62 – Aprile ‘90

aprile , 1990

Tonino Guerra è un bravo sceneggiatore del cinema italiano:
ha lavorato per Antonioni, Petri e Fellini; ha collaborato con Malerba scrivendo per i ragazzi e sempre è riuscito a disegnare un mondo personale, dolente ed ironico. Ci è capitato tra le mani un libriccino: L’orto d’Eliseo (Maggioli, 1989, pagg. 90, Lit. 15.000) che contiene, ripetuto tre volte, lo stesso breve poemetto; una è la stesura in dialetto romagnolo (Guerra è nato a S. Arcangelo nel 1920) della quale non possiamo giudicare stile ed assonanze perché c’è risultata incomprensibile; la seconda stesura è in lingua italiana; infine la terza stesura è, chissà perché, in lingua francese, per merito ed opera di Piera Benedetti. Ne vogliamo comunque parlare perché pur in tanta brevità Guerra riesce a tratteggiare un personaggio compiuto poeticamente, costruendogli intorno un piccolo mondo di cose minime, quotidiane e toccanti. Qui si racconta della lotta titanica di un vecchio contadino ultraottantenne contro una talpa, la quale sistematicamente distrugge i prodotti del suo orto. Lentamente però tra il vecchio e l’animale si costruisce un rapporto misto di sentimenti di amore e di morte. Tutti gli stratagemmi esistenti e i sistemi di cattura sono elusi dall’animale; e il vecchio col suo bastone appuntito affondato con rabbia ossessiva nella terra per colpire il suo nemico finisce con l’impiegare i lunghi tempi della caccia in una narrazione del proprio passato, che è confessione ed epopea; ma anche presagio di . sconfitta: «Fuori era una notte chiara con la luna caduta dentro l’acqua dei bidoni e tutte le erbe e i frutti avevano la faccia bianca dei morti.
Le ombre nere delle foglie dei cavoli si muovevano e a lui pareva che l’orto fosse ormai nelle mani delle talpe».

Il libro di Pietro Camporesi, Il brodo indiano (Garzanti, 1990, pagg. 164, Lit. 15.000) vorrebbe, attraverso l’analisi degli aspetti meno paludati della cultura settecentesca, come cibi, vestiti, suppellettili e buone maniere, offrire uno spaccato non banale, ma significativo, di un’epoca e di un costume. Secondo noi, invece, questa operazione è risultata sociologicamente, filologicamente, psicologicamente e storicamente molto scorretta. Usando il pretesto di una falsa obiettività il libro non è altro che una serie di citazioni di autori sei-settecenteschi, da Algarotti a Voltaire, appena collegate da qualche sparuta frase del compilatore. Questa antologia butta i testi d’epoca in pasto al lettore senza però avvisarlo che allora si parlava in quel modo non perché tutti i maschi fossero checche impazzite e le femmine cortigiane in deliquio, ma perché quella era la struttura linguistica del tempo che solo a noi, oggi, suona così dissueta e frivola. I frivoli esistevano anche tra i flagellanti e tra i soldati di Giovanna d’Arco, però i testi del 1200 e del 1400 hanno comunque per noi un che di aspro e rubizzo che ce li fa supporre più sobri, ruvidi ed austeri di quanto in realtà non fossero. Il signor Camporesi non ha mai letto i mora1isti medievali o il Savonarola? Anche loro condannavano vesti scandalose ed abitudini scostumate, perciò usare la lieve e pungente penna del Parini per fare apparire ridicolo il costume di un’epoca è una scorrettezza. Siamo mo consapevoli che il Settecento ha anche avuto aspetti frivoli, ma ridurre la vita quotidiana di un secolo così contraddittorio, aspro e tragico a pizzi, trine e bon-bons ci ha dato profondamente fastidio. Inoltre le poche frasi dell’autore non permettono alcuna illazione in merito allo stile letterario di questo collezionista di citazioni!