Archivio di dicembre 1989

58 – Dicembre ‘89

venerdì, 1 dicembre 1989

Giuseppe Verdi fu un genio del teatro e della musica allo stesso tempo; in effetti, a parte la possente e teatralissima Messa di Requiem, le sue composizioni strumentali o liederistiche sono assolutamente risibili, volgari, sciatte, piene di errori di armonia e di orchestrazione; il suo quasi famoso Quartetto in Mi minore è addirittura una buffonata. Eppure, quando, lentamente, nella sala si fa il buio, ed iniziano le prime note di una ouverture o di una sinfonia teatrale, non si può che rimanere incantati e col fiato sospeso.

Persino le sue opere musicalmente più sgangherate e mal orchestrate riescono a reggere sulla scena, come nel caso, per fare qualche esempio, della Giovanna d’Arco o del Simon Boccanegra. Nonostante la baracconeria dei libretti, il genio teatrale di Verdi, talvolta violento coi poveri drammaturghi, riusciva ad imporre una scena, un’aria o una cabaletta, sebbene accompagnate dal solito zum-pa-pa, che, tutto sommato, hanno presa sugli spettatori. Cattivo gusto nel compositore emiliano ce n’è tantissimo: se si analizzano molte sue opere con la lente di ingrandimento, esse diventano insopportabili, piene di sentimentalismi, melodiuzze da banda di paese e orchestrazioni sgrammaticate; però, sempre, non si sa di dove, sbuca la mano del genio: un arpeggio in minore, il possente Si bemolle-La-Sol di un tenore catturano l’attenzione e per un istante ci si sente completamente coinvolti, anche se poi, ripensandoci verrebbe da dire: «Che stupidaggine».

Così descritto Verdi sembrerebbe soltanto un mistificatore e un prestigiatore; ma come spiegare allora i vertici di somma bellezza della grande trilogia popolare (Rigoletto, Il Trovatore e La Traviata) o le completamente diverse eppure coerentissime opere della maturità come Un ballo in maschera, o Falstaff? Nelle prime non c’è sciatteria librettistica e accompagnamento di chitarra che tengano: la drammaticità e la potenza teatrali e musicali sono indiscutibili. Nelle opere della vecchiaia invece, come per miracolo, la strumentazione cambia (è banale dire che si affina): ogni strumento ha la sua collocazione perfetta e si abbarbica allo splendore delle melodie con eleganza sbalorditiva.

Tutto questo è sommamente vero in Falstaff che il «Grande Vecchio» nel 1893 dette alle scene, al di fuori di ogni polemica tra verdiani e wagneriani. Opera sorridente e tragica allo stesso tempo, nella quale si narra del vecchio cavaliere shakespeariano, ubriacone e dongiovanni, che rivive una sua ennesima avventura. L’orchestra equilibratissima non ha mai solo funzione di accompagnamento, ma dialoga coi cantanti, infatti è falso affermare che nessuno mai si esprime attraverso una «aria»: tutto il Falstaff è una sola, irresistibile aria. La burla e la disperazione, l’illusione e l’addio alla vita sono così intrecciati che non si possono districare e ben lo si coglie quando, nel finale, con insistenza, l’autore fa ripetere ossessivamente quel motto: «Tutti gabbati!» Una tal grandezza di concezione è stata resa nell’allestimento del Teatro dell’Opera di Roma, nella serata inaugurale della stagione, con dubbi risultati.

Innanzitutto la regia, le scene e i costumi di Beni Montresor sono di una inadeguatezza e di una bruttezza inqualificabili; noi consideriamo il regista veneto un sopportabile scenografo e costumista di operine barocche; però alle prese con un’iniziativa del genere, ci pare abbia dimenticato completamente l’italiano, non sappiamo se per la sua permanenza prolungata in America. Soluzioni sceniche così stupide possono venire solo da chi non sia stato capace di capire nulla del libretto, e non solo della musica (ma, si sa, il malvezzo di affidare le regie d’opera a persone incompetenti musicalmente è vizio non solo italiano). Assolutamente idiota è la trovata di ambientare il Falstaff nell’epoca in cui è stato scritto (alla fine dell’Ottocento). Col risibile pretesto che Verdi si era identificato in Falstaff si è realizzata invece una specie di identificazione di quest’ultimo in Verdi. Le farraginosissime scene e gli sciatti costumi sono di intollerabile bruttezza; se si dovessero raccontare aneddoti per far ridere ce ne sarebbero centinaia; facciamo solo qualche esempio: Bardolfo e Pistola arrivano in scena in bicicletta; ma il libretto li vorrebbe nascosti in fondo alla stanza a spiare, per cui si ascolta la battuta di Falstaff che dice «Escite!» a due che stanno pedalando giù in strada; poi ancora, malgrado il regista voglia far svolgere l’azione nella «Valle Padana fine ‘800», Falstaff, dopo il tuffo nel fiume, bevendo un punch per riscaldarsi dice: «Versiamo un po’ di vino nell’acqua del Tamigi»!

Ancora procedendo è tutto un susseguirsi di pannocchie che spuntano là dove dovrebbero esserci querce; fumanti ciminiere che salgono e scendono all’orizzonte; processioni notturne di biancovestite comunicande un po’ macabre in luogo dei folletti e delle fate nel finale.

Bisogna nettamente distinguere il gruppo dei cantanti maschi da quello delle Signore Cantanti. Juan Pons (Falstaff) ci ha molto delusi, dal momento che ha cantato in modo sciatto e afono, incapace di cogliere le note più basse del suo registro.

