Psicoanalisi contro n.62 – «Scherza con i fanti…»

aprile , 1990

Il leggero sorriso ironico di Socrate di Atene illumina la storia del pensiero occidentale fin dal quinto secolo avanti Cristo. Talvolta possiamo vedere in esso un po’ di impettita demagogia, anche se questo carattere gli è forse più che altro conferito dal suo discepolo Platone.
Non so se la maieutica socratica, cioè la tecnica di «tirar fuori» dall’altro le verità (per così dire) acquisti con l’ironia una maggior pregnanza. È per me una questione irrisolta se quel domandare un po’ spaurito e canzonatorio allo stesso tempo abbia un valore effettivo o sia puramente pleonastico; se si tratti di un artificio letterario oppure costituisca la sostanza della ricerca. Penso che ognuna di queste ipotesi sia valida; io intendo comunque riferirmi al Socrate quale ce lo ha reso Platone. Il vecchio Maestro riesce sempre a far capolino dietro al discepolo dalle «spalle larghe» e secondo me, malgrado tutte le possibili contraffazioni, le contraddizioni e le aggiunte, nei Dialoghi e nelle Lettere di Platone, sia quelli privatamente autentici, sia quelli considerati spuri, la presenza di Socrate, talvolta splendente come un eroe, talaltra più opaca e dimessa, sempre apporta una sua caratteristica impronta, ironica e qua e là addirittura sarcastica. Socrate lo vediamo muoversi nella sua Atene, agli angoli delle strade, all’ombra degli alberi, nei ginnasi, mai troppo lontano dall’«agorà», perché è un uomo che vuole parlare al maggior numero possibile dei suoi concittadini ateniesi. Socrate sapeva che la vita è breve e gli uomini sono troppo distratti; per questo spesso apparve come uno scomodo e sgradito sileno petulante, capace con le sue folgorazioni di lasciare senza parole tutti. Io credo, forse con presunzione, di essere riuscito a percepire tutto questo, nonostante il suo rifiuto di affidare direttamente alla carta il suo pensiero e il suo insegnamento.
La Atene del quattrocento a.C. parla con lui, ma parla anche per lui.

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L’origine etimologica della parola ironia (dal greco eirònéia) non ha spiegazioni soddisfacenti; sta di fatto che, dopo Socrate, gli uomini che più spesso vi fanno ricorso sono i più malvagi, cioè narcisisti e sadomasochisti, i quali usano un’ironia spenta e triste, che mira soltanto a mettere alla berlina l’altro, a farlo soffrire e che dell’ironia socratica è una squallida e violenta parodia. Talvolta può essere efficace mettere a nudo una caratteristica negativa dell’altro; ma non se si è mossi solo da motivazioni maligne che vedono nell’interlocutore un bersaglio; da colpire con astio, senza alcuna vera motivazione psicagogiga. Questi sono esercizi di malvagia ironia, che si trasmettono da un malato ad un altro, inquinando anche l’ambiente in cui si svolgono. È fin troppo diffuso il tipo dello «spiritoso»; quello squallido personaggio definito «di compagnia», che molte volte, anche se non sempre, è un personaggio debole ed insicuro, che parla continuamente, trasformando ogni conversazione in un susseguirsi di «battute». Il mondo è pieno di questi omuncoli che, con raffinata ignobiltà, sanno raccontare le cosiddette «barzellette», che ogni cosa mettono in burla schernendo tutti e parafrasando tutto ciò che gli altri dicono, pur di rimanere al centro dell’attenzione. Se si distoglie però da loro l’interesse, costoro si afflosciano, ammutolendo pian piano, resi improvvisamente involucri, mucchietti di vestiti nei quali si affondano occhi spenti, acidi e fissi sorrisi rancidi; perché se si impedisce loro di essere ignobili protagonisti non sanno neppure essere persone. Per loro ogni incontro ed ogni occasione saranno stati magnifici solo se li avranno visti capaci in tal caso anche, di ringraziare per la «magnifica serata», con scodinzolante allegria. Sebbene ci siano anche molte donne di questo genere, sono certamente di più i maschi che scadono simili personaggi, tristemente esibizionisti. Le donne per lo più si comportano davanti a tali individui in modo diverso: o rimangono stupidamente ammirate, identificandosi e gongolando, facendosene complici, nella speranza di essere risparmiate, oppure assumono l’atteggiamento, non so dire se migliore o peggiore, di tenersi in disparte, unite in un piccolo gruppo che ghigna e sogghigna sia sulle vittime che sul pupazzo malato di protagonismo. Lo stesso vale però anche per i maschietti, vale per i giovani e per i vecchi, la viltà e la stupidità non hanno barriere, di sesso o di età. Tutti possono essere vittime e complici di questi tipi che sono per lo più sadomasochisti, ma possono anche essere narcisisti della più bell’acqua, che tra gli squarci del loro narcisismo, che li porta ad inebriarsi di se stessi e delle loro parole, riescono a percepire gli altri soltanto come bersagli della loro crudeltà, da colpire senza esitazioni.

