Psicoanalisi contro n. 58 – C’era una volta

dicembre , 1989

Ho già detto come le parole nascondano più di quanto non disvelino; non voglio con questo sostenere che si parli soltanto per mentire; so bene che qualcosa che si ritiene vero viene esplicitato, talora persino con cruda evidenza. Resta però il fatto che continuamente si tende a «parlar d’altro». Qualche tempo fa rimasi stupito e quasi spaventato dalla constatazione di quanto nei discorsi dei miei pazienti servisse a coprire o addirittura a capovolgere il senso di desideri inesprimibili, di fantasie inconfessabili; tanto che mi venne da domandare a me stesso se non fossi preda di un delirio di tipo paranoide: non mi pareva possibile che davvero potessi capire in modo così chiaro contenuti che le persone in analisi con me non avevano alcuna intenzione di dire neppure a lor stesse. Nessuno può essere sicuro al cento per cento di essere in piena salute mentale, per cui mi parve opportuno sottopormi ad una accurata ed attenta verifica; eppure, nonostante l’autovigilanza assidua, continuavo a trovarmi di fronte a persone che mi davano conferme così lampanti della loro inconsapevolezza che mi convinsi di essere sufficientemente sano e di poter considerare validi i dati che venivo rilevando. Probabilmente la lunga e vasta esperienza di psicoanalista mi aveva davvero scaltrito, mettendomi in mano gli strumenti per capire con una certa facilità le dinamiche psichiche delle persone in rapporto analitico con me. Ma questa conferma, anziché tranquillizzarmi, mi turbò in profondità, poiché mi resi contemporaneamente conto che solo pochissimo di quello che io venivo scoprendo col comune lavoro poteva essere comunicato esplicitamente in analisi.

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Dapprima reagii, rifugiandomi in considerazioni apparentemente sagge, che mi facevano dire a me stesso che la cautela è un elemento fondamentale, che le comunicazioni debbono essere fatte solo nel giusto momento; ma ciò non mi impediva di rendermi conto che c’erano nel mio lavoro scoperte e verità che non avrei mai potuto rivelare a quelle stesse persone che a me s’erano rivolte per avere chiarezza. Lo sconvolgimento che certe verità possono provocare è così grande, infatti, che disturberebbe molto più di quanto possa disturbare l’ignorarle. Mentre solo per alcune di queste verità un giorno sarebbe venuto in cui avremmo potuto insieme affrontarle, per molte altre invece farle venire alla luce avrebbe potuto significare soltanto un gioco di massacro. Per lungo tempo, nonostante stessi piuttosto male davanti a queste considerazioni, cercai di lavorare come se niente fosse, limitandomi a scegliere di volta in volta le realtà da affrontare in base al criterio di utilità ai fini della cura e accettando di tacere su molte cose. Era onesto però che io accettassi di tenere per me rivelazioni così significative? Mi passò per la mente una soluzione: con qualcuna delle persone in analisi con me avrei fatto un contratto che contemplasse, fin dall’inizio, la possibilità di dire tutto quello che risultasse dal comune lavoro; ma mi resi conto subito che anche quelli che mi avrebbero detto di si, lo avrebbero fatto senza nemmeno sospettare l’enormità dell’impegno che entrambi ci andavamo assumendo; una decifrazione troppo chiara e spietata avrebbe comunque rischiato di distruggerli e la prassi burocratica di una contrattazione preliminare non sarebbe comunque bastata a giustificare me. Accantonata quest’ipotesi, avevo continuato il mio lavoro, in compagnia del mio disagio per tutte quelle verità perdute forse per sempre; un malessere che mi accompagnava, costante, fino a farmi dubitare dell’utilità di continuare un mestiere che mi pareva sempre più inutile, compromesso dalla necessità di dover mentire in modo così massiccio. Non mi piaceva l’idea di fare lo psicoanalista in quel modo. Fu soprattutto la crisi di una notte; il mattino seguente avevo ripreso il mio lavoro, in compagnia di un malessere che, seppure affievolito, non è scomparso ancor oggi.

