60 – Febbraio ‘90

febbraio , 1990

Siamo pienamente d’accordo sul fatto che l’argomento della tossicodipendenza e qualche altro, particolarmente aggravato in questi giorni, non siano cosa da ridere; anche se pure noi, come dicono Fo e Rame «non ci piangiamo addosso». Gli è però che nello spettacolo Il Papa e la strega, scritto, diretto ed interpretato da Dario Fo, di tali argomenti così importanti non si parla affatto; o meglio: diventano semplicemente il e pretesto per una serie di gags e battutine, per lo più volgarissime, costruite con lo stampino. Trapela, al di là delle battute, un odio furibondo per i bambini e per i drogati, che sono, a ben guardare, piuttosto insultati da un pizzico di pietismo demagogico. Questo testo non è degno di suscitare neppure un poco di impegno polemico; vogliamo soltanto sottolineare che anche noi siamo d’accordo sul fatto che, forse, la liberalizzazione assoluta della droga è l’unico passo sensato che ancora si potrebbe compiere per cercare di limitare il disastro che ci sta travolgendo.
Come si è lontani dagli avanspettacoli di un tempo, nei quali la satira sociale e politica erano veramente incisive e i vari regimi dovevano veramente tremare per le provocazioni che venivano lanciate da quelle ribalte. Ormai quello di Fo è un umorismo piccolo piccolo per borghesi altrettanto piccoli. La messa in scena è risultata quanto mai sciatta, priva di fantasia e di umorismo; inoltre lo spettacolo è disturbato da alcune orribili musiche, con la melodia inventata da Dario Fo, incomprensibilmente orchestrata da Davide Rota. La prestazione di tutti gli attori è stata assolutamente anodina; ovviamente qualcuno è andato meglio, qualcun altro peggio; ma tutti ad un livello è medio-basso. Franca Rame si è prodigata, anche troppo, nei suoi moduli recitativi ormai centenari; riuscendo con quella sgangherata dizione lombarda, qualche volta, ad ottenere effettini od effettacci e nulla più. La recitazione di Dario Fo ha invece perso ogni smalto: il modulo iniziale, tra lo strillo e lo sghignazzo rimane invariato per tutto lo spettacolo; per di più prendeva continue papere e non ricordava le battute.
Tutto sommato, le risate del pubblico avevano la stessa sonorità e le stesse motivazioni di quelle registrate in televisione ai tempi del compianto Alighiero Noschese: di tollerato umorismo di regime.

L’Associazione Culturale Beat 72 ha previsto per la stagione 89/90 un ciclo I Poeti scrivono per il Teatro. Il secondo testo messo in scena è Salomè di Dario Bellezza.
Primo è stato Valentino Zeichen e seguiranno nell’ordine: Giuseppe Conte, Giorgio Manacorda, Bianca Maria Frabotta e Patrizia Valduga.
Dario Bellezza ha deciso di scrivere una pochade: con tutte le caratteristiche canoniche del teatro boulevardier, folta di parodie abbastanza argute di grossi autori come Fassbinder e il Wim Wenders di Il cielo sopra Berlino; proseguendo, come è d’uso in questo tipo di teatro leggero, fino a sfiorare il grottesco, attraverso situazioni iper-lugubri e un po’ raccapriccianti; ci sono insistiti giochi di parole e spiritosamente l’autore prende in giro anche se stesso facendosi «il verso». Anche la scelta di mettere in mutande la Salomè di Wilde, trasportando la vicenda ai nostri giorni, è abbastanza spiritosa: Erode risulta così essere una specie di pappone da metropolitana, Erodiade una stralunata creatura sottratta a un dramma di Tennesse Williams, Salomè una prostituta tragica da marciapiedi newyorkesi e Giovanni un drogato con furori mistici.
Gli attori sono stati tutti molto bravi nel recitare con drammatica serietà. Sembrava che prendessero sul serio le loro battute, con effetto davvero esilarante: Massimo Fedele, anche grazie ad uno spiritoso vezzo di pronuncia nelle esse è stato un crudele, angosciato e sempre infoiato Erode. Nunzia Greco ha dato vita ad una Erodiade cinica, appassionata e disperata. Maria Libera Ranaudo ha reso il suo personaggio di Salomè una creatura ora tenerissima, ora crudele come una belva. Enzo Saturni ha in interpretato ottimamente questa moderna versione del Battista, con variatissima gamma di gesti, di urla, di movimenti espressivi e di accenti.
La regia di Renato Giordano è risultata sempre attenta e precisa e – a parte un eccesso di grida, che sarebbe stato meglio in alcuni punti smorzare – ha guidato i suoi personaggi con sincronica precisione, in un vicolo angusto, umido di pioggia e di orina, dovutamente nebbioso e illuminato a tratti con gran decisione da luci azzurre, bianche e rosse, curando anche le musiche di repertorio, che accentuavano vieppiù l’atmosfera un po’ old fashion del tutto.