Certo, qualche trovata del grand’uomo di scena l’ha saputa escogitare; ma si sentiva che scaturiva dal più ovvio bagaglio di repertorio. Il suo Falstaff non è mai stato davvero drammatico, aggressivo o ironico, ma sempre e solo banale. Nonostante ciò, gli va riconosciuto il merito di essersi saputo amalgamare con i suoi compagni.

Ottimo Bruno Pola (Ford) dalla bella voce, rotonda e precisa, anche se, come nel «duetto» con Falstaff che chiude la prima parte del secondo atto, eccede in drammaticità.

Misurato e calibrato Pietro Ballo (Fenton). Preciso e corretto Mario Bolognesi (Cajus).

Veramente eccezionale la coppia dei seguaci di Falstaff interpretata da Sergio Bertocchi (Bardolfo) e Mario Luperi (Pistola), i quali pur senza mai stridere con la recitazione e la vocalità degli altri, sono stati gli unici ad entrare realmente nello spirito verdiano per merito della loro intonazione precisa e della recitazione espressiva.

Assolutamente deludente invece la prestazione dell’intero cast femminile: Ilona Tokody, Adelina Scarabelli, Carmen Gonzalez e Francesca Franci, anziché le «allegre comari di Windsor» sembravano le tristi, o ancor più, le tragiche megere di Valenza Po.

Peggio di tutte ha fatto la Gonzalez, con la voce spaccata in due: da baritono nelle note basse e da sopranino leggero in quelle alte.

Secondo noi è ingiudicabile la direzione di Evelino Pidò perché l’orchestra pareva letteralmente dormire: le note erano tutte almeno raddoppiate di valore, e per di più scale melense, intonazioni approssimative, affannoso arrancare nel tentativo di seguire i già lentissimi cantanti.

Quando un’orchestra sembra suonare ad orecchio, come si può pretendere di esprimere un parere sul direttore?

58 – Dicembre ‘89

venerdì, 1 dicembre 1989

Non sappiamo se ci siano tanti modi di essere razzisti oppure sia sempre lo stesso modo; siamo però certi che il film del Georgiano Otar Iosseliani Un incendio visto da lontano, sia razzista. La favoletta hollywoodiana che narra di un villaggio del Senegal dato alle fiamme come contributo all’avanzata del progresso del mondo meccanizzato, non solo è un film stupido, antropologicamente inconsistente, ma essenzialmente, appunto, razzista.
Il mito del «buon selvaggio», in questa pellicola adombrato, è riferito ad alcuni personaggi che più che buoni risultano cretini. In un villaggio dove vige un ordinamento sociale pseudo-matriarcale accade una serie di piccoli episodi ovvii e scontati: gelosie, danze della pioggia, un marito pigro, ragazzini petulanti, qualche misterioso rito dal sapore magico, un altro marito che va in cerca della moglie scappata di casa, canti in coro troppo occidentalmente intonati, qualche tam-tam usato nella più vieta chiave di comunicazione telefonica; per di più passa ogni tanto un emblematico autocarro simbolo della «civiltà industriale che distrugge l’antica civiltà».
Alla fine, felici ed imbrogliati, i buoni selvaggi, rifiniti e rivestiti, si trovano a vendere i loro feticci sul marciapiedi della grande città, dandosi appuntamenti per un probabile party serale. Stupida, arida, e senza amore, la vita del villaggio prosegue identica nella nuova città: per i negri, razza inferiore, non c’è speranza. Forse le intenzioni di Iosseliani non erano precisamente queste, ma l’effetto che la sua opera sortisce negli spettatori è quello di far trovare frivola, vacua e satura di valori convenzionali la vita dei «selvaggi». Forse, ripensandoci bene, è meglio vivere nella città, dopo essersi sbarazzati degli antichi idoli.
Sarebbe adesso molto facile assumere da parte nostra un atteggiamento saggiamente paternalistico e dire che il regista non ha colto che alcuni aspetti inessenziali di quella società, perdendo la grande ricchezza e profondità di quegli antichi riti e delle raffinate melopee; ma più scomodamente, preferiamo dire che nelle foreste ci sono villaggi in cui albergano anche la violenza, la brutalità, la sopraffazione e, soprattutto, il conformismo. È persi n troppo ovvio che gli africani non sono esseri inferiori, ma, appunto per questo, non sono neppure migliori. Il film è in lingua originale, con (pochissimi) sottotitoli.

Psicoanalisi contro n. 58 – C’era una volta

venerdì, 1 dicembre 1989

Ho già detto come le parole nascondano più di quanto non disvelino; non voglio con questo sostenere che si parli soltanto per mentire; so bene che qualcosa che si ritiene vero viene esplicitato, talora persino con cruda evidenza. Resta però il fatto che continuamente si tende a «parlar d’altro». Qualche tempo fa rimasi stupito e quasi spaventato dalla constatazione di quanto nei discorsi dei miei pazienti servisse a coprire o addirittura a capovolgere il senso di desideri inesprimibili, di fantasie inconfessabili; tanto che mi venne da domandare a me stesso se non fossi preda di un delirio di tipo paranoide: non mi pareva possibile che davvero potessi capire in modo così chiaro contenuti che le persone in analisi con me non avevano alcuna intenzione di dire neppure a lor stesse. Nessuno può essere sicuro al cento per cento di essere in piena salute mentale, per cui mi parve opportuno sottopormi ad una accurata ed attenta verifica; eppure, nonostante l’autovigilanza assidua, continuavo a trovarmi di fronte a persone che mi davano conferme così lampanti della loro inconsapevolezza che mi convinsi di essere sufficientemente sano e di poter considerare validi i dati che venivo rilevando. Probabilmente la lunga e vasta esperienza di psicoanalista mi aveva davvero scaltrito, mettendomi in mano gli strumenti per capire con una certa facilità le dinamiche psichiche delle persone in rapporto analitico con me. Ma questa conferma, anziché tranquillizzarmi, mi turbò in profondità, poiché mi resi contemporaneamente conto che solo pochissimo di quello che io venivo scoprendo col comune lavoro poteva essere comunicato esplicitamente in analisi.

