Archivio di febbraio 1990

60 – Febbraio ‘90

giovedì, 1 febbraio 1990

Sarà perché pesa su di essa il fatto che il suo nome è nato dall’unione tra un ‘agenzia di pubblicità e un telefax, ma è chiaro a tutti che questa «pantera» non brilla certo per intelligenza e si appaga molto frivolmente di un esibizionismo folcloristico e scontato. Non è la prima volta che le università, non solo nel nostro Paese, vengono occupate dagli studenti in segno di protesta. Le ragioni della rivolta sono generalmente più che valide, accade però sempre che le occupazioni vengano strumentalizzate; cosa questa che induce perplessità sul grado di maturazione politica e sulla capacità di controllo di chi vorrebbe gestire in proprio una situazione che dice di non poter più tollerare che venga gestita da altri.

Così partiti, apparato accademico e imprenditori si trovano oggi a manovrare nelle retrovie per determinare quella svolta delle agitazioni dalla quale potrà scaturire per ciascuna categoria il maggiore dei vantaggi. Poco vale infatti far notare che privatizzazione o statalizzazione presentino uguali svantaggi per gli studenti quando vengano attuate per fini di settore o di corporazioni. In questo modo le occupazioni e i loro risvolti vengono gonfiati e lasciati dilagare, a scapito di ogni forma di coscienza critica e culturale degli studenti; fino a quando un elemento precipitante crea il caso sufficientemente clamoroso che scredita – ancora una volta bisogna dire quasi sempre a ragione – il movimento studentesco. Sono infatti prove lampanti di inconsapevolezza gli abbandoni del movimento ai vezzi di fatui ex-protagonisti, che col loro chiacchiericcio approfittano dell’occasione per portare nuovamente alla ribalta uno pseudo-intellettualismo disonesto che ha già fatto vivere al mondo anni di piombo. Le ferite di quegli anni ancora sanguinano, quei lutti ancora ci riguardano. La scelta di quella violenza non può essere spiegata, in nessuna sede, in termini per così dire «dialettici», che però diano implicitamente adito all’equivoco tra «spiegazione» e «giustificazione». La violenza va condannata in assoluto e a questo fine non basta l’esorcismo riparatorio di una commemorazione delle vittime più illustri. A maggior ragione va smentita la tesi che quei delitti di allora potessero significare una risposta obbligata alla violenza di Stato; al contrario: va ribadito che di questa furono i prodotti diretti e ingiustificabili, al pari di mafia, logge e narcotraffico.

I ragazzi di oggi e quelli di domani, evitando le vacue seduzioni dell’attualità giornalistica, che rende tutti protagonisti effimeri, debbono battersi perché la scuola, insieme con una collocazione sociale, dia loro gli strumenti critici per leggere la storia passata e presente.

E la sola possibilità che a tutti noi resta e che ci preservi dagli sfruttamenti e dalle strumentalizzazioni del capitale, dei regimi, delle ideologie mortifere e della stupidità; oggi come studenti, domani come uomini e cittadini.

60 – Febbraio ‘90

giovedì, 1 febbraio 1990

Il film C’era un castello con quaranta cani, prodotto da Franco Cristaldi con la regia di Duccio Tessari, dovrebbe essere rigorosamente vietato ai minori di anni quattordici; perché comporta per l’animo degli spettatori due tremende conseguenze: prima la consapevolezza che il mito ecologico è una fantasia fiabesca, realizzabile solo al cinema; mentre nella realtà le multinazionali dei palazzinari e dei detersivi distruggeranno l’ambiente; inoltre inculca subdolamente, come valori positivi, il culto dei più squallidi rituali della borghesia in disfacimento, trasferendoli con un marchingegno artificioso sui cani. Questi poveri animali in realtà non sanno cantare il Nabucco, non passeggiano nervosamente davanti alla sala parto dove la loro quadrupede compagna sta sgravando e se ne fregano assolutamente di pizzi e volant, che sono solo torture inflitte. Ci viene voglia di fare un’affermazione squallida e sessantottesca: «I cani amano con tutto il loro egoismo, fino in fondo, perdutamente, senza riserve.» E possiamo dirlo noi che viviamo sommersi da cani che sono esseri sudici, egoisti, voraci, però meravigliosi e per fortuna non fingono alcuno degli imbecilli rituali borghesi. Questo è un film laido ed indecente, perché con astuzia comunica i messaggi peggiori della nostra cultura, persino quelli sorpassati. Eppure noi adulti non riusciamo a non commuoverci ed anche a piangere, tanto che noi abbiamo proprio pianto come fontane.
La storia è quella di un giovane milanese rampante, con amante matura e figlio di questa, che viene improvvisamente strappato dalla città e dall’informatica a causa di un’improvvisa eredità lasciata da una vecchia zia: un castello in Toscana.
Convinto di potersela cavare in pochissimo tempo, il giovanotto si trova però subito coinvolto in un intreccio di tasse di successione e affari poco puliti, oltre che con due cani a carico. La sua compagna snobisticamente sedotta da una vita al castello con vicini di casa blasonati, prende l’iniziativa di aprire un «paradiso per cani» che nelle intenzioni dovrebbe risultare altamente redditizio. Le cose non vanno tanto bene per l’azione sotterranea di biechi speculatori che vogliono il castello per pochi quattrini e per condurre a termine il turpe progetto spopolano la regione che perde così ogni attrattiva per la signora che torna lesta a Milano, lasciando nei guai il figlioletto e l’amante. I quali trovano però la solidarietà di un magico e poetico veterinario, della vezzosa maestrina già innamorata del prestante ingegnere e di due enormi e solerti guardiane ungheresi, ereditate anch’esse col castello.
Gli eroi umani, affiancati da un esercito di cani, passano anche attraverso la tragedia di un incendio doloso al canile, con vittime a quattro zampe sul campo, ma alla fine riusciranno a far trionfare la buona causa, smascherando i disonesti speculatori e i loro sicari. La fiaba finisce lasciando (quasi) tutti felici e contenti: il giovane convertito con la maestrina e il figlio della signoraccia con cani e castello; la signoraccia con nuovo e più ricco amante nel suo mondo patinato ed asettico, oltre che plastico e felicemente inquinato. Persino il magico veterinario riuscirà a far cantare senza sbagli ai quaranta cani «Va pensiero…» La vicenda ci ha reso la stessa impressione sgradevolissima che provammo quando una nostra amica ci raccontò della sua nipotina di due anni costretta a passare il capodanno vestita in abito da sera da «grande» e convinta a ballare quell’odioso e sconcio ballo che si chiama «lambada».
È troppo comodo ridere su di una bimbetta e si contorce imitando gli adulti! Noi ci siamo lasciati coinvolgere e commuovere da questo film; ma siamo rimasti ben consapevoli di essere vittime dell’ipocrisia, della volgarità e della menzogna. Il regista Tessari è stato abilissimo: ha usato però molto meglio i cani degli esseri umani. Il giovanotto interpretato da Roberto Alpi è stupido e inverosimile; Peter Ustinov, il veterinario, ci è parso totalmente incapace ed ha reso il carattere solo melenso; anche Mercedes Alonso ha esagerato facendo della madre una caricatura femminile senza risvolti; Delphine Forest è risultata una vacua e mielosa maestrina totalmente scema.
Tutto il gruppo dei cattivi è venuto fuori dissennatamente e inutilmente perfido. Il bimbo Salvatore Cascio è stato dato in pasto al pubblico, molliccio, squallido e troppo infarinato. I cani, ottimi attori, ci hanno fatto venire in testa la prevedibilissima battuta che spesso gli attori sono ottimi cani. Per un film così era azzeccatissima, ma ributtante, la fotografia, troppo ricca di particolari bucolici, primi piani sulla ranocchia, sul coniglietto, sull’uccellino posato sul filo della luce, etc. Le musiche di Detto Mariano, quanto mai in sintonia col tutto, sono state costruite con estrema cura ed abilità. Riconosciamo che qualche battuta della sceneggiatura ci ha commossi e coinvolti, ma per carità non portate a vederlo i vostri figli, ne resterebbero avvelenati! I bambini però, per fortuna, lo sanno che i cani non sono così.