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Malgrado la mia facilità, per natura e per esperienza, di cogliere gli aspetti più nascosti e reconditi dei discorsi che mi vengono rivolti, pure sono abbastanza consapevole del fatto che sia per qualcuno altrettanto facile cogliere le mie inconsce motivazioni, attraverso quello che vado affermando; la cosa mi ha messo talvolta a disagio, ma fondamentalmente non mi dispiace l’ipotesi che chi viene a contatto con me possa capire anche ciò che non dico e addirittura vorrei celare dicendo l’opposto. Ho cercato di spiegarmi questa apparente disinvoltura con un mio esibizionismo di fondo, che mi farebbe provare un enorme e sottile piacere, anche carico di implicazioni sessuali, nel mostrarmi agli altri ancora più nudo di quanto io possa immaginarmi; è questo un sentimento che considero misto di vanità e di infantile ed ingenua fiducia negli altri. D’altro canto sono ancor più convinto, e in ciò c’è poco di ingenuo e modesto, di capire comunque gli altri più di quanto gli altri possano capire me. Io so di avere la capacità di cogliere i contenuti inconsci non solo dei singoli ma anche dei gruppi sociali in mezzo ai quali vengo a trovarmi, in modo piuttosto preciso e approfondito. Pur consapevole di quanto leggermente paranoico sia questo mio atteggiamento, tuttavia credo di essere un poco nel vero. Per evitare di attirarmi l’odio e l’antipatia che si tirano addosso tutti coloro che affermano con convinzione una loro vera o presunta superiorità, dovrei umilmente e falsamente minimizzare; io invece la ribadisco, disposto a concedere ad altri di fare altrettanto nel loro campo specifico, se sono convinti di essere in qualche modo superiori, per natura ed esperienza. Ammetto comunque che ci siano al mondo i manzoniani «venticinque lettori» capaci di capire di me quanto e magari più di quanto io capisca gli altri.

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Quando, molto tempo fa, mi trovavo io stesso sdraiato sul divano, nell’impegnativo ruolo di paziente, ricordo che parlavo tantissimo, mentre il mio analista si limitava a dire solo una parola ogni tanto, con la sua voce un po’ nasale. Non ricordo se le sue fossero parole di verità, anche perché in ogni caso oggi mi trovo ad avere sconfessato molte delle verità di quel tempo. Non so quanto fosse capace di leggere ciò che io con le mie parole cercavo di nascondere ad entrambi. Accanto al divano, su cui ricordo mi era d’obbligo sdraiarmi per precetto psicoanalitico, era posto un inginocchiatoio del Seicento, molto bello; io lo accarezzavo durante le sedute, con la mia mano sinistra passavo sul lampasso vecchio e sbrindellato che ricopriva l’imbottitura, sulla coppia di colonne, una dritta ed una tortile e sentivo, sotto le dita, il legno reso morbido e sontuoso dagli anni, percepivo le minute scalfitture che nei secoli avevano segnato la storia di quel mobile, che immaginavo prima in una chiesa, o in una cappella e poi in una camera da letto. Percorrendo con le dita la colonna dritta pensavo all’organo genitale del mio analista (si pensa sempre alle stesse cose: noi psicoanalisti rischiamo persino la monotonia, ma la colpa non è solo nostra). Come potevo non associare quella materia morbida e dura ad un tempo, che al contatto diveniva quasi viva e calda, al membro virile di quel signore dalla voce nasale e tranquilla, che ogni tanto interloquiva con qualche sentenza? Un giorno ebbi il coraggio di rivelargli quel pensiero nascosto ed egli mi fece notare l’ovvietà del tutto: «Era ovvio» mi disse e quelle due parole mi tornano ancora oggi in mente. Ricordo che sulla colonnina tortile c’era un capitello con due volute, accarezzandola pensavo al Bernini, al mio desiderio di trasferirmi a Roma, dove c’era il ciborio di S. Pietro. Un giorno mi decisi a rivelare anche questa mia altra associazione, mi replicò con un «Ehm». Secondo me quel mugugno significava per lui una sconfitta; ma io lo amavo e lo stimavo per cui gli permettevo anche di perdere ogni tanto.