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L’evoluzione del costume è stata nel nostro mondo costante, ma ha subito negli ultimissimi tempi un’accelerazione imprevista. Chi svolge la sua vita in un ambito piuttosto ristretto, legge libri e guarda programmi televisivi di divulgazione culturale per tenersi informato, chi cioè conduce una vita da «intellettuale» (tipo più diffuso di quanto non si creda, sebbene perseguito da una svalutazione anonima e strisciante) finisce con l’avere una visione clamorosamente distorta del mondo che lo circonda (si è detto con la consapevolezza che ogni singola visione del mondo sia in qualche modo distorta né si saprebbe come trovarne una visione chiara ed oggettivamente precisa). Al di là però di queste visioni del mondo esiste un mondo reale fatto di mercati e di strade, di ragazzi che vanno al cinema e frequentano i bar; ci sono cioè realtà percepibili quotidianamente da chi voglia come me prestare loro attenzione.
Quegli intellettuali cui mi riferivo prima parlano di una rivoluzione dei costumi che nella realtà non trova corrispondenza alcuna, di rinnovamento dei ruoli che è un’utopia.
In realtà non ci siamo liberati dai vecchi schemi di comportamento, dai ruoli sessuali, dai condizionamenti sociali. È un fatto che ancora oggi nessuno sa essere qualcosa se non ha il punto di riferimento di un ruolo, di una maschera. La persona è ancora di là da venire. Resta vero però che, se volessimo, potremmo liberarci un poco dei limiti dei ruoli, dagli stereotipi delle maschere, o almeno rinnovarli. Invece avviene il contrario: basti pensare alle modalità degli imperversanti giochi televisivi, dove conduttori, conduttrici, ben pensanti e poco letterati, intere famiglie dai nipotini ai nonnetti, aspiranti coniugi ed eterni fidanzati, casalinghe e professionisti, studenti ed operai, tutti danno dimostrazioni clamorose di imbecillità reazionaria e di crassa ignoranza, con soddisfazione dello «sponsor»; che trae il proprio profitto dall’esposizione di tanta vergogna che coinvolge tutto un mondo alla ricerca di una manciata di quattrini e di un briciolo di notorietà. Quelle sono però le famiglie reali, il paese reale, la nostra gioventù ignorante, volgare e suicida. I ruoli sono sempre gli stessi.
I trattati di sociologia parlano di trasformazioni, ma in realtà è solo aumentato il caos. Forse è sempre stato così, forse la volgarità che fa la parodia dell’ironia è sempre dilagata come oggi, protetta dal silenzio complice dei vili. Ricordo un pomeriggio di domenica, nel bar sulla piazza centrale di un bellissimo paese medioevale, nella campagna laziale. Entrato per bere qualcosa, mi trovavo appoggiato all’armadio frigorifero pieno di torte gelate: quattro rubizzi paesani, forse eccitati anche dall’ebbrezza un po’ stordente del vino e del pomeriggio troppo caldo vincevano la noia scambiandosi insulti, intercalati da grossolane risate. Si prendevano in giro reciprocamente; ma io non riuscivo a trovare divertente quel vociare grossolano, quell’aggredirsi brutale; mi sforzavo di cogliere magari l’aspetto pittoresco e folcloristico, cercando un distacco da entomologo che studia con la lente le farfalle. Però sentivo dentro di me solo tristezza per quello spettacolo di avvilimento della dignità umana, infarcito di tutti i luoghi comuni: dalle «corna», alle pretese dimostrazioni, o mancate dimostrazioni, di virilità. Non più ingenui, quegli uomini erano autentici campioni di umanità squallida, intrisi di tutti i luoghi comuni dell’antica e moderna volgarità.

