58 – Dicembre ‘89

dicembre , 1989

Camilo Josè Cela, premio Nobel per la letteratura 1989, è uno scrittore galiziano che ha probabilmente molti meriti, per il contributo che si dice abbia dato alla rinascita del romanzo spagnolo e noi non sappiamo quali altre motivazioni gli abbiano valso l’alto onore; ma, se dovessimo giudicarlo sulla scorta dell’impressione ricevuta dalla lettura del suo libro, A tempo di mazurca (titolo originale Mazurca para dos Muertos) tradotto da Tilde Riva per la casa editrice Frassinelli di Varese già nel 1985 ed ora giunto alla seconda edizione (pagg. 267, Lit. 24.500) sulla scorta dell’improvvisa celebrità del suo autore, non saremmo molto convinti delle sue qualità.
Ci sembra che il lavoro condotto dalla traduttrice sia stato corretto per l’autore del Dizionario Segreto (un vocabolario di oscenità del repertorio latino-americano in tre volumi stampato nel 1968): il cumulo di parolacce decisamente volgari e non solo «crude» dell’opera ci sembra infatti presentato con brutale, ma corretta efficacia. Le pagine in italiano scorrono, ci sembra, sull’onda dello spagnolo, con discreta fluidità. Al di là dei meriti della traduzione, questo libro non ha però altri elementi di interesse; ci sembra oltretutto debolmente parodiare il ben più e meglio costruito Cent’anni di solitudine di G. Garcia Marquez del 1967, arrivando quindi anche in ritardo. Figurine e figurette, con cazzi in erezione e tette al vento; storie e storielline di morti ammazzati e di preti dal pene gigantesco che scopano all’impazzata, non solo si susseguono a getto continuo, ma anche si sovrappongono, ripetendo immagini e situazioni in un andamento leggermente ossessivo; il tutto acquista un senso di nauseabonda monotonia. L’autore, forse nel tentativo di descrivere l’epopea di un gruppetto di sciamannati preti, puttane, contrabbandieri, butteri e mendicanti, ha infarcito il tutto di morti continue, con il risultato di rendere macroscopicamente evidente il suo lato necrofilo, che contende alla coprofilia il primato.
Comunque nessuna storiella riesce mai ad avvincere e neppure ad interessare: in quella miriade di parole la fantasia affoga e ancor più la poesia. Quando, per l’ennesima volta, si legge dell’assassinio di Lazaro Codesal ucciso da un moro mentre «si faceva una sega» è difficile evitare una gran confusione mentale. Tutta l’opera vuol essere un seguito di «tranches de vie» per cui non ha né capo né coda, incomincia quando vuole e potrebbe non finire mai; ma questo di per sé non ci sembra tanto un pregio quanto il segno di una desolante incapacità di narrare. Su tutta la vicenda, inspiegabilmente, continua a piovere e questa sarebbe l’unica idea originale se non fosse assolutamente ovvia.