60 – Febbraio ‘90

giovedì, 1 febbraio 1990

Venerdì 19 gennaio siamo andati ad ascoltare il concerto di Maurizio Pollini (tutto Chopin!) all’Auditorium di via della Conciliazione per la Stagione Cameristica dell’Accademia di S. Cecilia, rilassati e disimpegnati, poiché non avevamo in programma nessun tipo di recensione. Riconosciamo che avevamo dipinta sul volto un’aria di antipaticissima sufficienza: «il solito Pollini, che suona il solito Chopin; indubbiamente bene, ma…» Invece, come da un po’ di tempo ci accade, questo maestro della tastiera ci ha disturbati, intrigati, entusiasmati, cioè non ci ha lasciati in pace. Noi siamo arcistufi delle scimmie ammaestrate, di cui oggi il mondo è pieno: pianisti, violinisti, contrabbassisti, clavicembalisti che suonano tutti con una perizia magistrale, impeccabili, ma senz’anima; tanto che, spesso, quello che di noi due è professionalmente compositore, prova fastidio, a mettere sui suoi spartiti e sulle sue partiture annotazioni di tempo, coloriti, etc. perché gli viene da dire: «Ma quei babbuini non avendo indicazioni, faranno lo sforzo mentale di interpretare per conto loro?» (non ci riferiamo certo a quei tre o quattro esecutori e direttori che hanno assimilato la musica di Gindro, l’hanno fatta propria e insieme con lui elaborano interpretazioni comuni che sortiscono risultati sbalorditivi). Nel numero scorso, lo stesso Sandro Gindro sì era lamentato di quegli interpreti che non sono capaci di seguire le prescrizioni degli autori: allora si contraddice? Neanche un po’: gli è che troppi interpreti, e non solo della musica di Gindro, credono di essere originali soltanto perché non rispettano le indicazioni scritte; ma poi risultano assolutamente piatti, stantii ed anemici in tutte quelle parti prive di annotazioni. Ritorniamo a Maurizio Pollini: la prima parte del suo concerto era costituita dai Ventiquattro Preludi dell’op.28 che egli ha eseguito con un acume ed un’intelligenza strabilianti; tanto che la maggioranza del pubblico, composto da imbecilli (e lo abbiamo capito dai commenti nell’intervallo) è rimasta esterrefatta e spiazzata: applausi scroscianti, ma non convinti. Il pianista ha infatti dato una lettura originalissima del grande compositore polacco, riuscendo a dimostrare quanto Chopin sia stato un grandissimo armonista; altro che piccole melodie per languori di signorine in menopausa! O damigelli senza barba! Le melodie erano presentate con equilibrio perfetto, sobrio ed asciutto e gli pseudo-accompagnamenti rivelavano tutta la loro profondità e originalità armoniche; Pollini negli accordi e negli arpeggi riusciva sempre a mettere in evidenza la nota dissonante che, collegandosi alle altre, costituiva quasi una melodia bitonale; il tutto con un risultato assolutamente sbalorditivo. Chopin era assolutamente rispettato ma non puzzava più di naftalina. Nel secondo tempo il pianista ha concesso un po’ di più al pubblico nei due Notturni in do diesis minore e in re bemolle maggiore dell’op. 27 e nello Scherzo in si bemolle minore dell’op. 31, nei quali ha ritrovato un pianismo più consueto, sempre di bellissimo equilibrio formale, che ci ha però permesso di ritrovare, non senza piacere, i tempi rubati e i ritardi prescritti dalla buona tradizione. Sempre nel secondo tempo non ci è piaciuta invece la Berceuse in re bemolle maggiore, suonata velocissima, con trasparenze di ghiaccio che tentavano di renderla troppo simile ad un brano di Debussy (nessuno dormirebbe ad una siffatta ninna nanna così ansiogena). Una vetta splendida di interpretazione il maestro l’ha comunque raggiunta nella Ballata in sol minore op. 23: l’equilibrio tra pianissimo impalpabili e forte densi e drammatici, tra momenti di malinconia e di drammaticità si stemperavano gli uni negli altri senza soluzione di continuità (come mai quei pedali miagolavano?). Assolutamente esilarante è stato il secondo bis concesso, dopo un impeccabile Studio op.25 n.1; il travolgente Studio n.11 della stessa op.25 Pollini l’ha suonato nel modo più funambolico e virtuosistico immaginabile; proprio come per dire al pubblico romano: «Se questo è quello che volete, eccovelo!» Due immense donnone al nostro fianco applaudendo strillavano: «Bravo, che bravo, adesso che si scalda vedrai che suonerà ancora meglio!» E noi immaginavamo Pollini suonare le Sonate di Chopin in cinque minuti e cinquanta secondi e poi prendere l’aereo e fuggire per non tornare mai più in questa terra di incompetenti. Riconosciamo che queste nostre affermazioni sono di acida invidia; crediamo infatti che faccia molto piacere riuscire a coinvolgere un pubblico così numeroso fino a un tal segno!