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Dapprima reagii, rifugiandomi in considerazioni apparentemente sagge, che mi facevano dire a me stesso che la cautela è un elemento fondamentale, che le comunicazioni debbono essere fatte solo nel giusto momento; ma ciò non mi impediva di rendermi conto che c’erano nel mio lavoro scoperte e verità che non avrei mai potuto rivelare a quelle stesse persone che a me s’erano rivolte per avere chiarezza. Lo sconvolgimento che certe verità possono provocare è così grande, infatti, che disturberebbe molto più di quanto possa disturbare l’ignorarle. Mentre solo per alcune di queste verità un giorno sarebbe venuto in cui avremmo potuto insieme affrontarle, per molte altre invece farle venire alla luce avrebbe potuto significare soltanto un gioco di massacro. Per lungo tempo, nonostante stessi piuttosto male davanti a queste considerazioni, cercai di lavorare come se niente fosse, limitandomi a scegliere di volta in volta le realtà da affrontare in base al criterio di utilità ai fini della cura e accettando di tacere su molte cose. Era onesto però che io accettassi di tenere per me rivelazioni così significative? Mi passò per la mente una soluzione: con qualcuna delle persone in analisi con me avrei fatto un contratto che contemplasse, fin dall’inizio, la possibilità di dire tutto quello che risultasse dal comune lavoro; ma mi resi conto subito che anche quelli che mi avrebbero detto di si, lo avrebbero fatto senza nemmeno sospettare l’enormità dell’impegno che entrambi ci andavamo assumendo; una decifrazione troppo chiara e spietata avrebbe comunque rischiato di distruggerli e la prassi burocratica di una contrattazione preliminare non sarebbe comunque bastata a giustificare me. Accantonata quest’ipotesi, avevo continuato il mio lavoro, in compagnia del mio disagio per tutte quelle verità perdute forse per sempre; un malessere che mi accompagnava, costante, fino a farmi dubitare dell’utilità di continuare un mestiere che mi pareva sempre più inutile, compromesso dalla necessità di dover mentire in modo così massiccio. Non mi piaceva l’idea di fare lo psicoanalista in quel modo. Fu soprattutto la crisi di una notte; il mattino seguente avevo ripreso il mio lavoro, in compagnia di un malessere che, seppure affievolito, non è scomparso ancor oggi.

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Malgrado la mia facilità, per natura e per esperienza, di cogliere gli aspetti più nascosti e reconditi dei discorsi che mi vengono rivolti, pure sono abbastanza consapevole del fatto che sia per qualcuno altrettanto facile cogliere le mie inconsce motivazioni, attraverso quello che vado affermando; la cosa mi ha messo talvolta a disagio, ma fondamentalmente non mi dispiace l’ipotesi che chi viene a contatto con me possa capire anche ciò che non dico e addirittura vorrei celare dicendo l’opposto. Ho cercato di spiegarmi questa apparente disinvoltura con un mio esibizionismo di fondo, che mi farebbe provare un enorme e sottile piacere, anche carico di implicazioni sessuali, nel mostrarmi agli altri ancora più nudo di quanto io possa immaginarmi; è questo un sentimento che considero misto di vanità e di infantile ed ingenua fiducia negli altri. D’altro canto sono ancor più convinto, e in ciò c’è poco di ingenuo e modesto, di capire comunque gli altri più di quanto gli altri possano capire me. Io so di avere la capacità di cogliere i contenuti inconsci non solo dei singoli ma anche dei gruppi sociali in mezzo ai quali vengo a trovarmi, in modo piuttosto preciso e approfondito. Pur consapevole di quanto leggermente paranoico sia questo mio atteggiamento, tuttavia credo di essere un poco nel vero. Per evitare di attirarmi l’odio e l’antipatia che si tirano addosso tutti coloro che affermano con convinzione una loro vera o presunta superiorità, dovrei umilmente e falsamente minimizzare; io invece la ribadisco, disposto a concedere ad altri di fare altrettanto nel loro campo specifico, se sono convinti di essere in qualche modo superiori, per natura ed esperienza. Ammetto comunque che ci siano al mondo i manzoniani «venticinque lettori» capaci di capire di me quanto e magari più di quanto io capisca gli altri.

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Quando, molto tempo fa, mi trovavo io stesso sdraiato sul divano, nell’impegnativo ruolo di paziente, ricordo che parlavo tantissimo, mentre il mio analista si limitava a dire solo una parola ogni tanto, con la sua voce un po’ nasale. Non ricordo se le sue fossero parole di verità, anche perché in ogni caso oggi mi trovo ad avere sconfessato molte delle verità di quel tempo. Non so quanto fosse capace di leggere ciò che io con le mie parole cercavo di nascondere ad entrambi. Accanto al divano, su cui ricordo mi era d’obbligo sdraiarmi per precetto psicoanalitico, era posto un inginocchiatoio del Seicento, molto bello; io lo accarezzavo durante le sedute, con la mia mano sinistra passavo sul lampasso vecchio e sbrindellato che ricopriva l’imbottitura, sulla coppia di colonne, una dritta ed una tortile e sentivo, sotto le dita, il legno reso morbido e sontuoso dagli anni, percepivo le minute scalfitture che nei secoli avevano segnato la storia di quel mobile, che immaginavo prima in una chiesa, o in una cappella e poi in una camera da letto. Percorrendo con le dita la colonna dritta pensavo all’organo genitale del mio analista (si pensa sempre alle stesse cose: noi psicoanalisti rischiamo persino la monotonia, ma la colpa non è solo nostra). Come potevo non associare quella materia morbida e dura ad un tempo, che al contatto diveniva quasi viva e calda, al membro virile di quel signore dalla voce nasale e tranquilla, che ogni tanto interloquiva con qualche sentenza? Un giorno ebbi il coraggio di rivelargli quel pensiero nascosto ed egli mi fece notare l’ovvietà del tutto: «Era ovvio» mi disse e quelle due parole mi tornano ancora oggi in mente. Ricordo che sulla colonnina tortile c’era un capitello con due volute, accarezzandola pensavo al Bernini, al mio desiderio di trasferirmi a Roma, dove c’era il ciborio di S. Pietro. Un giorno mi decisi a rivelare anche questa mia altra associazione, mi replicò con un «Ehm». Secondo me quel mugugno significava per lui una sconfitta; ma io lo amavo e lo stimavo per cui gli permettevo anche di perdere ogni tanto.

