Psicoanalisi contro n.60 – Mai da Soli

febbraio , 1990

Ai nostri giorni la scienza ha atteggiamenti tra loro opposti; di uno sono rappresentativi individui apparentemente pacifici, in realtà presuntuosi, tirannici e dittatoriali. Ogni loro affermazione è decisa ed irrevocabile: «recenti studi hanno dimostrato inequivocabilmente che…» Questo atteggiamento può essere comune ai premi Nobel, ai medici di campagna con le scarpe rotte, fermi agli anni del primo novecento in cui si sono laureati, ai ministeriali e loro famiglie, tutti convinti del valore dei più «recenti studi».
Un altro atteggiamento, molto più depresso e per questo debole, è quello dei ricercatori che non credono nella ricerca, che accettano di essere vittime delle multinazionali, delle sovvenzioni dello Stato e delle imposizioni della moda. Costoro dicono che la ricerca scientifica oggi è in crisi perché non riesce a stabilire verità che abbiano validità apodittica; enunciano con balbettante timore alcune teorie, ma Stato, Chiesa, femministe, industrie e movimenti impongono loro la cautela; guardinghi trasmettono le loro comunicazioni quasi in codice, pubblicate in libelli indegni. La scienza dovrebbe sempre avere un atteggiamento di cautela; qui sta la sua forza e la sua grandezza; ma sarebbe certo bene non avesse troppi timori reverenziali verso i poteri esterni; poiché né le chiese delle verità assolute, né lo stato prepotente, né il femminismo ottuso, né l’ignoranza movimentistica potranno mai indicare a chicchessia la giusta strada. Se gli scienziati non fossero eccessivamente vili e sottomessi a questi poteri, sarebbero il sale del mondo, capaci davvero di proseguire l’antico discorso della scienza di Galilei e di Pasteur. La scienza ha oggi al suo servizio troppo pochi uomini coraggiosi che, pur sapendo di essere prigionieri della multinazionali, dello stato, delle chiese, delle femministe e del movimento, si sforzino per quanto possibile di dire quello che pensano. Ma chi deve sostenere il costo di questa ricerca? Da sempre è stata la domanda fondamentale. Come è possibile lavorare, ricercare, studiare gratuitamente? I laboratori costano, le case editrici non pubblicano scritti di chi non sia servo o barone in qualche università. Allora bisogna gaiamente prostituirsi. Perciò gli scienziati, ancor più degli artisti, sono costretti a manipolare le loro ricerche e indirizzarle verso obiettivi imposti che siano redditizi per l’uno o per l’altro dei clienti.

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In questi ultimi anni i ricercatori stanno tentando di dare una descrizione sufficientemente uniforme, almeno per l’area culturale dell’occidente, del disagio mentale ed anche stanno tentandone un uniforme approccio terapeutico; ma il risultato più rimarchevole è quello di una confusione ancora maggiore che nel passato, poiché ogni scuola, ogni indirizzo ed ogni singolo ricercatore, pur affermando di richiamarsi agli altri, propone di fatto, ex-novo, la propria nosografia. Le case farmaceutiche, più o meno basandosi sulle analisi ambigue e imprecise, se non addirittura demenziali, di questo o quel gruppo di ricerca, mettono a punto preparazioni di sostanze chimiche che spesso hanno una loro efficacia nel trattamento dei disturbi psichici, anche se è un’efficacia tutta basata sull’inibizione dei sintomi.
Il che risponde non tanto alle esigenze degli scienziati quanto appaga il bisogno di un controllo immediato dei pazienti. Dal momento che i terapeuti non dispongono di un metodo diagnostico, né di un criterio descrittivo e non hanno moduli terapeutici di riferimento, ma soltanto un elenco di nomi di farmaci, accade che molto spesso i pazienti gestiscano tanto il farmaco quanto il medico. Fanno ricorso al farmaco prescritto quando e se lo ritengono opportuno, secondo una posologia di loro gradimento, ne assumono altri che nessuno ha loro ordinato, magari perché ne hanno sentito fare l’elogio da qualcuno che ne ha sentito indirettamente parlare. Con astuzia prodigiosa si destreggiano fra gocce e pillole, ottenendo persino il risultato, talvolta, di sentirsi meglio. Quando poi crollano definitivamente giungono al ricovero. Tutto questo sotto l’impotente sguardo dei terapeuti. Dove però è oggi possibile ricoverarsi quando il disturbo non permette più una vita autonoma?
Ai nostri giorni la barbarie degli antichi manicomi è stata, almeno nominalmente e parzialmente, abolita; anche se le cliniche private ne perpetuano il modello. Bisogna ammettere che senza di queste l’abolizione degli ospedali psichiatrici avrebbe provocato il collasso, esistenziale e sociale di individui e nuclei famigliari. Il problema della gestione e cura di chi non sia più capace di vivere nel contesto sociale e minacci di distruggere la tranquillità e di attentare all’incolumità della famiglia e del gruppo è quanto mai delicato. Nessuno accetta la tutela di altri, specie se imposta, però chi non è in grado di badare a se stesso per un handicap fisico o psichico ha il diritto di essere assistito. La comunità, i privati, gli umanitaristi, gli elemosinieri, quali che siano le loro caratteristiche, sono espressioni di assistenza alle quali oggi la società fa ricorso. Non esiste, credo, la forma di ricovero e assistenza perfetta; ma è vero che questo dovere sociale deve potersi realizzare su basi concrete, non solo volontaristiche, sufficientemente finanziate dal danaro pubblico.

