58 – Dicembre ‘89

dicembre , 1989

Gli artisti sognano sempre oppure non sognano mai. La pittura cosiddetta «onirica» è una invenzione dei critici o un’autoillusione di alcuni artisti. I mostri non sono frutto dell’inconscio più di quanto lo sia una carota; ed un sedano non lo è più di una stralunata chimera. Chi come noi, si trova a lavorare con i sogni degli uomini, si accorge di quanto questi siano spesso sviluppati secondo meccanismi logici e razionali, più di quanto lo siano gesti quotidiani, lapsus, acting out, i quali invece nella loro presunta concretezza sono fatti di irrealtà e di materia onirica. Il pittore Antonio de Totero, ha alle spalle un lungo e complesso percorso, compiuto interiormente, ma anche all’esterno: il suo occhio e la sua mano sono continuamente alla ricerca; ogni sua opera è un punto di arrivo che ha però le caratteristiche di un punto di partenza.
La bella mostra «Traditiosinequanon» offerta allo Studio S di via della Penna 59 (in contemporanea quasi con le mostre di Venezia e di Milano) ci fa intuire quanta qualità d’artista si possa esprimere in una scelta di intima umiltà. Richiamandosi esplicitamente ad un nume tutelare della grandezza di Caravaggio, de Totero esegue una serie di «nature morte» che sono studio e contributo alla comprensione di un genere che nella pittura barocca, ma anche prima e dopo di essa, ha costituito argomento continuamente riproposto. Anche de Totero ci offre la sua riproposizione, ed insieme a quella del Maestro più illustre, ripercorre la lezione degli altri suoi maestri, leggibile più chiaramente nelle opere del 1986 e diventata materiale proprio, riflessione personale, nei quadri di quest’ultimo anno. Se le pitture ad olio sono più canoniche, nelle tecniche miste su carta l’artista tenta processi di trasformazione, getta luci nuove sulle composizioni, gioca con i contrasti figura-sfondo e soprattutto fa pittura che non teme di essere «bella», che coraggiosamente ricerca la bellezza, senza troppa paura; quella paura di non farcela che spinge tanti a scegliere il brutto in difesa della propria inadeguatezza.

Sarebbe stato fin troppo facile parlare solo male di una mostra come quella intitolata Dall’URSS in URSS. Arte e Scienza nella Perestrojka ospitata nel rinnovando Palazzo delle Esposizioni di via Nazionale: certo ci sono evidenti tutti i difetti di una mostra di regime: propaganda, sciovinismo, ingenuità e confusione di idee, difetti che pensiamo appartengano ancora all’apparato che la perestrojka, ci auspichiamo, dovrà riuscire appunto a rinnovare, con una «rivoluzione» di costume che si presenta senz’altro come impresa titanica.
La Grande Madre Russia non ci fa una gran bella figura ridotta in quei termini; in effetti c’è stato molto di più di quanto qui appaia, di sublime e anche di tragico nell’arte e nella storia, nel corso degli ultimi secoli e anche solo nel corso degli ultimi decenni. A conti fatti risulta nella mostra sufficientemente ben riassunto un solo aspetto della realtà russa: quello della pittura. Si osservano infatti, se pure assemblati magari troppo alla rinfusa, quasi tutti gli aspetti di un’arte che spazi a dal tempo delle antiche icone alle ultime manifestazioni della pittura sovietica.
Tralasciando dunque di giudicare gli allestimenti apologetici del progresso scientifico, medico e tecnologico, economico e sociale del regime (a questo proposito va registrata la totale omissione di ogni accenno, anche polemico allo stalinismo: avremmo preferito vedere magari una demonizzazione di Stalin, ingenua come lo è ogni demonizzazione, che non trovare questo silenzio imbarazzante e ingiustificato); veniamo direttamente a dire l’impressione che abbiamo avuto alla vista di tante opere d’arte figurativa provenienti da diversi musei.
Il Museo Statale Russo di Leningrado offre una panoramica suddivisa in tre sezioni: le «Icone», prima fondamentale espressione d’arte russa, qui rappresentata da opere che vanno dal XIV al XVII secolo e che sono comunque da integrare con la visita alle ‘Icone russe in Vaticano’ esposte al Braccio di Carlo Magno. Quasi tutte opere di botteghe o autori anonimi, le icone russe rappresentano una realtà artistica di valore eccezionale, per la sua unitarietà, che riesce ad esprimere, pur nelle differenziazioni regionali e temporali, la grande ricchezza spirituale ed estetica dell’anima russa, capace di perfezione nel rendere la bellezza e di profondità di penetrazione della fiaba e del mistero religioso.
Meno significativa, almeno al confronto, appare la sezione della «Pittura dal XVII al XIX secolo», periodo in cui, dopo l’epoca dei grandi artisti stranieri, torna ad essere dominante una pittura nazionale, che nei ritratti, nei paesaggi e anche nei soggetti retorici trova un suo clima romantico, però specificamente russo. Quali che siano le ragioni storiche e politiche che l’hanno informata, la successiva “Pittura sovietica” ci appare decisamente poco originale anche perché, se si guarda alle date, è caratterizzata da un epigonismo che ce la fa forse sottovalutare. .
Lo stesso discorso va ripetuto per le opere provenienti dalla Galleria Tret’jakov e dal Fondo Sovietico della Cultura, fondazione questa, figlia della perestrojka. Un patetico effetto di «déja vu» lo fanno poi la grafica, i manifesti e la porcellana di propaganda dei primi anni post-rivoluzionari, provenienti dal Museo Centrale della Rivoluzione dell’URSS, tanto simili ad oggetti che la nostalgia è in grado di farci recuperare ancora nelle soffitte e nei bauli di casa nostra.