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Sono venuto a Roma e qui ho costruito la mia scuola psicoanalitica, con fatica e con allegria. Un giorno, mentre passeggiavamo sul lungotevere, Renzo – l’amico di sempre – mi disse: «Lo sai che qui stiamo giocando il tutto per tutto? Si tratta di vincere o di perdere tutto quello che abbiamo.» Era d’autunno e sotto i piedi sentivo il fruscio delle foglie secche; pensai un attimo prima di rispondere: «La psicoanalisi però non mi basta.» Renzo replicò: «Tu giochi sempre alla grande.» Sulle spalle il sole dell’autunno ci accarezzava tiepido, avevamo in mano le borse e ci stavamo recando in palestra. Da allora ho continuato a puntare sempre tutto, vincendo e perdendo, e ancora oggi né Renzo né io sappiamo se la partita è stata vinta. Non so se il mio psicoanalista d’allora avesse capito davvero quello che si nascondeva dietro alle mie parole e ai miei gesti; non so se lui scorgesse tutto quello che io credo di scorgere negli altri; allora non sapevo domandarglielo, anche se lui, da quella persona seria ed onesta qual era, certo si sarebbe rifiutato di rispondermi. Si direbbe che qualcosa non ha funzionato nella mia analisi personale, ma non poteva che essere così; se no sarei rimasto invischiato nella scia tracciata dal mio analista freudiano, continuatore di una tradizione che, secondo me, non deve più essere continuata. Mi pongo ancor oggi la domanda sulla validità di quel lontano lavoro analitico; ovviamente non mi riferisco alla validità «istituzionale» di cui non m’importa, ma alla efficacia e correttezza metodologica di un lavoro da cui ho tratto in seguito un mio modulo operativo. Per essere davvero corretto, avrei dovuto intraprendere per prima cosa un’analisi gindriana, ma prima ancora avrei dovuto formare un analista gindriano al quale rivolgermi. Per non cadere nella trappola del serpente che si mangia la coda, ho ritenuto di avere il diritto di proseguire il mio cammino scientifico, pur consapevole della debolezza, della fragilità e dell’ambiguità di ogni lavoro di fondazione. Purtroppo debbo oggi ammettere che il mio analista non è stato per me veramente un «maestro». Diversamente le cose sono andate in campo musicale dove ho ricevuto l’insegnamento di un Maestro veramente grande: era un omino piccolo, gobbo, dalle lunghe dita sensuali; non conosceva alcunché di psicoanalisi o di psicologia; mi osservava sbalordito quando gli riferivo qualcuno dei miei problemi in quel settore, e mi ripeteva incrollabile: «Questa è una quinta, per moto retto, non è ammissibile!» Da lui capii che ci sono cose che non si devono fare mai, anche se oggi trovo piacevolissimo usare spesso le quinte per moto retto. Puccini, con un gesto d’artista sicuro di sé e provocatorio, fece commentare la scena della nevicata della Bohème da una serie di quinte per moto retto; eppure cent’anni dopo, ancora, il mio Maestro mi proibiva quell’uso. Quelle quinte non avevano nuociuto alla poesia pucciniana ed io stesso della proibizione ritenni quello che credo sia il vero significato, di monito; perché la proibizione ha un suo senso che è assoluto di per sé, anche se possono variare le forme alle quali si applica.
Forse il mio unico maestro di psicoanalisi è stato il mio Maestro di composizione, che è partito dall’armonia ed è arrivato fino alla strumentazione. Talvolta alcuni direttori d’orchestra, nel leggere le partiture delle mie composizioni, rimangono perplessi: vogliono raddoppiare in certi punti, aggiungere quinte altrove, fare qualcosa, perché trovano un passaggio debole, perché un ottavino sbuca troppo, eppure, se solo avessero la voglia di capire perché così è scritto, tutto sembrerebbe loro in regola; ogni tanto, con rassegnazione accetto le loro modifiche, pensando che non hanno avuto abbastanza coraggio, che un po’ meno di viltà gioverebbe a loro e alla musica.