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I ricercatori e gli studiosi hanno tentato, come dicevo, di dare una descrizione uniforme del disagio mentale, senza riuscire però a fornire nessuna indicazione precisa alle «fabbriche» e sottolineo fabbriche che producono psicofarmaci. Il disastro è oggi assoluto poiché le case farmaceutiche operano in base a criteri solo economici, benché riescano talvolta a produrre medicine capaci di intervenire su quei sintomi che la ricerca più confusionaria indica come patologici. Le sostanze chimiche, si sa, possono infatti inibire od eccitare i comportamenti dell’uomo e dell’animale. Risulta quindi che solo le case farmaceutiche incidono realmente sulla terapia del disturbo mentale. Ciò è desolante, non perché non sia da rispettare un’industria così fondamentale, ma perché si conoscono i metodi della propaganda farmaceutica, attuata da quella specie di commessi viaggiatori che girano convincendo psichiatri e neurologi della bontà dell’ultima pilloletta messa in commercio. Trovano quasi sempre interlocutori impreparati e persuadibili con facilità, disponibili quindi a farsi i primi tramiti di un circuito di diffusione che si ingigantirà al di fuori di ogni altro controllo. Può essere un tale sistema ritenuto di una qualche validità scientifica?

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Fra Otto e Novecento si affermò una classificazione del disagio mentale secondo due parametri fondamentali: l) la psicosi affettiva maniaco-depressiva, caratterizzata da un andamento ciclico in cui ad un episodio maniacale ne succede uno depressivo; 2) la cosiddetta dementia praecox o schizofrenia, caratterizzata da un degrado continuo della personalità, quasi sempre insorgente in giovane età.
Kraepelin alla fine dell’Ottocento, prima è chiamò con il nome di dementia praecox tre malattie che egli riteneva distinte: catatonia, ebefrenia e dementia paranoides; poi le considerò un’unica malattia di origine organica; ma, nel 1913, poiché i conti non gli tornavano, introdusse accanto alle prime tre sottoclassi una quarta definizione: dementia simplex, anch’essa rientrante nella più vasta classificazione di dementia praecox. È chiaro che con questo metodo si possono introdurre nuove sottoclassi, all’infinito. Bleuler, senza nessuna ragione o utilità preferì sostituire al termine dementia praecox quello di «schizofrenia», descrivendo questa nuova patologia in modo confusissimo e sovrapponendovi anche la psicosi ciclica. Jaspers nella sua Psicopatologia generale del 1913 definì il comportamento e il linguaggio alienati come «incomprensibili». Questa è una parola rivelatrice: il suo trattato è totalmente incomprensibile ed in utilizzabile dal punto di vista nosografico, come può verificare chiunque abbia voglia di leggerlo. Giungendo ai nostri giorni, dopo gli anni settanta, alcuni gruppi di studiosi, hanno raccolto sotto varie sigle: RDC di Spitzer, CATEGO di Wing, Cooper e Sartorius, DSM III dell’American Psychiatric Association, ecc. una innumerevole quantità di sintomi, affastellati senza criterio, che si contraddicono spesso persino all’interno dello stesso sistema. In realtà sono catalogazioni che si esprimono in una «insalata di parole» non dissimile dalla confusione delirante della follia.