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Ho incontrato nella mia vita anche persone capaci di usare nel suo giusto verso l’ironia; ovviamente questo modo di rapportarsi all’altro non può non essere intriso anche di sadomasochismo e di narcisismo, ma alcuni sanno includervi un po’ d’amore, cercando di cogliere nell’altro oltre agli aspetti negativi, grotteschi e malati, anche quelli positivi e sani. L’umorismo, di cui l’ironia fa parte, senza esaurirlo, ci ha fin da sempre abituati a ridere soprattutto delle disgrazie altrui; anche se è difficile capire perché si trovi da ridere sul cameriere che, licenziato in tronco, per aver distrutto le migliori cristallerie della casa scivolando su una buccia di banana, vede incerto il suo futuro! I modelli ed anche i moduli di comportamento e di giudizio sono ben codificati sui libri e in ciascuno di noi, consapevolmente e nel nostro inconscio individuale e sociale; così anche l’ironia finisce per esprimere gli aspetti più deleteri dell’umorismo vigliacco. Le persone cui mi riferivo appena sopra sono rare e preziose nel loro saper ironizzare con estrema dolcezza ed acume, per trarre conseguenze positive da caratteristiche individuali dalla cui messa a fuoco l’altro può anche ricavare vantaggio.
Questa è per me una delle poche possibilità accettabili e praticabili di «critica costruttiva», che con il sorriso riesce a far giungere i messaggi con discrezione ed in profondità. E una forma rara, come rara è la salute, raro l’amore allegro e sincero verso il prossimo. Davanti a questa forma di ironia è bello giocare e divertirsi. Vorrei allora vivere in un mondo di angioletti? Di esserini dalle bianche alucce, il tondo sedere e trombe d’argento? Senza giungere a tanto basterebbe tentare uno sforzo di colorata e serena fantasia; ma mi accorgo di scadere nella vacuità ottimistica che è un altro aspetto deleterio dell’uomo, preoccupato di negare anche a se stesso la realtà del male. Riescono bene a superare queste contraddizioni solo i piccoli poeti e i grandi santi, o anche i grandi poeti e i piccoli santi.

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Vi sono poi persone capaci di un’apparentemente efficace auto-ironia: costoro sembrerebbero speciali per il loro coraggio di guardare dentro di sé, scherzando sui loro difetti, con pungente spietatezza, tanto da abbagliare chi ascolta per una così grande arditezza introspettiva. Sono persone che riescono a costruire esilaranti teatrini, brillanti ed intelligenti, di cui sono gli oggetti e i soggetti esclusivi. Se questa autocritica è sincera e non serve a distogliere l’attenzione altrui da quelli che costoro sentono come i propri punti veramente deboli, allora tale comportamento può risultare utile a loro stessi e a chi assiste. Ci sono casi però in cui un simile atteggiamento denota uno stato di profondo malessere interiore, che è persino facilmente evidenziabile e facile da smascherare; sebbene sia consigliabile muoversi con estrema cautela in questa direzione perché il rischio è di fare soffrire profondamente un individuo che molti sforzi ha fatto per nascondere ciò che più da vicino lo fa star male, o che con quel gesto difensivo sta chiedendo pietà. Insicurezza e disperazione sono i sentimenti nascosti dal tono scherzoso di chi sembra fin troppo capace di prendere in giro se medesimo; disposto a tutto pur di risparmiarsi anche la frecciata apparentemente più innocua dall’esterno, che colpirebbe un bersaglio troppo debole per reggere. Spesso la denuncia di ciò che quel gioco vuol nascondere è fin troppo evidente; altre volte basta che qualcun altro sottolinei una sfumatura, aderisca con determinazione anche minima al gioco, che subito il protagonista dell’autocritica ironica si inalbera irritato: il gioco era che si aggredisse da sé, purché nessuno lo aggredisse dall’esterno, la sua richiesta era di pietà. Sono pochissimi gli uomini e le donne così sani da sapersi guardare dentro con allegra e dolce spietatezza, usando