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Non so quindi dire se il mio maestro sulla strada della psicologia dinamica sia stato per me quel terapeuta laureato in psichiatria o il mio insegnante di composizione; credo di dovere di più a quest’ultimo, anche se mi rendo conto di dirlo in un momento in cui provo un profondo senso di sfiducia verso chi si occupa di psichiatria. Questi, che dovrebbero essere scienziati illuminati, mi sembrano oggi, infatti, troppo sicuri nella loro ignoranza: sicurezza ed ignoranza insieme distruggono le potenzialità di qualunque scienza, se chi se ne occupa perde la capacità di ascoltare. Quel mio maestro di musica mi trasmetteva una pratica artistica che era stata teorizzata fin dai tempi di Rameau; ma poi si curvava interessato e sinceramente perplesso su ogni mio tentativo di comporre modificando quelle regole; sempre mi interrogava sul perché delle mie scelte ed ascoltava le ragioni che io mettevo avanti in difesa di una ricerca che mirava anche a far progredire il discorso musicale. Da lui ho imparato ad osare, anche ad osare una musica comprensibile. Io oggi sono contento, quando vedo il pubblico capace di seguire il mio procedimento musicale e talvolta ho persino la gioia di percepire verso la mia musica un sentimento d’amore. Forse, grazie a quell’insegnamento, posso oggi dire a me stesso che non ho più bisogno di estetistici infingimenti per credere nel mio lavoro artistico.
Lo stesso sforzo di rottura con ogni compiacimento verso le mode e le tendenze scientifiche e culturali voglio fare a proposito della mia ricerca in campo psicoanalitico; un lavoro che oggi posso considerare sufficientemente strutturato. Oltre ad esprimere rigetto per la vecchia maniera di fare scienza, cosa dice però la mia psicoanalisi? Perché sembra allo stesso tempo così bizzarra e così paurosa? Perché i maschi la temono e le femmine vi si oppongono con furia? Perché mi si vorrebbe far tacere?
Io, per il momento, ho scelto di non rinunciare al mio lavoro e a diffondere il mio pensiero. Eppure ancora non ho deciso se e quando debbo comunicare le verità che leggo oltre le parole che mi vengono dette, oltre i gesti che si compiono davanti a me.

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In un primo tempo avevo deciso di tacere, di lasciare che quei cumuli pesantissimi di verità restassero sepolti; era meglio per me limitarmi a raccontare attraverso i ricordi di antichi miti solo poche briciole, così pensavo che avrei evitato catastrofi. In altri momenti però mi sono chiesto se non fosse giunto il tempo di scatenarle certe catastrofi, di superare finalmente queste contraddizioni. Il fatto è che io vorrei allo stesso tempo essere libero di parlare ed essere certo che la catastrofe non sopraggiungerà! Certo, sarebbe più facile se qualcuno volesse accettare il contratto e venire con me, sfidando il proprio destino e il mio, capace di ascoltare tutto. So però che mi direbbero di sì solo gli arroganti e che io stesso sarei troppo vile comunque per accettare: un vigliacco ed un arrogante con quali forze potrebbero sfidare il destino?

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Ho parlato anche di me, raccontando un po’ della mia storia, delle mie sventure, delle mie speranze, e dei miei errori. Ho detto, più o meno chiaramente, che essere musicista mi è servito a capire meglio l’anima degli uomini, a fare meglio il mio lavoro di psicoanalista. Senza l’aiuto della musica non avrei avuto la forza di fare questo mestiere di terapeuta, perché mi sarebbe sembrato di ingannare chi si rivolgeva a me; la musica attinge in profondità: il suo linguaggio è quello del mondo. Per questo io mi sento in grado oggi anche di insegnare la psicoanalisi, a chi mi segue e a chi mi ama.
C’era una volta un ragazzo che leggeva sempre chiuso nella sua stanza alla luce di una candela. Nessuno, nemmeno lui, sapeva dire perché in quella stanza non ci fosse la luce elettrica. All’ondeggiante fiammella, le righe delle parole si attorcigliavano, linee contorte, lucide e incomprensibili. Cosa studiava continuamente quel ragazzo? Un giorno nella camera entrò qualcuno che gli chiese un bacio. Quel ragazzo fissò ancora per un attimo quella pagina che stava leggendo; le bisce si contorcevano sulla carta; il ragazzo si alzò e concesse quel bacio. Come è ben dire alla fine di ogni parabola: «Chi ha orecchie per intendere intenda».

58 – Dicembre ‘89

venerdì, 1 dicembre 1989

Adamo ed Eva

Un’omelia dell’arcivescovo di Bologna ha offeso le donne, definite come squallide Eve moderne che hanno in eguale abominio tanto la condizione verginale quanto la missione materna. All’ingenuità della rabbiosa reazione del fior fiore dell’intellettualismo femminista, che pare non sia in grado di guardarsi attorno, fa riscontro l’ingenuità ancora maggiore di quei maschi che, sogghignando, credono di averla fatta franca. La donna in carriera come la donna oggetto, la casalinga e la prostituta si sono tolte la maschera: qualunque ruolo può essere sostenuto a patto che venga ben pagato. Le donne si sono stancate di esercitare il loro potere nascostamente, nelle mura domestiche o nei bordelli, concentrate nello sforzo di far sì che il maschio non si accorgesse di quanto venisse reso imbelle strumento, appagato nell’illusione di essere individuato come l’autorità simbolica, oltre che il titolare del portafoglio. Non è tanto la chiesa che fa un salto all’indietro quando demonizza la figura femminile contemporanea, ma è la donna che tenta una fuga in avanti, quando pretende di sottrarsi in quanto tale al giudizio: della morale, della politica o anche della religione. Quella lotta per il potere i cui termini non sono riducibili, ed oggi meno che mai, alla lotta di classe, vede il maschio colpevole della sua sconfitta e la donna temeraria nella rivendicazione della sua superiorità. Fino a qualche tempo fa il femminismo accennava ad un’emancipazione da ottenere attraverso il separatismo: uomini e donne avevano tante cose da chiarire tra di loro e sarebbe stato opportuno che lo facessero prima di affrontarsi come i contendenti di una guerra tra i sessi antica quanto la storia dell’umanità. Oggi il separatismo è l’utopia coltivata da pochi maschi e la limitazione che sperimentano alcuni preti e suore. La discriminazione di cui il cinquanta per cento degli esseri umani ha patito non può soltanto essere stata voluta dall’altro cinquanta per cento; soprattutto se si considera che il cento per cento ha succhiato col latte materno anche la prima visione del mondo e dei valori. Il maschio è stato sconfitto ben presto e solo la sua stupidità gli ha permesso di illudersi: anche il più potente della terra, nell’inconscio sociale, è visto come quello che tutto il suo tesoro di autorità, di potere e di ricchezza pone nel grembo di una donna: madre, moglie o amante che sia. C’è insomma una sostanziale parità di cialtroneria: Adamo ed Eva si ingannano da sempre nella speranza di dominare l’altro; oggi questa parità è più evidente proprio per l’omologazione dei valori: uomini e donne si sono livellati, abbassandosi, paghi di avere lo stesso potere di consumo. Ci sarebbe forse da riproporre una riflessione sulle possibilità che 1’Amore offrirebbe a donne e uomini di dare un senso alla stessa sopravvivenza della specie; ma non risulta che all’Amore abbiano fatto riferimento né il prelato tonitruante, nè le femministe bercianti.