60 – Febbraio ‘90

giovedì, 1 febbraio 1990

L’arte è eterna e si snoda lungo i secoli, articolandosi in mode e tendenze. Elucubrare sulle differenze di stile, progressi e regressi è molto spesso sterile; non è detto che esperienze artistiche validissime non siano cadute nel buio della dimenticanza o che la storia sia sempre giustiziera dei valori estetici e non. Ciò premesso noi abbiamo avuto una strana sensazione di sgradevolezza nel vedere la mostra intitolata Trasparenze alla nuova galleria «Pont des Arts» di vicolo dell’Angeletto. Ci è venuto di commentare malinconicamente: «Ma siamo ancora fermi qui?» Poi però abbiamo pensato che è giusto che gli artisti provino e riprovino, si imitino e tentino la parodia gli uni degli altri; non è detto che ogni opera d’arte debba avere lo stesso risultato della Venere dormiente di Giorgione; ma quando unita ad una desolante mancanza d’ingegno si trova un’assoluta incapacità di usare «artigianalmente» le mani, cosa si deve pensare? Il bilancio è negativo e si rimpiange l’inutile perdita di tempo propria e di chi si è cimentato in tanto insignificanti «opre».
I nove artisti qui riuniti in nome della trasparenza, poiché trasparenze tale è il titolo della mostra curata da Silvana Sinisi, sono Luciano Bartolini, caratterizzato, dice la curatrice, da «una costante tendenza verso un processo di smaterializzazione e stratificazione delle emergenze visive». Nelle opere di Elisa Montessori c’è «una trama accidentata di segni e di macchie di colore lasciate in sospensione sulla tela». Antonia di Giulio «sembra prendere asceticamente partito … privilegiando una pittura quasi monocroma, governata dalla nota dominante del bianco». Lucia Romualdi è «inserita a pieno titolo nella linea dell’astrazione povera». Giulia Napoleone «tende ad ingabbiare le fragili cromie dell’acquerello in una rigorosa griglia geometrica». Gian Domenico Sozzi è autore di un’opera che «sfugge ad una definizione troppo rigida e bloccata per trasformarsi in uno schermo di eventi fluidi e transitori». Hideltoshi Nagasawa intende «il vuoto allo stesso modo del pieno». Antonio Trotta dà «vita ad una felice invenzione poetica, fissando in forme inalterabili e definite l’effimera freschezza di gocce di rugiada». Michele Parisi esibisce oggetti «fuori cornice nella loro concretezza fisica e spaziale …la diafana trasparenza del bicchiere esibito in primo piano esalta la funzione penetrante della vista, riunificando per trasparenza il vicino e il lontano, lo sfondo e la superficie.» Abbiamo scelto di commentare con le parole del catalogo perché noi siamo rimasti senza parole di fronte a tanto (trasparente) candore!

La data Millenovecentosessanta è un esile filo, un pretesto per collegare opere di autori diversi. Un po’ più consistente questo filo diventa quando queste opere si richiamano ad una comune «matrice ispirativa»; comunque rimane valida l’idea di metterle insieme in una mostra. Non sappiamo invece se la superficialità ed il qualunquismo ideologico possano costituire il materiale aggregante di qualcosa; ma può darsi di sì. Nel 1960 alcuni signori e signore di trent’anni fa si divertivano anche così, ci insegna la sfilata allestita nella galleria di Netta Vespignani in via del Babuino 89: Franco Angeli, Enrico Castellani, Piero Dorazio, Tano Festa, Giosetta Fioroni, Jannis Kounellis, Francesco Lo Savio, Piero Manzoni, Fabio Mauri, Giulio Paolini, Mimmo Rotella, Salvatore Scarpitta, Mario Schifano e Giuseppe Uncini avevano allora la giustificazione di rappresentare un’avanguardia che storicamente, e soprattutto fuori d’Italia, dove la corrente fu solo di epigoni, ha avuto un significato grande quanto terribile.
Sono passati trent’anni e molti di questi signori e signore continuano a fare le stesse cose di allora; ma ogni giustificazione è venuta meno e la presunta coerenza potrebbe essere il segnale di un monoideismo sterile e di un attaccamento reazionario ad un momento in cui la confusione generale offriva un alibi a chiunque lo cercasse, permettendo travestimenti d’artista che oggi non ingannano più molti. L’alibi dello sperimentalismo permise in quel periodo a troppi di imporre presuntuosamente e con arrogante violenza tic e manie personali come prodotti d’artista. Senza l’ironia, colta e consapevole, di dada e del surrealismo, l’incapacità pratica e il vuoto culturale dominarono la scena artistica ed inventarono un mercato. Della malafede di molti e della buonafede di pochi la critica e lo stesso mercato diedero ragione molto presto. Solo loro: gli autori e i propugnatori di tanto vuoto sono rimasti stecchiti nei loro moduli inespressivi, paghi magari di essere rivisitati come reperti di una preistoria senza luce.