questa capacità come una modalità sana di rapporto con gli altri, determinati ad affidare a chi è disposto a riceverle le confessioni di proprie debolezze, di ingenuità fantasiose, capaci di riderne insieme. In questo caso l’amore di sé non è una chiusura narcisistica né una ripulsa sadomasochistica; non è cioè egoismo, che è quanto di più lontano ci sia dall’amore di sé; poiché l’amore di sé è un sentimento che non può non comprendere gli altri: se non si amano gli altri non si può amare se stessi, se non si ama se stessi non si può amare gli altri. Ogni sentimento umano è frammisto di altri sentimenti, in accordo e in contrasto con esso; ma ugualmente è possibile ritrovare dentro un amore genuino, un sincero erotismo; in questo caso, raccontarsi può anche essere un piacere, un ironico gusto di vivere. Questo atteggiamento mentale di amore e ironia per sé e per gli altri deve essere presente anche in chi si impegna nella ricerca scientifica: sebbene io stesso quando ho voluto percorrere la strada dell’autoironia abbia visto alcuni di quelli che mi stavano intorno spaventarsi e perdere la loro fiducia in me. Non tolleravano che io, sia pur scherzosamente, ammettessi errori, confessassi disorientamenti, smentissi mie affermazioni, denunciassi mie vanità o frivolezze; tutto ciò non sembrava più compatibile con le mie pretese di scientificità, con la dignità della mia figura. Talvolta anch’io ho usato l’autoironia come difesa e me ne sono potuto rendere conto solo dopo che quei momenti di malattia erano stati superati; ciò non toglie che io ami scherzare su di me con sincerità e che trovi buffo ad esempio certo mio modo di lanciare anatemi alla Savonarola; lo trovo buffo: anche se credo nei principi che mi fanno essere così intransigente, eccessivo addirittura.
La verità sta nella voglia della verità.

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Ho già detto che molto spesso quelle persone che sono capaci di grande autoironia, non sono però capaci di tollerare che gli altri facciano ironia su di loro; in questo caso si adombrano, si irrigidiscono e appena possono si vendicano, come se rivendicassero solo a se stessi il diritto di ironizzare nel giusto modo. Una categoria a parte sono coloro che ironizzano o mettono in ridicolo comportamenti e caratteristiche delle persone che amano. Un atteggiamento che è raramente utile e produttivo e molto più spesso fastidioso; e non sempre si tratta di un fastidio che è indice di raggiunta consapevolezza. È ovvio che quello stesso geniaccio ironico si adonterà non appena qualcuno tenterà un analogo attacco nei confronti della medesima persona, attacco da lui stesso provocato magari. Come se rivendicasse in questo caso un esclusivo diritto di dileggio su chi è considerato una proprietà personale.

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lo detesto i proverbi, che considero l’espressione sintomatica della scemenza dei popoli e della loro ottusa volgarità. Ciononostante è a questo punto opportuno che ne citi uno: «Scherza coi fanti, ma lascia stare i santi».
In questa breve frase ci sarebbe l’invito ad ironizzare su argomenti quotidiani e banali; evitando di intaccare con l’ironia i grandi argomenti e i personaggi autorevoli: si scherzi pure tra pari, alla buona, ma si lascino in pace le cose e le persone che in qualche modo si innalzano dalla media per qualche loro virtù. Per un verso io sono convinto che non ci sia persona così eccelsa né argomento così sacro od elevato sul quale non sia lecita una serena e benevola ironia; non c’è davvero santo in terra o in Paradiso che non abbia un comico risvolto che in sé e per sé può divenire oggetto di rispettoso ed amorevole scherzo. Credo che lo stesso Padreterno accetti l’ironia su di sé, purché non significhi mancanza di rispetto o volgare pretesa di aggressione della sacralità; dico questo senza pormi il problema di quale sia in proposito il pensiero dei teologi, tantomeno ovviamente riesco ad immaginare cosa pensi il buon Dio.