Mario Moretti è un autore di teatro dalla reputazione ormai ben consolidata e la sua scrittura, professionalmente valida e poeticamente efficace, ha dato molto al teatro italiano. Questa Maledetta Carmen, che segue a breve distanza di tempo il Raccontare Nannarella di cui conserva qualche traccia, è l’ottimo frutto della coppia formata dall’autore e dalla sua straordinaria attrice Anna Mazzamauro, arricchito dall’apporto fondamentale di un gruppo di ottimi musicisti, tra compositori ed esecutori.
Il testo accorpa, sovrappone e scompone momenti lirici, stralunati, drammatici ed umoristici e se Moretti avesse osato un altro po’ avrebbe potuto costituire la base di uno spettacolo anche più incisivo di quello ottenuto. Però quel che mancava al testo è stato eccellentemente fornito dalla prestazione di Anna Mazzamauro, auto-ironica, grottesca e disperata: Carmen è ciò che ogni donna (e anche qualche uomo) vorrebbe essere, ma non riuscirà mai ad essere. Le donne, si sa, a dispetto delle eroine del teatro, troppo spesso infatti sono prigioniere della loro millenaria e rancida cattiveria mortifera; non per nulla è stato un maschio, P. Merimée, ad inventare il personaggio di Carmen ed un altro maschio, G. Bizet, a rivestirlo di una delle più belle musiche che siano mai state scritte. Da queste lezioni, le donne, ed anche la Mazzamauro, dovrebbero imparare un po’ di umiltà, distruggendo per sempre l’ideologia borghese del vetero-femminismo ed accettando i loro difetti e i loro pregi. Per fortuna la nostra è un’attrice coi fiocchi e riesce a costruire uno spettacolo delicato, sottile ed umoristico, facendo perdonare persino alcune stupidaggini pamphlettistiche del testo; così la serata scorre tra gradevoli emozioni. Ma allora, è una donna capace di dare levità ed ironia alle parole del maschio? Crediamo proprio di sì!
L’intervento del regista Lorenzo Salveti è stato determinante nel cementare il tutto con compattezza e scorrevolezza, il risultato è stato di grande efficacia emotiva in molti punti, e soprattutto nel finale, con la vestizione di Carmen in rosso.
Molto adeguato il contributo di Gianni De Simeis (Don José), bamboccio e maschio in sordina nei giusti momenti.
Vladimiro Marcianò alla tastiera, Nicola Puglielli alla chitarra e Valerio Serangeli al contrabbasso sono stati anche scenicamente ottimi e musicalmente hanno valorizzato le belle musiche di Paolo Gatti e Alfonso Zenga che, tra Bizet e Chopin, hanno costruito atmosfere sonore sempre appropriatissime.
Le scene erano di Bruno Buonincontri e i costumi di Angelo Motta.
Ci rimane la curiosità di sapere l’origine della bellissima canzone finale, cantata dalla Mazzamauro in modo superlativo, e quale collegamento abbia, nell’intenzione degli autori, con Carmen.