60 – Febbraio ‘90

febbraio , 1990

Il film C’era un castello con quaranta cani, prodotto da Franco Cristaldi con la regia di Duccio Tessari, dovrebbe essere rigorosamente vietato ai minori di anni quattordici; perché comporta per l’animo degli spettatori due tremende conseguenze: prima la consapevolezza che il mito ecologico è una fantasia fiabesca, realizzabile solo al cinema; mentre nella realtà le multinazionali dei palazzinari e dei detersivi distruggeranno l’ambiente; inoltre inculca subdolamente, come valori positivi, il culto dei più squallidi rituali della borghesia in disfacimento, trasferendoli con un marchingegno artificioso sui cani. Questi poveri animali in realtà non sanno cantare il Nabucco, non passeggiano nervosamente davanti alla sala parto dove la loro quadrupede compagna sta sgravando e se ne fregano assolutamente di pizzi e volant, che sono solo torture inflitte. Ci viene voglia di fare un’affermazione squallida e sessantottesca: «I cani amano con tutto il loro egoismo, fino in fondo, perdutamente, senza riserve.» E possiamo dirlo noi che viviamo sommersi da cani che sono esseri sudici, egoisti, voraci, però meravigliosi e per fortuna non fingono alcuno degli imbecilli rituali borghesi. Questo è un film laido ed indecente, perché con astuzia comunica i messaggi peggiori della nostra cultura, persino quelli sorpassati. Eppure noi adulti non riusciamo a non commuoverci ed anche a piangere, tanto che noi abbiamo proprio pianto come fontane.
La storia è quella di un giovane milanese rampante, con amante matura e figlio di questa, che viene improvvisamente strappato dalla città e dall’informatica a causa di un’improvvisa eredità lasciata da una vecchia zia: un castello in Toscana.
Convinto di potersela cavare in pochissimo tempo, il giovanotto si trova però subito coinvolto in un intreccio di tasse di successione e affari poco puliti, oltre che con due cani a carico. La sua compagna snobisticamente sedotta da una vita al castello con vicini di casa blasonati, prende l’iniziativa di aprire un «paradiso per cani» che nelle intenzioni dovrebbe risultare altamente redditizio. Le cose non vanno tanto bene per l’azione sotterranea di biechi speculatori che vogliono il castello per pochi quattrini e per condurre a termine il turpe progetto spopolano la regione che perde così ogni attrattiva per la signora che torna lesta a Milano, lasciando nei guai il figlioletto e l’amante. I quali trovano però la solidarietà di un magico e poetico veterinario, della vezzosa maestrina già innamorata del prestante ingegnere e di due enormi e solerti guardiane ungheresi, ereditate anch’esse col castello.
Gli eroi umani, affiancati da un esercito di cani, passano anche attraverso la tragedia di un incendio doloso al canile, con vittime a quattro zampe sul campo, ma alla fine riusciranno a far trionfare la buona causa, smascherando i disonesti speculatori e i loro sicari. La fiaba finisce lasciando (quasi) tutti felici e contenti: il giovane convertito con la maestrina e il figlio della signoraccia con cani e castello; la signoraccia con nuovo e più ricco amante nel suo mondo patinato ed asettico, oltre che plastico e felicemente inquinato. Persino il magico veterinario riuscirà a far cantare senza sbagli ai quaranta cani «Va pensiero…» La vicenda ci ha reso la stessa impressione sgradevolissima che provammo quando una nostra amica ci raccontò della sua nipotina di due anni costretta a passare il capodanno vestita in abito da sera da «grande» e convinta a ballare quell’odioso e sconcio ballo che si chiama «lambada».
È troppo comodo ridere su di una bimbetta e si contorce imitando gli adulti! Noi ci siamo lasciati coinvolgere e commuovere da questo film; ma siamo rimasti ben consapevoli di essere vittime dell’ipocrisia, della volgarità e della menzogna. Il regista Tessari è stato abilissimo: ha usato però molto meglio i cani degli esseri umani. Il giovanotto interpretato da Roberto Alpi è stupido e inverosimile; Peter Ustinov, il veterinario, ci è parso totalmente incapace ed ha reso il carattere solo melenso; anche Mercedes Alonso ha esagerato facendo della madre una caricatura femminile senza risvolti; Delphine Forest è risultata una vacua e mielosa maestrina totalmente scema.
Tutto il gruppo dei cattivi è venuto fuori dissennatamente e inutilmente perfido. Il bimbo Salvatore Cascio è stato dato in pasto al pubblico, molliccio, squallido e troppo infarinato. I cani, ottimi attori, ci hanno fatto venire in testa la prevedibilissima battuta che spesso gli attori sono ottimi cani. Per un film così era azzeccatissima, ma ributtante, la fotografia, troppo ricca di particolari bucolici, primi piani sulla ranocchia, sul coniglietto, sull’uccellino posato sul filo della luce, etc. Le musiche di Detto Mariano, quanto mai in sintonia col tutto, sono state costruite con estrema cura ed abilità. Riconosciamo che qualche battuta della sceneggiatura ci ha commossi e coinvolti, ma per carità non portate a vederlo i vostri figli, ne resterebbero avvelenati! I bambini però, per fortuna, lo sanno che i cani non sono così.