58 – Dicembre ‘89

venerdì, 1 dicembre 1989

Gli artisti sognano sempre oppure non sognano mai. La pittura cosiddetta «onirica» è una invenzione dei critici o un’autoillusione di alcuni artisti. I mostri non sono frutto dell’inconscio più di quanto lo sia una carota; ed un sedano non lo è più di una stralunata chimera. Chi come noi, si trova a lavorare con i sogni degli uomini, si accorge di quanto questi siano spesso sviluppati secondo meccanismi logici e razionali, più di quanto lo siano gesti quotidiani, lapsus, acting out, i quali invece nella loro presunta concretezza sono fatti di irrealtà e di materia onirica. Il pittore Antonio de Totero, ha alle spalle un lungo e complesso percorso, compiuto interiormente, ma anche all’esterno: il suo occhio e la sua mano sono continuamente alla ricerca; ogni sua opera è un punto di arrivo che ha però le caratteristiche di un punto di partenza.
La bella mostra «Traditiosinequanon» offerta allo Studio S di via della Penna 59 (in contemporanea quasi con le mostre di Venezia e di Milano) ci fa intuire quanta qualità d’artista si possa esprimere in una scelta di intima umiltà. Richiamandosi esplicitamente ad un nume tutelare della grandezza di Caravaggio, de Totero esegue una serie di «nature morte» che sono studio e contributo alla comprensione di un genere che nella pittura barocca, ma anche prima e dopo di essa, ha costituito argomento continuamente riproposto. Anche de Totero ci offre la sua riproposizione, ed insieme a quella del Maestro più illustre, ripercorre la lezione degli altri suoi maestri, leggibile più chiaramente nelle opere del 1986 e diventata materiale proprio, riflessione personale, nei quadri di quest’ultimo anno. Se le pitture ad olio sono più canoniche, nelle tecniche miste su carta l’artista tenta processi di trasformazione, getta luci nuove sulle composizioni, gioca con i contrasti figura-sfondo e soprattutto fa pittura che non teme di essere «bella», che coraggiosamente ricerca la bellezza, senza troppa paura; quella paura di non farcela che spinge tanti a scegliere il brutto in difesa della propria inadeguatezza.

Sarebbe stato fin troppo facile parlare solo male di una mostra come quella intitolata Dall’URSS in URSS. Arte e Scienza nella Perestrojka ospitata nel rinnovando Palazzo delle Esposizioni di via Nazionale: certo ci sono evidenti tutti i difetti di una mostra di regime: propaganda, sciovinismo, ingenuità e confusione di idee, difetti che pensiamo appartengano ancora all’apparato che la perestrojka, ci auspichiamo, dovrà riuscire appunto a rinnovare, con una «rivoluzione» di costume che si presenta senz’altro come impresa titanica.
La Grande Madre Russia non ci fa una gran bella figura ridotta in quei termini; in effetti c’è stato molto di più di quanto qui appaia, di sublime e anche di tragico nell’arte e nella storia, nel corso degli ultimi secoli e anche solo nel corso degli ultimi decenni. A conti fatti risulta nella mostra sufficientemente ben riassunto un solo aspetto della realtà russa: quello della pittura. Si osservano infatti, se pure assemblati magari troppo alla rinfusa, quasi tutti gli aspetti di un’arte che spazi a dal tempo delle antiche icone alle ultime manifestazioni della pittura sovietica.
Tralasciando dunque di giudicare gli allestimenti apologetici del progresso scientifico, medico e tecnologico, economico e sociale del regime (a questo proposito va registrata la totale omissione di ogni accenno, anche polemico allo stalinismo: avremmo preferito vedere magari una demonizzazione di Stalin, ingenua come lo è ogni demonizzazione, che non trovare questo silenzio imbarazzante e ingiustificato); veniamo direttamente a dire l’impressione che abbiamo avuto alla vista di tante opere d’arte figurativa provenienti da diversi musei.
Il Museo Statale Russo di Leningrado offre una panoramica suddivisa in tre sezioni: le «Icone», prima fondamentale espressione d’arte russa, qui rappresentata da opere che vanno dal XIV al XVII secolo e che sono comunque da integrare con la visita alle ‘Icone russe in Vaticano’ esposte al Braccio di Carlo Magno. Quasi tutte opere di botteghe o autori anonimi, le icone russe rappresentano una realtà artistica di valore eccezionale, per la sua unitarietà, che riesce ad esprimere, pur nelle differenziazioni regionali e temporali, la grande ricchezza spirituale ed estetica dell’anima russa, capace di perfezione nel rendere la bellezza e di profondità di penetrazione della fiaba e del mistero religioso.
Meno significativa, almeno al confronto, appare la sezione della «Pittura dal XVII al XIX secolo», periodo in cui, dopo l’epoca dei grandi artisti stranieri, torna ad essere dominante una pittura nazionale, che nei ritratti, nei paesaggi e anche nei soggetti retorici trova un suo clima romantico, però specificamente russo. Quali che siano le ragioni storiche e politiche che l’hanno informata, la successiva “Pittura sovietica” ci appare decisamente poco originale anche perché, se si guarda alle date, è caratterizzata da un epigonismo che ce la fa forse sottovalutare. .
Lo stesso discorso va ripetuto per le opere provenienti dalla Galleria Tret’jakov e dal Fondo Sovietico della Cultura, fondazione questa, figlia della perestrojka. Un patetico effetto di «déja vu» lo fanno poi la grafica, i manifesti e la porcellana di propaganda dei primi anni post-rivoluzionari, provenienti dal Museo Centrale della Rivoluzione dell’URSS, tanto simili ad oggetti che la nostalgia è in grado di farci recuperare ancora nelle soffitte e nei bauli di casa nostra.

