusto modo. Una categoria a parte sono coloro che ironizzano o mettono in ridicolo comportamenti e caratteristiche delle persone che amano. Un atteggiamento che è raramente utile e produttivo e molto più spesso fastidioso; e non sempre si tratta di un fastidio che è indice di raggiunta consapevolezza. È ovvio che quello stesso geniaccio ironico si adonterà non appena qualcuno tenterà un analogo attacco nei confronti della medesima persona, attacco da lui stesso provocato magari. Come se rivendicasse in questo caso un esclusivo diritto di dileggio su chi è considerato una proprietà personale.

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lo detesto i proverbi, che considero l’espressione sintomatica della scemenza dei popoli e della loro ottusa volgarità. Ciononostante è a questo punto opportuno che ne citi uno: «Scherza coi fanti, ma lascia stare i santi».
In questa breve frase ci sarebbe l’invito ad ironizzare su argomenti quotidiani e banali; evitando di intaccare con l’ironia i grandi argomenti e i personaggi autorevoli: si scherzi pure tra pari, alla buona, ma si lascino in pace le cose e le persone che in qualche modo si innalzano dalla media per qualche loro virtù. Per un verso io sono convinto che non ci sia persona così eccelsa né argomento così sacro od elevato sul quale non sia lecita una serena e benevola ironia; non c’è davvero santo in terra o in Paradiso che non abbia un comico risvolto che in sé e per sé può divenire oggetto di rispettoso ed amorevole scherzo. Credo che lo stesso Padreterno accetti l’ironia su di sé, purché non significhi mancanza di rispetto o volgare pretesa di aggressione della sacralità; dico questo senza pormi il problema di quale sia in proposito il pensiero dei teologi, tantomeno ovviamente riesco ad immaginare cosa pensi il buon Dio.
Mi permetterò però di fantasticare.
Non mi è mai piaciuta la brutalità di Senofane quando afferma che ciascuno si costruisce gli dei come più gli piace e che le bestie, se pensassero, penserebbero gli dèi simili alle bestie. Senofane era un cretino: con i se non si costruisce la storia e neppure la filosofia; mi è più vicina invece la posizione di Cusano che diceva che le caratteristiche che l’uomo attribuisce a Dio sono una proiezione del pensiero umano, per cui Dio viene a possedere le prerogative che ciascuno gli attribuisce, in analogia con la propria natura e il proprio carattere, buono per i buoni, crudele per i crudeli. Senofane non faceva alcun tipo di buona ironia. Il suo era un modo piatto e volgare di insultare anche gli dei.
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È difficile e pericoloso applicare il metodo dell’ironia con le persone molto disturbate psichicamente; è difficile e pericoloso, come ho detto, ma l’ironia può diventare, in mani esperte e consapevoli, uno strumento terapeutico di grandissima efficacia. Non solo quelli che erano in passato definiti «paranoici», persone affette da deliri di riferimento, sono particolarmente suscettibili e pronti a mettere in atto le loro difese narcisistiche e sadomasochistiche; ma tutti quelli che attraversano un periodo di perturbazione psichica più o meno grave sono incapaci di affrontare un rapporto basato sull’ironia. Meno insopportabile, a molti di costoro, riesce l’autoironia. Quasi tutti i sofferenti di sindromi psichiche reagiscono all’ironia in modo negativo: spesso la capiscono benissimo, ma fingono di rimanere disorientati, si rannicchiano in un mutismo ostinato, la stravolgono, oppure rispondono con violenta aggressività e si nota in loro un aggravamento dei sintomi patologici. Il terapeuta deve saper fare uso avveduto dell’ironia. Io non ho mai cessato di spiegare ai miei allievi che anche in analisi è necessario seguire un metodo analogo al procedimento teatrale: come ogni finale, in teatro, deve essere preceduto da un sottofinale che ne prepari l’efficacia; così, in analisi, il momento conclusivo della guarigione che vede terapeuta e paziente guarire insieme, sciolti finalmente, senza resistenze, dai lacci del dolore, grazie ad Eros che libera, deve essere preceduto da una fase di serena accettazione reciproca dell’ironia. Non c’è possibilità di successo terapeutico per quegli analisti sussiegosi, privi di dolcezza e senza sorriso: il loro lavoro è arido, squallido e sterile; lo dico sapendo di ferire molti di coloro che conosco, ma è tempo di parlare schietto; anche l’insegnamento deve acquistare la limpida chiarezza del linguaggio musicale che io prediligo fra i linguaggi, per la sua scoperta e indifesa immediatezza, per la inesorabile sincerità che riesce ad attingere. Chi non sa sorridere non ha canzoni da cantare nel mio cortile. Posso dire che coloro che lavorano con me hanno in gran parte sviluppato un buon senso della giusta ironia, malgrado talvolta se ne dimentichino ancora e io debba loro rammentare che la strada della guarigione passa necessariamente di lì, qualunque sia la diagnosi.
L’ironia non va però confusa con il sarcasmo: il sarcasmo credo sia un’invenzione del diavolo, e se è pur vero che anche il sarcasmo può avere, qualche volta e purtroppo, funzione terapeutica, non va comunque fatta confusione tra due atteggiamenti tra di loro sostanzialmente diversi. Per cui mi riservo di sviluppare in seguito l’argomento.
Rivado col pensiero a quei quattro paesani che in un pomeriggio di festa si scambiavano grossolane facezie e ancora una volta ho la conferma che non c’era ironia in loro, perché non c’era amore.