58 – Dicembre ‘89

dicembre , 1989

I due Farfalloni sono molto affezionati all’isola di Ischia; vi hanno trascorso lunghi e brevi, ma tutti bellissimi, giorni di vacanza, scorrazzando dal mare di S. Angelo al Santuario del Raggio verde della Madonna del Soccorso; hanno passeggiato all’interno, arrampicandosi fin sull’Epomeo o avventurandosi per viottole suggestive.
Naturalmente sono, anche lì, stati abituali frequentatori di ristoranti, sia di quelli alla moda, sulle spiagge, sia di quelli di campagna, sotto ombrosi e freschi pergolati di vite, e sempre si sono trovati molto bene, apprezzando una cucina schietta e variata. Alberto è un ristorante ischitano di chiara fama, per cui, quando in via dei Greci abbiamo visto l’insegna Alberto d’Ischia, nel luogo dove sorgeva un ristorantino di stile francese di passata memoria, ci siamo informati per sapere quale relazione avesse con l’omonimo ristorante dell’isola; ci hanno detto che è una filiale romana di quello, tenuta da uno stretto parente.
Appena entrati abbiamo avuto l’impressione di un luogo non del tutto sgradevole, ma leggermente folle: del vecchio «bistrò» di un tempo è rimasto tutto intatto: tavolini alla Montmartre, arredamento liberty, moquette e tappezzerie; solo che ora da qualche pezzo di parete occhieggiano vecchie fotografie del folclore isolano e antiche stampe sullo stesso soggetto che qui paiono stralunate presenze; stralunato anche il pianista giapponese che suona canzoni romane, inglesi o sud-americane. Anche i clienti sembrano di tipo particolare se pure le scene sono le stesse di sempre: una bionda alta due metri che soffia il fumo della sigaretta in faccia al suo compagno alto uno e cinquanta dall’alto al basso, mentre lui le ricambia la cortesia, ma dal basso verso l’alto; in un angolo due uomini d’affari della stessa statura si infilano a vicenda la sigaretta nel naso, parlottando come cospiratori; ma proprio alle nostre spalle un gruppo di signori e signore indecifrabili parlano di argomenti misteriosissimi che, per discrezione, non possiamo riferire; più la cena procede più il dialogo diventa surreale, con risate che scoppiano all’improvviso, senza motivo apparente.
Abbiamo un po’ tergiversato nel descrivere l’ambiente, sia perché ci è realmente sembrato bizzarro, ma soprattutto perché ci dispiace moltissimo dover dire che la cucina è veramente disastrosa e il servizio, per quanto tenuto da giovanotti simpatici, è delirante.
Di fatto arrivano fuori tempo in tavola piatti inqualificabili: prima una fetta di pizza al pomodoro già fredda, servita con un prosecchino; poi un sauté di vongole che del sauté non ha la necessaria «stringatezza» sebbene non risulti di sapore sgradevole; spettacolo quasi raccapricciante danno poi i gamberetti sul lettino di rughetta, visione lugubre di pochi corpicini lessati, adagiati sul verde come su catafalchi, privi di salsa o condimento. I primi di pasta raggiungono abissi quasi inconcepibili: pazienza che il sugo dei rigatoni all’Alberto sia scipito e non leghi con la pasta; che i legumi della pasta e fagioli siano una poltiglia insipida; che gli spaghetti alle vongole abbiano un acre sapore di aglio bruciato, ma ciò che veramente fa drizzare i capelli in testa è la cottura, o meglio la totale non cottura delle paste, appena immerse, forse, o magari messe solo in vicinanza dell’acqua bollente in modo da arrivare in tavola completamente crude: giusta punizione del cielo per i Farfalloni che si lamentano sempre per penne e spaghetti mai sufficientemente al dente!
Al suono di «Quant’è bello far l’amore quando è sera» arrivano poi in tavola i secondi: un coniglio all’ischitana rinsecchitissimo, sommerso soltanto di peperoncino, i polipi in casseruola ridotti ad indecifrabile miscuglio dolciastro e bruciacchiato, la spigola all’acqua pazza spappolata dall’eccesso di cottura e sguazzante in un’acquetta arrossata. Abbiamo bevuto fiumi di Biancolella, di casa D’Ambra, non sgradevole, equilibrato, fresco e leggermente salmastro. Al suono
Al suono di «Brasil, Brasil» ci è arrivato un conto che, sola nota positiva, riconosciamo essere stato davvero contenuto.

In Via Bocca di Leone c’è un bell’albergo dal vecchio stampo aristocratico che ha il nome un po’ snob di Hotel d’Inghilterra; passando la hall, quasi nascosto da un piccolo labirinto di salottini, si trova il confortevole approdo del bar, ambiente caldo e rilassante, con le sue «boiserie» e i sedili di pelle, da vecchio «club», fatuo e gradevole.
Dietro il bancone doverosamente lucido si muove la simpatica figura di Gino che, con mano espertissima miscela i suoi cocktail con arte raffinata: le bevande che egli mesce hanno il gusto delle cose classiche e perfette; ricorda quali sono i cocktail in cui il ghiaccio nel bicchiere deve essere messo e quello in cui non ci deve essere; detesta gli intrugli di infiniti liquori, frutti, grappe e sciroppi che oggi sono tanto di moda ed offre con discrezione e gentilezza i suoi magici bicchieri.
Non riteniamo il caso di citare i nomi dei cocktail che noi abbiamo assaggiato, poiché siamo certi che sappia preparare qualunque cosa gli si richieda in modo ineccepibile.