Randall Morgan, che espone alla galleria Il Gabbiano, di via della Frezza, è un americano settantenne che vive e lavora nella penisola sorrentina da una quarantina d’anni.
La sua pittura non è particolarmente originale e neppure molto emozionante. Guardando le sue nature morte, lucide, scintillanti e patinate si ha molto netta l’impressione del déja vu; se però ci si sofferma con cura ad osservare, si percepisce il dipanarsi unitario di una riflessione sulla luce. È la luce che dà significato agli elementi del quadro; che giustifica la scelta dei soggetti: fiori e frutta coloratissimi; ma altrove gioco di traslucidi bianchi ed azzurri, che, per così dire, smaterializzano la realtà fin troppo concreta delle cipolle, rese con vitrea purezza, al pari del bianco dei vasi di porcellana, le cui forme si articolano con morbidità voluttuosa, aumentata dall’articolarsi delle ombre.
La tentazione di ridurre Morgan all’asetticità della riproduzione fotografica viene poi vanificata di fronte al cavallino bianco di ceramica, presenza improvvisa e non realistica, non solo perché introduce un soggetto incongruo nello schema predisposto delle «nature morte», ma perché lo riporta in una dimensione che non è di oggetto e neppure di animale; velato dal ricordo di monumenti equestri e di antichi giocattoli.
La figura umana così marcatamente assente in tutte le altre tele, appare appena come citazione fugace nella geisha dipinta sul ventaglio; insolito fiore per uno dei tanti vasi.
Alcune trasparenze esasperate, l’attenzione iper-realistica per i particolari richiamano a qualcosa che ricorda un sommesso brusio nascosto dietro quelle forme e quei colori; quasi verrebbe voglia di tendere più l’orecchio che aguzzare lo sguardo. È quella di Randall Morgan una pittura molto ambigua nella sua apparente solare chiarezza; ma la sua ambiguità si nasconde lontano, come dietro la tela.

60 – Febbraio ‘90

giovedì, 1 febbraio 1990

Il volume di John Cutting, Psicologia della schizofrenia (Bollati Boringhieri, 1989, pagg.562, Lit. 80.000) è un trattato indubbiamente utile per chi voglia avere una visione sufficientemente completa delle ricerche in materia a partire da Kraepelin, Bleuler, Freud etc. Nonostante che l’aspetto neurologico organicista spadroneggi e le teorie psicodinamiche siano spiegate malissimo (probabilmente l’autore non le ha capite) sono riportati moltissimi dati, anche con una quasi tollerabile obiettività. La conclusione che però il lettore trae è che allo stato attuale delle ricerche la concordanza tra gli studiosi sia molto di là a venire e che i disagi psichici primari, schizofrenia e psicosi affettiva maniaco-depressiva (come gli altri) non siano entità nosografiche separabili; ogni ricercatore o gruppo di ricercatori dice tutto e il contrario di tutto. Le teorie sulla dementia praecox o schizofrenia sembrano essere nel marasma più assoluto: non vi è alcuna concordanza sulle cause a proposito delle quali v’è anzi, tra gli autori, solo contraddizione. In via puramente empirica si dice che i neurolettici siano efficaci e altrettanto empiricamente si mormora che il trattamento psicologico ottenga i migliori risultati. In realtà questo libro dimostra in modo lampante come nessuno sappia nulla di nulla. Anche noi dopo tanti anni che ci troviamo ad affrontare la psicosi (anche quella che, forse, come entità autonoma non esiste, detta schizofrenia) riconosciamo di avere le idee molto confuse. Attraverso la psicoanalisi, siamo riusciti, forse, ad individuare alcune cause del disagio grave e siamo in grado, con la nostra minuziosa tecnica d’indagine e la terapia, di ottenere in questo campo, insieme con i nostri collaboratori, risultati che non esitiamo a definire, senza falsi pudori, straordinari. Forse perché una volta tanto ci siamo spogliati della nostra tracotanza e ci muoviamo con il massimo di onestà ed umiltà possibili. Con molta delusione nostra, Cutting pregiudica però grandemente ogni possibilità di stima quando dichiara presuntuosamente: «Nel corso di questo tentativo io mi convinsi che si sarebbe potuta comprendere la natura della schizofrenia una volta che si fosse conosciuto il funzionamento del cervello, e in particolare se si fossero chiarite le differenti responsabilità dei due emisferi. Negli anni successivi mi sono ancor più convinto della correttezza di questa spiegazione». A questo proposito l’autore porta una serie di argomentazioni risibili sul piano scientifico e non solo. Chi avesse la voglia di leggere tutto questo ponderoso tomo avrà modo di trovarvi senza dubbio riportate una quantità di teorie molto più convincenti, anche se tutte discutibilissime.

60 – Febbraio ‘90

giovedì, 1 febbraio 1990

È proprio triste dover constatare che a Roma per mangiare in un modo appena civile si debba pagare così caro; ma poi la tristezza aumenta quando si considera che ancor più spesso accade di pagare altrettanto caro mangiando peggio. Il Ristorante Pizzeria Cesare di via Crescenzio 13, quasi all’angolo con piazza Cavour, è un locale per nulla lussuoso ed anzi è un po’ frastornante e super-affollato come una mensa aziendale, dove accade al termine di un pasto accettabile, servito frettolosissimamente e innaffiato con vini di nessun pregio, di vedersi presentare un conto davvero esorbitante.
Dopo un mediocre antipasto di mare ed un ottimo sauté di vongole, saporito ed equilibrato, abbiamo considerato con rassegnato sdegno sull’ordinaria scipitezza del ragù delle fettuccine; ma abbiamo invece apprezzato l’immensa porzione di risotto ai tartufi neri, conditi con principesca generosità. Mentre la trippa alla romana ci è parsa soltanto passabile, il fritto di calamari, gamberi e triglie, sebbene un po’ rinsecchito, è stato però molto gustoso. Il crème caramel ci è parso ben fatto, mentre la zuppa inglese (come si suoi dire) e risultata insopportabile e assolutamente senza gusto alcuno. I vini di poco conto sono stati un bianco di Marino della casa, orrendo, un passabile Pinot grigio e un andante rosso toscano sfuso. Tutto sommato l’esperienza è stata di quelle che si preferirebbe scordare al più presto.