58 – Dicembre ‘89

venerdì, 1 dicembre 1989

Camilo Josè Cela, premio Nobel per la letteratura 1989, è uno scrittore galiziano che ha probabilmente molti meriti, per il contributo che si dice abbia dato alla rinascita del romanzo spagnolo e noi non sappiamo quali altre motivazioni gli abbiano valso l’alto onore; ma, se dovessimo giudicarlo sulla scorta dell’impressione ricevuta dalla lettura del suo libro, A tempo di mazurca (titolo originale Mazurca para dos Muertos) tradotto da Tilde Riva per la casa editrice Frassinelli di Varese già nel 1985 ed ora giunto alla seconda edizione (pagg. 267, Lit. 24.500) sulla scorta dell’improvvisa celebrità del suo autore, non saremmo molto convinti delle sue qualità.
Ci sembra che il lavoro condotto dalla traduttrice sia stato corretto per l’autore del Dizionario Segreto (un vocabolario di oscenità del repertorio latino-americano in tre volumi stampato nel 1968): il cumulo di parolacce decisamente volgari e non solo «crude» dell’opera ci sembra infatti presentato con brutale, ma corretta efficacia. Le pagine in italiano scorrono, ci sembra, sull’onda dello spagnolo, con discreta fluidità. Al di là dei meriti della traduzione, questo libro non ha però altri elementi di interesse; ci sembra oltretutto debolmente parodiare il ben più e meglio costruito Cent’anni di solitudine di G. Garcia Marquez del 1967, arrivando quindi anche in ritardo. Figurine e figurette, con cazzi in erezione e tette al vento; storie e storielline di morti ammazzati e di preti dal pene gigantesco che scopano all’impazzata, non solo si susseguono a getto continuo, ma anche si sovrappongono, ripetendo immagini e situazioni in un andamento leggermente ossessivo; il tutto acquista un senso di nauseabonda monotonia. L’autore, forse nel tentativo di descrivere l’epopea di un gruppetto di sciamannati preti, puttane, contrabbandieri, butteri e mendicanti, ha infarcito il tutto di morti continue, con il risultato di rendere macroscopicamente evidente il suo lato necrofilo, che contende alla coprofilia il primato.
Comunque nessuna storiella riesce mai ad avvincere e neppure ad interessare: in quella miriade di parole la fantasia affoga e ancor più la poesia. Quando, per l’ennesima volta, si legge dell’assassinio di Lazaro Codesal ucciso da un moro mentre «si faceva una sega» è difficile evitare una gran confusione mentale. Tutta l’opera vuol essere un seguito di «tranches de vie» per cui non ha né capo né coda, incomincia quando vuole e potrebbe non finire mai; ma questo di per sé non ci sembra tanto un pregio quanto il segno di una desolante incapacità di narrare. Su tutta la vicenda, inspiegabilmente, continua a piovere e questa sarebbe l’unica idea originale se non fosse assolutamente ovvia.