Mi permetterò però di fantasticare.
Non mi è mai piaciuta la brutalità di Senofane quando afferma che ciascuno si costruisce gli dei come più gli piace e che le bestie, se pensassero, penserebbero gli dèi simili alle bestie. Senofane era un cretino: con i se non si costruisce la storia e neppure la filosofia; mi è più vicina invece la posizione di Cusano che diceva che le caratteristiche che l’uomo attribuisce a Dio sono una proiezione del pensiero umano, per cui Dio viene a possedere le prerogative che ciascuno gli attribuisce, in analogia con la propria natura e il proprio carattere, buono per i buoni, crudele per i crudeli. Senofane non faceva alcun tipo di buona ironia. Il suo era un modo piatto e volgare di insultare anche gli dei.
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È difficile e pericoloso applicare il metodo dell’ironia con le persone molto disturbate psichicamente; è difficile e pericoloso, come ho detto, ma l’ironia può diventare, in mani esperte e consapevoli, uno strumento terapeutico di grandissima efficacia. Non solo quelli che erano in passato definiti «paranoici», persone affette da deliri di riferimento, sono particolarmente suscettibili e pronti a mettere in atto le loro difese narcisistiche e sadomasochistiche; ma tutti quelli che attraversano un periodo di perturbazione psichica più o meno grave sono incapaci di affrontare un rapporto basato sull’ironia. Meno insopportabile, a molti di costoro, riesce l’autoironia. Quasi tutti i sofferenti di sindromi psichiche reagiscono all’ironia in modo negativo: spesso la capiscono benissimo, ma fingono di rimanere disorientati, si rannicchiano in un mutismo ostinato, la stravolgono, oppure rispondono con violenta aggressività e si nota in loro un aggravamento dei sintomi patologici. Il terapeuta deve saper fare uso avveduto dell’ironia. Io non ho mai cessato di spiegare ai miei allievi che anche in analisi è necessario seguire un metodo analogo al procedimento teatrale: come ogni finale, in teatro, deve essere preceduto da un sottofinale che ne prepari l’efficacia; così, in analisi, il momento conclusivo della guarigione che vede terapeuta e paziente guarire insieme, sciolti finalmente, senza resistenze, dai lacci del dolore, grazie ad Eros che libera, deve essere preceduto da una fase di serena accettazione reciproca dell’ironia. Non c’è possibilità di successo terapeutico per quegli analisti sussiegosi, privi di dolcezza e senza sorriso: il loro lavoro è arido, squallido e sterile; lo dico sapendo di ferire molti di coloro che conosco, ma è tempo di parlare schietto; anche l’insegnamento deve acquistare la limpida chiarezza del linguaggio musicale che io prediligo fra i linguaggi, per la sua scoperta e indifesa immediatezza, per la inesorabile sincerità che riesce ad attingere. Chi non sa sorridere non ha canzoni da cantare nel mio cortile. Posso dire che coloro che lavorano con me hanno in gran parte sviluppato un buon senso della giusta ironia, malgrado talvolta se ne dimentichino ancora e io debba loro rammentare che la strada della guarigione passa necessariamente di lì, qualunque sia la diagnosi.
L’ironia non va però confusa con il sarcasmo: il sarcasmo credo sia un’invenzione del diavolo, e se è pur vero che anche il sarcasmo può avere, qualche volta e purtroppo, funzione terapeutica, non va comunque fatta confusione tra due atteggiamenti tra di loro sostanzialmente diversi. Per cui mi riservo di sviluppare in seguito l’argomento.
Rivado col pensiero a quei quattro paesani che in un pomeriggio di festa si scambiavano grossolane facezie e ancora una volta ho la conferma che non c’era ironia in loro, perché non c’era amore.