60 – Febbraio ‘90

giovedì, 1 febbraio 1990

Siamo pienamente d’accordo sul fatto che l’argomento della tossicodipendenza e qualche altro, particolarmente aggravato in questi giorni, non siano cosa da ridere; anche se pure noi, come dicono Fo e Rame «non ci piangiamo addosso». Gli è però che nello spettacolo Il Papa e la strega, scritto, diretto ed interpretato da Dario Fo, di tali argomenti così importanti non si parla affatto; o meglio: diventano semplicemente il e pretesto per una serie di gags e battutine, per lo più volgarissime, costruite con lo stampino. Trapela, al di là delle battute, un odio furibondo per i bambini e per i drogati, che sono, a ben guardare, piuttosto insultati da un pizzico di pietismo demagogico. Questo testo non è degno di suscitare neppure un poco di impegno polemico; vogliamo soltanto sottolineare che anche noi siamo d’accordo sul fatto che, forse, la liberalizzazione assoluta della droga è l’unico passo sensato che ancora si potrebbe compiere per cercare di limitare il disastro che ci sta travolgendo.
Come si è lontani dagli avanspettacoli di un tempo, nei quali la satira sociale e politica erano veramente incisive e i vari regimi dovevano veramente tremare per le provocazioni che venivano lanciate da quelle ribalte. Ormai quello di Fo è un umorismo piccolo piccolo per borghesi altrettanto piccoli. La messa in scena è risultata quanto mai sciatta, priva di fantasia e di umorismo; inoltre lo spettacolo è disturbato da alcune orribili musiche, con la melodia inventata da Dario Fo, incomprensibilmente orchestrata da Davide Rota. La prestazione di tutti gli attori è stata assolutamente anodina; ovviamente qualcuno è andato meglio, qualcun altro peggio; ma tutti ad un livello è medio-basso. Franca Rame si è prodigata, anche troppo, nei suoi moduli recitativi ormai centenari; riuscendo con quella sgangherata dizione lombarda, qualche volta, ad ottenere effettini od effettacci e nulla più. La recitazione di Dario Fo ha invece perso ogni smalto: il modulo iniziale, tra lo strillo e lo sghignazzo rimane invariato per tutto lo spettacolo; per di più prendeva continue papere e non ricordava le battute.
Tutto sommato, le risate del pubblico avevano la stessa sonorità e le stesse motivazioni di quelle registrate in televisione ai tempi del compianto Alighiero Noschese: di tollerato umorismo di regime.

L’Associazione Culturale Beat 72 ha previsto per la stagione 89/90 un ciclo I Poeti scrivono per il Teatro. Il secondo testo messo in scena è Salomè di Dario Bellezza.
Primo è stato Valentino Zeichen e seguiranno nell’ordine: Giuseppe Conte, Giorgio Manacorda, Bianca Maria Frabotta e Patrizia Valduga.
Dario Bellezza ha deciso di scrivere una pochade: con tutte le caratteristiche canoniche del teatro boulevardier, folta di parodie abbastanza argute di grossi autori come Fassbinder e il Wim Wenders di Il cielo sopra Berlino; proseguendo, come è d’uso in questo tipo di teatro leggero, fino a sfiorare il grottesco, attraverso situazioni iper-lugubri e un po’ raccapriccianti; ci sono insistiti giochi di parole e spiritosamente l’autore prende in giro anche se stesso facendosi «il verso». Anche la scelta di mettere in mutande la Salomè di Wilde, trasportando la vicenda ai nostri giorni, è abbastanza spiritosa: Erode risulta così essere una specie di pappone da metropolitana, Erodiade una stralunata creatura sottratta a un dramma di Tennesse Williams, Salomè una prostituta tragica da marciapiedi newyorkesi e Giovanni un drogato con furori mistici.
Gli attori sono stati tutti molto bravi nel recitare con drammatica serietà. Sembrava che prendessero sul serio le loro battute, con effetto davvero esilarante: Massimo Fedele, anche grazie ad uno spiritoso vezzo di pronuncia nelle esse è stato un crudele, angosciato e sempre infoiato Erode. Nunzia Greco ha dato vita ad una Erodiade cinica, appassionata e disperata. Maria Libera Ranaudo ha reso il suo personaggio di Salomè una creatura ora tenerissima, ora crudele come una belva. Enzo Saturni ha in interpretato ottimamente questa moderna versione del Battista, con variatissima gamma di gesti, di urla, di movimenti espressivi e di accenti.
La regia di Renato Giordano è risultata sempre attenta e precisa e – a parte un eccesso di grida, che sarebbe stato meglio in alcuni punti smorzare – ha guidato i suoi personaggi con sincronica precisione, in un vicolo angusto, umido di pioggia e di orina, dovutamente nebbioso e illuminato a tratti con gran decisione da luci azzurre, bianche e rosse, curando anche le musiche di repertorio, che accentuavano vieppiù l’atmosfera un po’ old fashion del tutto.

Mario Moretti è un autore di teatro dalla reputazione ormai ben consolidata e la sua scrittura, professionalmente valida e poeticamente efficace, ha dato molto al teatro italiano. Questa Maledetta Carmen, che segue a breve distanza di tempo il Raccontare Nannarella di cui conserva qualche traccia, è l’ottimo frutto della coppia formata dall’autore e dalla sua straordinaria attrice Anna Mazzamauro, arricchito dall’apporto fondamentale di un gruppo di ottimi musicisti, tra compositori ed esecutori.
Il testo accorpa, sovrappone e scompone momenti lirici, stralunati, drammatici ed umoristici e se Moretti avesse osato un altro po’ avrebbe potuto costituire la base di uno spettacolo anche più incisivo di quello ottenuto. Però quel che mancava al testo è stato eccellentemente fornito dalla prestazione di Anna Mazzamauro, auto-ironica, grottesca e disperata: Carmen è ciò che ogni donna (e anche qualche uomo) vorrebbe essere, ma non riuscirà mai ad essere. Le donne, si sa, a dispetto delle eroine del teatro, troppo spesso infatti sono prigioniere della loro millenaria e rancida cattiveria mortifera; non per nulla è stato un maschio, P. Merimée, ad inventare il personaggio di Carmen ed un altro maschio, G. Bizet, a rivestirlo di una delle più belle musiche che siano mai state scritte. Da queste lezioni, le donne, ed anche la Mazzamauro, dovrebbero imparare un po’ di umiltà, distruggendo per sempre l’ideologia borghese del vetero-femminismo ed accettando i loro difetti e i loro pregi. Per fortuna la nostra è un’attrice coi fiocchi e riesce a costruire uno spettacolo delicato, sottile ed umoristico, facendo perdonare persino alcune stupidaggini pamphlettistiche del testo; così la serata scorre tra gradevoli emozioni. Ma allora, è una donna capace di dare levità ed ironia alle parole del maschio? Crediamo proprio di sì!
L’intervento del regista Lorenzo Salveti è stato determinante nel cementare il tutto con compattezza e scorrevolezza, il risultato è stato di grande efficacia emotiva in molti punti, e soprattutto nel finale, con la vestizione di Carmen in rosso.
Molto adeguato il contributo di Gianni De Simeis (Don José), bamboccio e maschio in sordina nei giusti momenti.
Vladimiro Marcianò alla tastiera, Nicola Puglielli alla chitarra e Valerio Serangeli al contrabbasso sono stati anche scenicamente ottimi e musicalmente hanno valorizzato le belle musiche di Paolo Gatti e Alfonso Zenga che, tra Bizet e Chopin, hanno costruito atmosfere sonore sempre appropriatissime.
Le scene erano di Bruno Buonincontri e i costumi di Angelo Motta.
Ci rimane la curiosità di sapere l’origine della bellissima canzone finale, cantata dalla Mazzamauro in modo superlativo, e quale collegamento abbia, nell’intenzione degli autori, con Carmen.