58 – Dicembre ‘89

venerdì, 1 dicembre 1989

I due Farfalloni sono molto affezionati all’isola di Ischia; vi hanno trascorso lunghi e brevi, ma tutti bellissimi, giorni di vacanza, scorrazzando dal mare di S. Angelo al Santuario del Raggio verde della Madonna del Soccorso; hanno passeggiato all’interno, arrampicandosi fin sull’Epomeo o avventurandosi per viottole suggestive.
Naturalmente sono, anche lì, stati abituali frequentatori di ristoranti, sia di quelli alla moda, sulle spiagge, sia di quelli di campagna, sotto ombrosi e freschi pergolati di vite, e sempre si sono trovati molto bene, apprezzando una cucina schietta e variata. Alberto è un ristorante ischitano di chiara fama, per cui, quando in via dei Greci abbiamo visto l’insegna Alberto d’Ischia, nel luogo dove sorgeva un ristorantino di stile francese di passata memoria, ci siamo informati per sapere quale relazione avesse con l’omonimo ristorante dell’isola; ci hanno detto che è una filiale romana di quello, tenuta da uno stretto parente.
Appena entrati abbiamo avuto l’impressione di un luogo non del tutto sgradevole, ma leggermente folle: del vecchio «bistrò» di un tempo è rimasto tutto intatto: tavolini alla Montmartre, arredamento liberty, moquette e tappezzerie; solo che ora da qualche pezzo di parete occhieggiano vecchie fotografie del folclore isolano e antiche stampe sullo stesso soggetto che qui paiono stralunate presenze; stralunato anche il pianista giapponese che suona canzoni romane, inglesi o sud-americane. Anche i clienti sembrano di tipo particolare se pure le scene sono le stesse di sempre: una bionda alta due metri che soffia il fumo della sigaretta in faccia al suo compagno alto uno e cinquanta dall’alto al basso, mentre lui le ricambia la cortesia, ma dal basso verso l’alto; in un angolo due uomini d’affari della stessa statura si infilano a vicenda la sigaretta nel naso, parlottando come cospiratori; ma proprio alle nostre spalle un gruppo di signori e signore indecifrabili parlano di argomenti misteriosissimi che, per discrezione, non possiamo riferire; più la cena procede più il dialogo diventa surreale, con risate che scoppiano all’improvviso, senza motivo apparente.
Abbiamo un po’ tergiversato nel descrivere l’ambiente, sia perché ci è realmente sembrato bizzarro, ma soprattutto perché ci dispiace moltissimo dover dire che la cucina è veramente disastrosa e il servizio, per quanto tenuto da giovanotti simpatici, è delirante.
Di fatto arrivano fuori tempo in tavola piatti inqualificabili: prima una fetta di pizza al pomodoro già fredda, servita con un prosecchino; poi un sauté di vongole che del sauté non ha la necessaria «stringatezza» sebbene non risulti di sapore sgradevole; spettacolo quasi raccapricciante danno poi i gamberetti sul lettino di rughetta, visione lugubre di pochi corpicini lessati, adagiati sul verde come su catafalchi, privi di salsa o condimento. I primi di pasta raggiungono abissi quasi inconcepibili: pazienza che il sugo dei rigatoni all’Alberto sia scipito e non leghi con la pasta; che i legumi della pasta e fagioli siano una poltiglia insipida; che gli spaghetti alle vongole abbiano un acre sapore di aglio bruciato, ma ciò che veramente fa drizzare i capelli in testa è la cottura, o meglio la totale non cottura delle paste, appena immerse, forse, o magari messe solo in vicinanza dell’acqua bollente in modo da arrivare in tavola completamente crude: giusta punizione del cielo per i Farfalloni che si lamentano sempre per penne e spaghetti mai sufficientemente al dente!
Al suono di «Quant’è bello far l’amore quando è sera» arrivano poi in tavola i secondi: un coniglio all’ischitana rinsecchitissimo, sommerso soltanto di peperoncino, i polipi in casseruola ridotti ad indecifrabile miscuglio dolciastro e bruciacchiato, la spigola all’acqua pazza spappolata dall’eccesso di cottura e sguazzante in un’acquetta arrossata. Abbiamo bevuto fiumi di Biancolella, di casa D’Ambra, non sgradevole, equilibrato, fresco e leggermente salmastro. Al suono
Al suono di «Brasil, Brasil» ci è arrivato un conto che, sola nota positiva, riconosciamo essere stato davvero contenuto.

In Via Bocca di Leone c’è un bell’albergo dal vecchio stampo aristocratico che ha il nome un po’ snob di Hotel d’Inghilterra; passando la hall, quasi nascosto da un piccolo labirinto di salottini, si trova il confortevole approdo del bar, ambiente caldo e rilassante, con le sue «boiserie» e i sedili di pelle, da vecchio «club», fatuo e gradevole.
Dietro il bancone doverosamente lucido si muove la simpatica figura di Gino che, con mano espertissima miscela i suoi cocktail con arte raffinata: le bevande che egli mesce hanno il gusto delle cose classiche e perfette; ricorda quali sono i cocktail in cui il ghiaccio nel bicchiere deve essere messo e quello in cui non ci deve essere; detesta gli intrugli di infiniti liquori, frutti, grappe e sciroppi che oggi sono tanto di moda ed offre con discrezione e gentilezza i suoi magici bicchieri.
Non riteniamo il caso di citare i nomi dei cocktail che noi abbiamo assaggiato, poiché siamo certi che sappia preparare qualunque cosa gli si richieda in modo ineccepibile.

58 – Dicembre ‘89

venerdì, 1 dicembre 1989

La locandina recita: Mario (Uno spettacolo di «nome»); con questo titolo al teatro Due Roma, la Cooperativa «I Teatranti» diretta da Marco Lucchesi ha messo in scena uno spettacolo scritto, interpretato e diretto da Eros Drusiani e Maddalena De Panfilis.
I due attori sulla scena si danno veramente molto da fare, bisogna riconoscere con una certa efficacia. Stralunato, afono e con voce chioccia, lui. Garrula, entusiasta, cinguettante, con qualche reminiscenza di Sandra Mondaini di molto tempo fa, lei. Lo spettacolo che hanno montato risulta un lavoro molto curato. Il ritmo giusto sostiene sempre il succedersi delle battute che solo in apparenza scorrono alla rinfusa, e lo stesso vale per il gesticolìo frenetico talvolta, ma sempre controllato.
Alcune scenette sono recitate persino con auto ironico virtuosismo; fino ad essere eccellenti come quella della fiammiferaia e del sadico-stupratore-angelo. Se la sanno persino cavare bene questi due attori nelle parti cantate.
La musica gradevole di Carlo «Cialdo» Capelli nella prima parte dello spettacolo si limita a brevi sottolineature e in seguito prende corpo, fino a divenire elemento fondamentale. Siamo invece rimasti insoddisfatti del copione: nonostante qualche battuta capace di far sorridere, tutta quella sequela di sketch, tenuti surrealmente insieme dal ritornante rapporto tra il ‘medico e la sua segretaria, ci è sembrata di una futilità ed inconsistenza eccessive.
Facevano l’effetto di una serie di scenette secondarie preparate per uno spettacolo di varietà di qualche annetto addietro. Scena e costumi essenzialissimi, in rosso, bianco e nero, sono firmati da Elena Panarella.