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In campo psichiatrico, o più generalmente psicologico, la confusione è dunque molta. Riconosco che c’è la stessa confusione anche negli altri campi della medicina e della scienza; ma resta però il fatto che la psiche non l’ha ancora conosciuta nessuno e a tutt’oggi non si è in grado di dare una descrizione universalmente accettabile del disagio psichico. Io ritengo che questo fatto sia anche da considerarsi positivamente, poiché l’essere umano non è descrivibile, sia dal punto di vista organico sia mentale, né è interpretabile o diagnosticabile una volta per tutte. I terapeuti dovrebbero rendersi conto che l’essere umano è misterioso e così sarà anche in futuro. L’antico filosofo G.B. Vico diceva che gli uomini sono in grado di comprendere soltanto ciò che fabbricano loro stessi e che perciò il significato dell’universo e dell’esistenza umana sfuggirà loro in eterno; per questo gli studiosi possono soltanto comprendere la storia, costruzione appunto umana. Vico aveva troppi figli ed era costretto a scrivere rincantucciato in un soppa1co ricavato in un bugigattolo di un vicolo napoletano; ma ugualmente trovò il modo di dire una verità incontrovertibile. Se però non fosse stato così disturbato dagli strilli e dai bisogni di tutti quei bambini che lo assediavano, avrebbe anche compreso che non è assolutamente vero che gli uomini fanno la storia, per cui, in realtà, non possono comprendere neanche questa. Dio è dentro, sotto e sopra la storia, ed è incomprensibile e rende incomprensibile all’uomo anche la storia. Gli uomini balbettano nei caffè e le donne pigolano nei mercati: gli uni non sono migliori delle altre e non è vero che la femmina sia in qualche modo migliore del maschio.
Quando mai maschi e femmine saranno capaci di incontrarsi?
Forse non c’è speranza e allora tanto vale rifarsi alla garanzia divina che trascende anche la storia che non è opera umana.

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La descrizione della struttura psichica e del suo disagio è stata messa a punto nel modo più adeguato da Sigmund Freud. Un tempo io ho messo in discussione la distinzione freudiana tra nevrosi e psicosi, ma sebbene ritenga farraginosa e inattuale la sistematizzazione operata dal clinico viennese, tuttavia ora debbo in parte ricredermi: quella fu l’unica distinzione corretta – in quel momento – di due diversi ordini di problemi clinici. Quello che le si oppose infatti fu soltanto un delirio di psichiatri e neurologi. Freud classificò un comportamento «normale» uno «nevrotico» e uno «psicotico». Sarebbe troppo facile attaccarlo sul concetto di normalità: chi è normale? È normale chi si adegua alle regole della società in cui è nato; o è normale chi secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità è classificato come tale?
È normale però anche chi si rifiuta di accettare queste regole e si rapporta al mondo esterno secondo i suoi propri principi; per cui deriva che la normalità è indefinibile; quindi lo è anche la condizione di anormalità. Qualche tempo fa venne da me un individuo, piccolo, viscido, brutto e sporco che mi disse di essere perseguitato dalla moglie e dalla madre le quali mettevano nei suoi cibi chissà quali sostanze venefiche. Si sentiva in rapporto diretto col buon Dio che gli mandava gli «spiriti» che gli consigliavano cosa mangiare e cosa rifiutare, tanto che si trovava in uno stato di denutrizione piuttosto marcato. A volte, seduto davanti alla finestra guardava il cielo e a chi gli domandava cosa vedesse rispondeva di vedere Dio. Provai a fargli notare che non c’era bisogno di cercare Dio nel cielo, poiché la divinità si rivolgeva direttamente a lui; la cosa lo rese perplesso per questa mancanza di logicità di cui solo allora si rendeva conto con sorpresa. I pazzi non sono logici, capiscono poco Dio.
Quell’uomo era diagnosticabile come schizofrenico, per questo lo avevano subissato di Serenase e anti-parkinsoniani; però, quando cadeva in depressioni troppo profonde, contrattaccavano con antidepressivi che lo portavano ad impulsi violentemente suicidi. Come dire: calmarlo, ma non troppo.
Gli diedi ascolto e mi parlò di un Dio squallidamente gastroenterico; ne provai repulsione, ma forse si trattava di una mia inammissibile debolezza: perché il «buco del culo» non dovrebbe appartenere a Dio?
Non riuscivo però, malgrado tentassi, a farlo parlare anche d’altro. Non aveva nessuna voglia di spostarsi dal suo «buco del culo»: non amava le stelle, odiava la moglie e la madre. Gli facevo notare che se Dio era nel «buco del culo» poteva anche essere nella moglie, nella madre e nelle stelle. Ebbi la percezione che l’odio è uno dei significati della follia.