Psicoanalisi contro n.60 – Mai da Soli

giovedì, 1 febbraio 1990

Ai nostri giorni la scienza ha atteggiamenti tra loro opposti; di uno sono rappresentativi individui apparentemente pacifici, in realtà presuntuosi, tirannici e dittatoriali. Ogni loro affermazione è decisa ed irrevocabile: «recenti studi hanno dimostrato inequivocabilmente che…» Questo atteggiamento può essere comune ai premi Nobel, ai medici di campagna con le scarpe rotte, fermi agli anni del primo novecento in cui si sono laureati, ai ministeriali e loro famiglie, tutti convinti del valore dei più «recenti studi».
Un altro atteggiamento, molto più depresso e per questo debole, è quello dei ricercatori che non credono nella ricerca, che accettano di essere vittime delle multinazionali, delle sovvenzioni dello Stato e delle imposizioni della moda. Costoro dicono che la ricerca scientifica oggi è in crisi perché non riesce a stabilire verità che abbiano validità apodittica; enunciano con balbettante timore alcune teorie, ma Stato, Chiesa, femministe, industrie e movimenti impongono loro la cautela; guardinghi trasmettono le loro comunicazioni quasi in codice, pubblicate in libelli indegni. La scienza dovrebbe sempre avere un atteggiamento di cautela; qui sta la sua forza e la sua grandezza; ma sarebbe certo bene non avesse troppi timori reverenziali verso i poteri esterni; poiché né le chiese delle verità assolute, né lo stato prepotente, né il femminismo ottuso, né l’ignoranza movimentistica potranno mai indicare a chicchessia la giusta strada. Se gli scienziati non fossero eccessivamente vili e sottomessi a questi poteri, sarebbero il sale del mondo, capaci davvero di proseguire l’antico discorso della scienza di Galilei e di Pasteur. La scienza ha oggi al suo servizio troppo pochi uomini coraggiosi che, pur sapendo di essere prigionieri della multinazionali, dello stato, delle chiese, delle femministe e del movimento, si sforzino per quanto possibile di dire quello che pensano. Ma chi deve sostenere il costo di questa ricerca? Da sempre è stata la domanda fondamentale. Come è possibile lavorare, ricercare, studiare gratuitamente? I laboratori costano, le case editrici non pubblicano scritti di chi non sia servo o barone in qualche università. Allora bisogna gaiamente prostituirsi. Perciò gli scienziati, ancor più degli artisti, sono costretti a manipolare le loro ricerche e indirizzarle verso obiettivi imposti che siano redditizi per l’uno o per l’altro dei clienti.

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In questi ultimi anni i ricercatori stanno tentando di dare una descrizione sufficientemente uniforme, almeno per l’area culturale dell’occidente, del disagio mentale ed anche stanno tentandone un uniforme approccio terapeutico; ma il risultato più rimarchevole è quello di una confusione ancora maggiore che nel passato, poiché ogni scuola, ogni indirizzo ed ogni singolo ricercatore, pur affermando di richiamarsi agli altri, propone di fatto, ex-novo, la propria nosografia. Le case farmaceutiche, più o meno basandosi sulle analisi ambigue e imprecise, se non addirittura demenziali, di questo o quel gruppo di ricerca, mettono a punto preparazioni di sostanze chimiche che spesso hanno una loro efficacia nel trattamento dei disturbi psichici, anche se è un’efficacia tutta basata sull’inibizione dei sintomi.
Il che risponde non tanto alle esigenze degli scienziati quanto appaga il bisogno di un controllo immediato dei pazienti. Dal momento che i terapeuti non dispongono di un metodo diagnostico, né di un criterio descrittivo e non hanno moduli terapeutici di riferimento, ma soltanto un elenco di nomi di farmaci, accade che molto spesso i pazienti gestiscano tanto il farmaco quanto il medico. Fanno ricorso al farmaco prescritto quando e se lo ritengono opportuno, secondo una posologia di loro gradimento, ne assumono altri che nessuno ha loro ordinato, magari perché ne hanno sentito fare l’elogio da qualcuno che ne ha sentito indirettamente parlare. Con astuzia prodigiosa si destreggiano fra gocce e pillole, ottenendo persino il risultato, talvolta, di sentirsi meglio. Quando poi crollano definitivamente giungono al ricovero. Tutto questo sotto l’impotente sguardo dei terapeuti. Dove però è oggi possibile ricoverarsi quando il disturbo non permette più una vita autonoma?
Ai nostri giorni la barbarie degli antichi manicomi è stata, almeno nominalmente e parzialmente, abolita; anche se le cliniche private ne perpetuano il modello. Bisogna ammettere che senza di queste l’abolizione degli ospedali psichiatrici avrebbe provocato il collasso, esistenziale e sociale di individui e nuclei famigliari. Il problema della gestione e cura di chi non sia più capace di vivere nel contesto sociale e minacci di distruggere la tranquillità e di attentare all’incolumità della famiglia e del gruppo è quanto mai delicato. Nessuno accetta la tutela di altri, specie se imposta, però chi non è in grado di badare a se stesso per un handicap fisico o psichico ha il diritto di essere assistito. La comunità, i privati, gli umanitaristi, gli elemosinieri, quali che siano le loro caratteristiche, sono espressioni di assistenza alle quali oggi la società fa ricorso. Non esiste, credo, la forma di ricovero e assistenza perfetta; ma è vero che questo dovere sociale deve potersi realizzare su basi concrete, non solo volontaristiche, sufficientemente finanziate dal danaro pubblico.

