62 – Aprile ‘90

aprile , 1990

Siamo appena tornati da Parigi, dove ci siamo recati per assistere a quello spettacolo di bellezza addirittura stratosferica che è il Cyrano di Bergerac di Edmond Rostand, con la regia di Robert Hossein ed interpretato in modo impareggiabile da J.P. Belmondo. Non ci siamo certo lasciata scappare la possibilità di farci qualche buon pranzetto: con cifre astronomiche abbiamo potuto accedere alla sublime cucina del nostro prediletto da sempre Grand Véfour, però abbiamo anche scoperto ristoranti come Paul in rue Lappe, vicino alla Bastiglia, che per pochi denari offre piatti ottimi della tradizione parigina; basti pensare che lì è ancora possibile gustare una tartare veramente hachée (cioè tagliuzzata al coltello anziché – come avviene ormai sempre – tritata)!
Il nostro dovere però ci impone di fare i Farfalloni a Roma e perciò, prima di partire per le nostre avventure gastronomiche ci siamo reciprocamente imposti di non lasciarci influenzare dalle impressioni ricevute a Parigi ed inoltre ci siamo ripetutamente detti che anche nella Ville Lumière abbondano le trappole per turisti sprovveduti! Però la trappola in cui siamo cascati in una delle nostre ultime uscite è al di fuori di ogni umana immaginazione. Il luogo, piazza Rondanini, è stupendo e quel ristorante che si chiama L’Angoletto ha persino i tavoli esterni che promettono deliziose serate estive rinfrescate dal ponentino romano. È ancora quasi inverno per cui ci siamo dovuti addentrare al di là di quella apparentemente innocua soglia. In un intrico di salette, carrelli, tavolini sovraffollati, clienti fumosi, vapor di stoviglie siamo infine riusciti a raggiungere il nostro ristrettissimo posto a tavola, piuttosto sgomenti. La carta appena più promettente della loquace banalità del nostro cameriere pure aveva solo da offrire nomi di piatti e di vini alquanto scontati. Abbiamo voluto incominciare dal principio: un aperitivo di bianco frizzantino fresco ed insignificante. Dopo di che abbiamo costretto i nostri amici al rito usuale: provare di tutto se non proprio tutto; così abbiamo potuto dare inizio ad un pasto che aveva una caratteristica fondamentale: ogni portata, dagli antipasti ai secondi, sembrava essere condita esclusivamente con acqua di fonte. L’antipasto vegetale era sfatto ed insipido; il misto di cozze e vongole pareva costituito da grumi di cartone bruciato; la rughetta era irsuta e i gamberi erano viscidi nell’insalata di rughetta e gamberi; infine anche la bresaola e la finocchiona avevano un acquoso aspetto vetusto. Il risotto all’Angoletto era vischioso e insapore; quello alla pescatora era identico e gli spaghetti alle vongole erano scotti e acri d’aglio bruciato; i ravioli di ricotta, burro e salvia mancavano degli ultimi tre ingredienti ed erano fatti di pasta durissima. I pretesi filetti al barolo, e al pepe verde erano brutti tagli di carne lessata su cui era stato versato qualcosa di indecifrabile, dai mille incerti colori iridescenti sul fondo acquoso; gli straccetti erano idonei alla pulizia dei pavimenti e i saltimbocca avevano un bizzarro sentore di varechina, come succede talvolta quando non si sfuma bene un vino di scadente qualità; non osiamo dire cosa abbiamo pensato di fronte alla presentazione di un piatto di così aristocratica tradizione come la Chateaubriand, qui umiliata peggio che dalla rivoluzione francese! Dopo il fugace intervallo consolatorio di una sopportabile crème brulée e un tollerabile mont-blanc, siamo ripiombati nell’abisso del disgusto con la torta di ricotta! I vini, in ordine decrescente di qualità sono stati: un Sauvignon del Collio di Montecucco dell’88 acido metallico, ma ancora potabile; cui ha fatto seguito un bianco delle Colline di Ama dello stesso anno, il quale pur essendo toscano era simile al precedente ma con i difetti amplificati; il Dolcetto di Diano d’Alba dell’87 era soltanto rosso.
Graziosamente la casa ci ha offerto una scelta di pessime grappe, tra le quali brillava per indecenza quella contenuta in una bottiglia priva di etichetta, dall’inqualificabile sapore ed odore e dall’incredibile colore violetto. Il conto non è stato per niente basso. Uscendo un padre ha detto a sua figlia: «Se non stai buona la prossima volta ti mando all’angoletto».