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Da anni lavoro con persone ritenute folli e molte di esse anch’io le ritengo tali, perché hanno tentato di chiudere ogni rapporto col mondo. Però spero di avere il coraggio terapeutico di riconoscere che non so che cosa sia la follia; ma intuisco cosa provano gli uomini e perciò ho scelto di lavorare con loro, di riferirmi a loro, di star loro vicino, di discutere e di scontrarmi con le loro incomprensibili, e allo stesso tempo comprensibilissime, opinioni. La follia è la tristezza della vita, la sconfitta; soprattutto è la cattiveria. Prima ho sbagliato quando ho detto che il disagio mentale grave è frutto di chiusura al mondo. Questa è la caratteristica più evidente e forse più profonda, ma è contraddetta da una spasmodica tensione verso la comunicazione: con Dio, con gli altri, anche con gli oggetti, magari percepiti come persecutori. Ne sono segnali le voci, il brusio continuo, le accuse che sorgono dall’interno e vengono dall’esterno, causando aggressività, fuga o il ripiegamento in una depressione vicina alla catatonia (e sarebbe interessante analizzare le ragioni per cui gli psichiatri non diagnosticano quasi più la catatonia). Si dice che la follia catatonica grave oggi sia quasi scomparsa anche per l’uso ormai consolidato di alcuni psicofarmaci e delle terapie elettroconvulsive, non so quanto sia vero; so però che quando i catatonici riescono ad uscire dal loro rigido silenzio, sono così carichi di richieste di aiuto che capisco quanto denso di significati e poco inerte doveva essere la loro precedente immobilità. Anche questo è però solo in apparenza un atteggiamento di rinuncia, in realtà nasconde la mostruosa carica di aggressività, di chi giunge ad inscenare una parodia di morte capace di suscitare il terrore negli altri.
Il folle si esibisce quasi sempre davanti a una miriade di spettatori che talvolta sono i suoi fantasmi, ma che anche sono i suoi famigliari, gli amici, i terapeuti coi quali ha instaurato rapporti distorti e profondamente sadici. A questo esibizionismo si aggiunge un comportamento violento ed aggressivo, un desiderio di distruggere, di far soffrire, di disturbare; una capacità di aggredire e provocare con compiaciuto gusto l’aggressione altrui. Ovviamente tutto ciò non può giustificare neppure in minima parte le barbariche torture degli antichi manicomi, non ancora del tutto scomparse nelle moderne istituzioni, per quanto sembrino inevitabili. Le catene da cui la terapia morale di Pinel aveva liberato i ricoverati erano forse meno distruttive dell’abbandono al gioco di massacro attuale tra malati e persone circostanti, lasciati alla loro lotta, senza mediazioni e senza tutele, perché non si è saputo proporre una vera alternativa all’istituzione totale, che si è giustamente voluta abolire.
Non solo i folli hanno però diritti, li hanno anche gli altri; quali sono oggi, per la società, gli strumenti di difesa?
È utopistico e semplicistico rispondere: l’amore; perché l’amore può essere salvifico solo quando è un reale atteggiamento di fondo che va verso tutti gli altri, ed è oggi merce introvabile. La pura e semplice commiserazione che si ritrova invece a buon mercato non serve a nulla, anzi semplicemente fa alzare il livello delle richieste, tanto che subito ci si rende conto che ciò che si è disposti a dare, non coincide con ciò che viene chiesto. È necessario cercare di capire, saper agire con efficacia, essere solidali coi singoli e col gruppo sociale.

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Come ho già detto, le cause delle più gravi forme di follia non sono ancora state identificate ed è poco probabile che lo siano in breve termine. Le cause genetico-ereditarie, quelle sociali o quelle per intossicazione da sostanze, si intrecciano spesso creando un groviglio praticamente indistricabile. La follia è un’esperienza che si viene costruendo, è una situazione che anche gli altri: famigliari, amici, società, costruiscono col malato; non si diventa folli da soli, ci possono essere tantissime condizioni che predispongono e facilitano il passo verso la follia, ed è impossibile determinare quali siano gli elementi che pesano maggiormente; non c’è dubbio però, che la persona che fugge nel delirio ha imparato dal mondo la cattiveria e ne ha subito il rifiuto, scegliendo la fuga nel narcisismo e nell’aggressività distruttiva. Questo gioco crudele è un carosello senza inizio e senza fine e non si può facilmente spezzare. Quante parole sono state dette sulla follia, ma pochissime hanno avuto un vero significato di utilità. Troppe classificazioni distolgono lo psichiatra e lo psicologo anche da quel buon senso di cui lo ha fornito la personale esperienza, talvolta efficace, ma per lo più impotente.