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I ricercatori e gli studiosi hanno tentato, come dicevo, di dare una descrizione uniforme del disagio mentale, senza riuscire però a fornire nessuna indicazione precisa alle «fabbriche» e sottolineo fabbriche che producono psicofarmaci. Il disastro è oggi assoluto poiché le case farmaceutiche operano in base a criteri solo economici, benché riescano talvolta a produrre medicine capaci di intervenire su quei sintomi che la ricerca più confusionaria indica come patologici. Le sostanze chimiche, si sa, possono infatti inibire od eccitare i comportamenti dell’uomo e dell’animale. Risulta quindi che solo le case farmaceutiche incidono realmente sulla terapia del disturbo mentale. Ciò è desolante, non perché non sia da rispettare un’industria così fondamentale, ma perché si conoscono i metodi della propaganda farmaceutica, attuata da quella specie di commessi viaggiatori che girano convincendo psichiatri e neurologi della bontà dell’ultima pilloletta messa in commercio. Trovano quasi sempre interlocutori impreparati e persuadibili con facilità, disponibili quindi a farsi i primi tramiti di un circuito di diffusione che si ingigantirà al di fuori di ogni altro controllo. Può essere un tale sistema ritenuto di una qualche validità scientifica?

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Fra Otto e Novecento si affermò una classificazione del disagio mentale secondo due parametri fondamentali: l) la psicosi affettiva maniaco-depressiva, caratterizzata da un andamento ciclico in cui ad un episodio maniacale ne succede uno depressivo; 2) la cosiddetta dementia praecox o schizofrenia, caratterizzata da un degrado continuo della personalità, quasi sempre insorgente in giovane età.
Kraepelin alla fine dell’Ottocento, prima è chiamò con il nome di dementia praecox tre malattie che egli riteneva distinte: catatonia, ebefrenia e dementia paranoides; poi le considerò un’unica malattia di origine organica; ma, nel 1913, poiché i conti non gli tornavano, introdusse accanto alle prime tre sottoclassi una quarta definizione: dementia simplex, anch’essa rientrante nella più vasta classificazione di dementia praecox. È chiaro che con questo metodo si possono introdurre nuove sottoclassi, all’infinito. Bleuler, senza nessuna ragione o utilità preferì sostituire al termine dementia praecox quello di «schizofrenia», descrivendo questa nuova patologia in modo confusissimo e sovrapponendovi anche la psicosi ciclica. Jaspers nella sua Psicopatologia generale del 1913 definì il comportamento e il linguaggio alienati come «incomprensibili». Questa è una parola rivelatrice: il suo trattato è totalmente incomprensibile ed in utilizzabile dal punto di vista nosografico, come può verificare chiunque abbia voglia di leggerlo. Giungendo ai nostri giorni, dopo gli anni settanta, alcuni gruppi di studiosi, hanno raccolto sotto varie sigle: RDC di Spitzer, CATEGO di Wing, Cooper e Sartorius, DSM III dell’American Psychiatric Association, ecc. una innumerevole quantità di sintomi, affastellati senza criterio, che si contraddicono spesso persino all’interno dello stesso sistema. In realtà sono catalogazioni che si esprimono in una «insalata di parole» non dissimile dalla confusione delirante della follia.

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In campo psichiatrico, o più generalmente psicologico, la confusione è dunque molta. Riconosco che c’è la stessa confusione anche negli altri campi della medicina e della scienza; ma resta però il fatto che la psiche non l’ha ancora conosciuta nessuno e a tutt’oggi non si è in grado di dare una descrizione universalmente accettabile del disagio psichico. Io ritengo che questo fatto sia anche da considerarsi positivamente, poiché l’essere umano non è descrivibile, sia dal punto di vista organico sia mentale, né è interpretabile o diagnosticabile una volta per tutte. I terapeuti dovrebbero rendersi conto che l’essere umano è misterioso e così sarà anche in futuro. L’antico filosofo G.B. Vico diceva che gli uomini sono in grado di comprendere soltanto ciò che fabbricano loro stessi e che perciò il significato dell’universo e dell’esistenza umana sfuggirà loro in eterno; per questo gli studiosi possono soltanto comprendere la storia, costruzione appunto umana. Vico aveva troppi figli ed era costretto a scrivere rincantucciato in un soppa1co ricavato in un bugigattolo di un vicolo napoletano; ma ugualmente trovò il modo di dire una verità incontrovertibile. Se però non fosse stato così disturbato dagli strilli e dai bisogni di tutti quei bambini che lo assediavano, avrebbe anche compreso che non è assolutamente vero che gli uomini fanno la storia, per cui, in realtà, non possono comprendere neanche questa. Dio è dentro, sotto e sopra la storia, ed è incomprensibile e rende incomprensibile all’uomo anche la storia. Gli uomini balbettano nei caffè e le donne pigolano nei mercati: gli uni non sono migliori delle altre e non è vero che la femmina sia in qualche modo migliore del maschio.
Quando mai maschi e femmine saranno capaci di incontrarsi?
Forse non c’è speranza e allora tanto vale rifarsi alla garanzia divina che trascende anche la storia che non è opera umana.

