60 – Febbraio ‘90

febbraio , 1990

L’arte è eterna e si snoda lungo i secoli, articolandosi in mode e tendenze. Elucubrare sulle differenze di stile, progressi e regressi è molto spesso sterile; non è detto che esperienze artistiche validissime non siano cadute nel buio della dimenticanza o che la storia sia sempre giustiziera dei valori estetici e non. Ciò premesso noi abbiamo avuto una strana sensazione di sgradevolezza nel vedere la mostra intitolata Trasparenze alla nuova galleria «Pont des Arts» di vicolo dell’Angeletto. Ci è venuto di commentare malinconicamente: «Ma siamo ancora fermi qui?» Poi però abbiamo pensato che è giusto che gli artisti provino e riprovino, si imitino e tentino la parodia gli uni degli altri; non è detto che ogni opera d’arte debba avere lo stesso risultato della Venere dormiente di Giorgione; ma quando unita ad una desolante mancanza d’ingegno si trova un’assoluta incapacità di usare «artigianalmente» le mani, cosa si deve pensare? Il bilancio è negativo e si rimpiange l’inutile perdita di tempo propria e di chi si è cimentato in tanto insignificanti «opre».
I nove artisti qui riuniti in nome della trasparenza, poiché trasparenze tale è il titolo della mostra curata da Silvana Sinisi, sono Luciano Bartolini, caratterizzato, dice la curatrice, da «una costante tendenza verso un processo di smaterializzazione e stratificazione delle emergenze visive». Nelle opere di Elisa Montessori c’è «una trama accidentata di segni e di macchie di colore lasciate in sospensione sulla tela». Antonia di Giulio «sembra prendere asceticamente partito … privilegiando una pittura quasi monocroma, governata dalla nota dominante del bianco». Lucia Romualdi è «inserita a pieno titolo nella linea dell’astrazione povera». Giulia Napoleone «tende ad ingabbiare le fragili cromie dell’acquerello in una rigorosa griglia geometrica». Gian Domenico Sozzi è autore di un’opera che «sfugge ad una definizione troppo rigida e bloccata per trasformarsi in uno schermo di eventi fluidi e transitori». Hideltoshi Nagasawa intende «il vuoto allo stesso modo del pieno». Antonio Trotta dà «vita ad una felice invenzione poetica, fissando in forme inalterabili e definite l’effimera freschezza di gocce di rugiada». Michele Parisi esibisce oggetti «fuori cornice nella loro concretezza fisica e spaziale …la diafana trasparenza del bicchiere esibito in primo piano esalta la funzione penetrante della vista, riunificando per trasparenza il vicino e il lontano, lo sfondo e la superficie.» Abbiamo scelto di commentare con le parole del catalogo perché noi siamo rimasti senza parole di fronte a tanto (trasparente) candore!

La data Millenovecentosessanta è un esile filo, un pretesto per collegare opere di autori diversi. Un po’ più consistente questo filo diventa quando queste opere si richiamano ad una comune «matrice ispirativa»; comunque rimane valida l’idea di metterle insieme in una mostra. Non sappiamo invece se la superficialità ed il qualunquismo ideologico possano costituire il materiale aggregante di qualcosa; ma può darsi di sì. Nel 1960 alcuni signori e signore di trent’anni fa si divertivano anche così, ci insegna la sfilata allestita nella galleria di Netta Vespignani in via del Babuino 89: Franco Angeli, Enrico Castellani, Piero Dorazio, Tano Festa, Giosetta Fioroni, Jannis Kounellis, Francesco Lo Savio, Piero Manzoni, Fabio Mauri, Giulio Paolini, Mimmo Rotella, Salvatore Scarpitta, Mario Schifano e Giuseppe Uncini avevano allora la giustificazione di rappresentare un’avanguardia che storicamente, e soprattutto fuori d’Italia, dove la corrente fu solo di epigoni, ha avuto un significato grande quanto terribile.
Sono passati trent’anni e molti di questi signori e signore continuano a fare le stesse cose di allora; ma ogni giustificazione è venuta meno e la presunta coerenza potrebbe essere il segnale di un monoideismo sterile e di un attaccamento reazionario ad un momento in cui la confusione generale offriva un alibi a chiunque lo cercasse, permettendo travestimenti d’artista che oggi non ingannano più molti. L’alibi dello sperimentalismo permise in quel periodo a troppi di imporre presuntuosamente e con arrogante violenza tic e manie personali come prodotti d’artista. Senza l’ironia, colta e consapevole, di dada e del surrealismo, l’incapacità pratica e il vuoto culturale dominarono la scena artistica ed inventarono un mercato. Della malafede di molti e della buonafede di pochi la critica e lo stesso mercato diedero ragione molto presto. Solo loro: gli autori e i propugnatori di tanto vuoto sono rimasti stecchiti nei loro moduli inespressivi, paghi magari di essere rivisitati come reperti di una preistoria senza luce.

Randall Morgan, che espone alla galleria Il Gabbiano, di via della Frezza, è un americano settantenne che vive e lavora nella penisola sorrentina da una quarantina d’anni.
La sua pittura non è particolarmente originale e neppure molto emozionante. Guardando le sue nature morte, lucide, scintillanti e patinate si ha molto netta l’impressione del déja vu; se però ci si sofferma con cura ad osservare, si percepisce il dipanarsi unitario di una riflessione sulla luce. È la luce che dà significato agli elementi del quadro; che giustifica la scelta dei soggetti: fiori e frutta coloratissimi; ma altrove gioco di traslucidi bianchi ed azzurri, che, per così dire, smaterializzano la realtà fin troppo concreta delle cipolle, rese con vitrea purezza, al pari del bianco dei vasi di porcellana, le cui forme si articolano con morbidità voluttuosa, aumentata dall’articolarsi delle ombre.
La tentazione di ridurre Morgan all’asetticità della riproduzione fotografica viene poi vanificata di fronte al cavallino bianco di ceramica, presenza improvvisa e non realistica, non solo perché introduce un soggetto incongruo nello schema predisposto delle «nature morte», ma perché lo riporta in una dimensione che non è di oggetto e neppure di animale; velato dal ricordo di monumenti equestri e di antichi giocattoli.
La figura umana così marcatamente assente in tutte le altre tele, appare appena come citazione fugace nella geisha dipinta sul ventaglio; insolito fiore per uno dei tanti vasi.
Alcune trasparenze esasperate, l’attenzione iper-realistica per i particolari richiamano a qualcosa che ricorda un sommesso brusio nascosto dietro quelle forme e quei colori; quasi verrebbe voglia di tendere più l’orecchio che aguzzare lo sguardo. È quella di Randall Morgan una pittura molto ambigua nella sua apparente solare chiarezza; ma la sua ambiguità si nasconde lontano, come dietro la tela.