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La descrizione della struttura psichica e del suo disagio è stata messa a punto nel modo più adeguato da Sigmund Freud. Un tempo io ho messo in discussione la distinzione freudiana tra nevrosi e psicosi, ma sebbene ritenga farraginosa e inattuale la sistematizzazione operata dal clinico viennese, tuttavia ora debbo in parte ricredermi: quella fu l’unica distinzione corretta – in quel momento – di due diversi ordini di problemi clinici. Quello che le si oppose infatti fu soltanto un delirio di psichiatri e neurologi. Freud classificò un comportamento «normale» uno «nevrotico» e uno «psicotico». Sarebbe troppo facile attaccarlo sul concetto di normalità: chi è normale? È normale chi si adegua alle regole della società in cui è nato; o è normale chi secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità è classificato come tale?
È normale però anche chi si rifiuta di accettare queste regole e si rapporta al mondo esterno secondo i suoi propri principi; per cui deriva che la normalità è indefinibile; quindi lo è anche la condizione di anormalità. Qualche tempo fa venne da me un individuo, piccolo, viscido, brutto e sporco che mi disse di essere perseguitato dalla moglie e dalla madre le quali mettevano nei suoi cibi chissà quali sostanze venefiche. Si sentiva in rapporto diretto col buon Dio che gli mandava gli «spiriti» che gli consigliavano cosa mangiare e cosa rifiutare, tanto che si trovava in uno stato di denutrizione piuttosto marcato. A volte, seduto davanti alla finestra guardava il cielo e a chi gli domandava cosa vedesse rispondeva di vedere Dio. Provai a fargli notare che non c’era bisogno di cercare Dio nel cielo, poiché la divinità si rivolgeva direttamente a lui; la cosa lo rese perplesso per questa mancanza di logicità di cui solo allora si rendeva conto con sorpresa. I pazzi non sono logici, capiscono poco Dio.
Quell’uomo era diagnosticabile come schizofrenico, per questo lo avevano subissato di Serenase e anti-parkinsoniani; però, quando cadeva in depressioni troppo profonde, contrattaccavano con antidepressivi che lo portavano ad impulsi violentemente suicidi. Come dire: calmarlo, ma non troppo.
Gli diedi ascolto e mi parlò di un Dio squallidamente gastroenterico; ne provai repulsione, ma forse si trattava di una mia inammissibile debolezza: perché il «buco del culo» non dovrebbe appartenere a Dio?
Non riuscivo però, malgrado tentassi, a farlo parlare anche d’altro. Non aveva nessuna voglia di spostarsi dal suo «buco del culo»: non amava le stelle, odiava la moglie e la madre. Gli facevo notare che se Dio era nel «buco del culo» poteva anche essere nella moglie, nella madre e nelle stelle. Ebbi la percezione che l’odio è uno dei significati della follia.

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Da anni lavoro con persone ritenute folli e molte di esse anch’io le ritengo tali, perché hanno tentato di chiudere ogni rapporto col mondo. Però spero di avere il coraggio terapeutico di riconoscere che non so che cosa sia la follia; ma intuisco cosa provano gli uomini e perciò ho scelto di lavorare con loro, di riferirmi a loro, di star loro vicino, di discutere e di scontrarmi con le loro incomprensibili, e allo stesso tempo comprensibilissime, opinioni. La follia è la tristezza della vita, la sconfitta; soprattutto è la cattiveria. Prima ho sbagliato quando ho detto che il disagio mentale grave è frutto di chiusura al mondo. Questa è la caratteristica più evidente e forse più profonda, ma è contraddetta da una spasmodica tensione verso la comunicazione: con Dio, con gli altri, anche con gli oggetti, magari percepiti come persecutori. Ne sono segnali le voci, il brusio continuo, le accuse che sorgono dall’interno e vengono dall’esterno, causando aggressività, fuga o il ripiegamento in una depressione vicina alla catatonia (e sarebbe interessante analizzare le ragioni per cui gli psichiatri non diagnosticano quasi più la catatonia). Si dice che la follia catatonica grave oggi sia quasi scomparsa anche per l’uso ormai consolidato di alcuni psicofarmaci e delle terapie elettroconvulsive, non so quanto sia vero; so però che quando i catatonici riescono ad uscire dal loro rigido silenzio, sono così carichi di richieste di aiuto che capisco quanto denso di significati e poco inerte doveva essere la loro precedente immobilità. Anche questo è però solo in apparenza un atteggiamento di rinuncia, in realtà nasconde la mostruosa carica di aggressività, di chi giunge ad inscenare una parodia di morte capace di suscitare il terrore negli altri.
Il folle si esibisce quasi sempre davanti a una miriade di spettatori che talvolta sono i suoi fantasmi, ma che anche sono i suoi famigliari, gli amici, i terapeuti coi quali ha instaurato rapporti distorti e profondamente sadici. A questo esibizionismo si aggiunge un comportamento violento ed aggressivo, un desiderio di distruggere, di far soffrire, di disturbare; una capacità di aggredire e provocare con compiaciuto gusto l’aggressione altrui. Ovviamente tutto ciò non può giustificare neppure in minima parte le barbariche torture degli antichi manicomi, non ancora del tutto scomparse nelle moderne istituzioni, per quanto sembrino inevitabili. Le catene da cui la terapia morale di Pinel aveva liberato i ricoverati erano forse meno distruttive dell’abbandono al gioco di massacro attuale tra malati e persone circostanti, lasciati alla loro lotta, senza mediazioni e senza tutele, perché non si è saputo proporre una vera alternativa all’istituzione totale, che si è giustamente voluta abolire.
Non solo i folli hanno però diritti, li hanno anche gli altri; quali sono oggi, per la società, gli strumenti di difesa?
È utopistico e semplicistico rispondere: l’amore; perché l’amore può essere salvifico solo quando è un reale atteggiamento di fondo che va verso tutti gli altri, ed è oggi merce introvabile. La pura e semplice commiserazione che si ritrova invece a buon mercato non serve a nulla, anzi semplicemente fa alzare il livello delle richieste, tanto che subito ci si rende conto che ciò che si è disposti a dare, non coincide con ciò che viene chiesto. È necessario cercare di capire, saper agire con efficacia, essere solidali coi singoli e col gruppo sociale.

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Come ho già detto, le cause delle più gravi forme di follia non sono ancora state identificate ed è poco probabile che lo siano in breve termine. Le cause genetico-ereditarie, quelle sociali o quelle per intossicazione da sostanze, si intrecciano spesso creando un groviglio praticamente indistricabile. La follia è un’esperienza che si viene costruendo, è una situazione che anche gli altri: famigliari, amici, società, costruiscono col malato; non si diventa folli da soli, ci possono essere tantissime condizioni che predispongono e facilitano il passo verso la follia, ed è impossibile determinare quali siano gli elementi che pesano maggiormente; non c’è dubbio però, che la persona che fugge nel delirio ha imparato dal mondo la cattiveria e ne ha subito il rifiuto, scegliendo la fuga nel narcisismo e nell’aggressività distruttiva. Questo gioco crudele è un carosello senza inizio e senza fine e non si può facilmente spezzare. Quante parole sono state dette sulla follia, ma pochissime hanno avuto un vero significato di utilità. Troppe classificazioni distolgono lo psichiatra e lo psicologo anche da quel buon senso di cui lo ha fornito la personale esperienza, talvolta efficace, ma per lo più impotente.