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Sono venuto a Roma e qui ho costruito la mia scuola psicoanalitica, con fatica e con allegria. Un giorno, mentre passeggiavamo sul lungotevere, Renzo – l’amico di sempre – mi disse: «Lo sai che qui stiamo giocando il tutto per tutto? Si tratta di vincere o di perdere tutto quello che abbiamo.» Era d’autunno e sotto i piedi sentivo il fruscio delle foglie secche; pensai un attimo prima di rispondere: «La psicoanalisi però non mi basta.» Renzo replicò: «Tu giochi sempre alla grande.» Sulle spalle il sole dell’autunno ci accarezzava tiepido, avevamo in mano le borse e ci stavamo recando in palestra. Da allora ho continuato a puntare sempre tutto, vincendo e perdendo, e ancora oggi né Renzo né io sappiamo se la partita è stata vinta. Non so se il mio psicoanalista d’allora avesse capito davvero quello che si nascondeva dietro alle mie parole e ai miei gesti; non so se lui scorgesse tutto quello che io credo di scorgere negli altri; allora non sapevo domandarglielo, anche se lui, da quella persona seria ed onesta qual era, certo si sarebbe rifiutato di rispondermi. Si direbbe che qualcosa non ha funzionato nella mia analisi personale, ma non poteva che essere così; se no sarei rimasto invischiato nella scia tracciata dal mio analista freudiano, continuatore di una tradizione che, secondo me, non deve più essere continuata. Mi pongo ancor oggi la domanda sulla validità di quel lontano lavoro analitico; ovviamente non mi riferisco alla validità «istituzionale» di cui non m’importa, ma alla efficacia e correttezza metodologica di un lavoro da cui ho tratto in seguito un mio modulo operativo. Per essere davvero corretto, avrei dovuto intraprendere per prima cosa un’analisi gindriana, ma prima ancora avrei dovuto formare un analista gindriano al quale rivolgermi. Per non cadere nella trappola del serpente che si mangia la coda, ho ritenuto di avere il diritto di proseguire il mio cammino scientifico, pur consapevole della debolezza, della fragilità e dell’ambiguità di ogni lavoro di fondazione. Purtroppo debbo oggi ammettere che il mio analista non è stato per me veramente un «maestro». Diversamente le cose sono andate in campo musicale dove ho ricevuto l’insegnamento di un Maestro veramente grande: era un omino piccolo, gobbo, dalle lunghe dita sensuali; non conosceva alcunché di psicoanalisi o di psicologia; mi osservava sbalordito quando gli riferivo qualcuno dei miei problemi in quel settore, e mi ripeteva incrollabile: «Questa è una quinta, per moto retto, non è ammissibile!» Da lui capii che ci sono cose che non si devono fare mai, anche se oggi trovo piacevolissimo usare spesso le quinte per moto retto. Puccini, con un gesto d’artista sicuro di sé e provocatorio, fece commentare la scena della nevicata della Bohème da una serie di quinte per moto retto; eppure cent’anni dopo, ancora, il mio Maestro mi proibiva quell’uso. Quelle quinte non avevano nuociuto alla poesia pucciniana ed io stesso della proibizione ritenni quello che credo sia il vero significato, di monito; perché la proibizione ha un suo senso che è assoluto di per sé, anche se possono variare le forme alle quali si applica.
Forse il mio unico maestro di psicoanalisi è stato il mio Maestro di composizione, che è partito dall’armonia ed è arrivato fino alla strumentazione. Talvolta alcuni direttori d’orchestra, nel leggere le partiture delle mie composizioni, rimangono perplessi: vogliono raddoppiare in certi punti, aggiungere quinte altrove, fare qualcosa, perché trovano un passaggio debole, perché un ottavino sbuca troppo, eppure, se solo avessero la voglia di capire perché così è scritto, tutto sembrerebbe loro in regola; ogni tanto, con rassegnazione accetto le loro modifiche, pensando che non hanno avuto abbastanza coraggio, che un po’ meno di viltà gioverebbe a loro e alla musica.

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Non so quindi dire se il mio maestro sulla strada della psicologia dinamica sia stato per me quel terapeuta laureato in psichiatria o il mio insegnante di composizione; credo di dovere di più a quest’ultimo, anche se mi rendo conto di dirlo in un momento in cui provo un profondo senso di sfiducia verso chi si occupa di psichiatria. Questi, che dovrebbero essere scienziati illuminati, mi sembrano oggi, infatti, troppo sicuri nella loro ignoranza: sicurezza ed ignoranza insieme distruggono le potenzialità di qualunque scienza, se chi se ne occupa perde la capacità di ascoltare. Quel mio maestro di musica mi trasmetteva una pratica artistica che era stata teorizzata fin dai tempi di Rameau; ma poi si curvava interessato e sinceramente perplesso su ogni mio tentativo di comporre modificando quelle regole; sempre mi interrogava sul perché delle mie scelte ed ascoltava le ragioni che io mettevo avanti in difesa di una ricerca che mirava anche a far progredire il discorso musicale. Da lui ho imparato ad osare, anche ad osare una musica comprensibile. Io oggi sono contento, quando vedo il pubblico capace di seguire il mio procedimento musicale e talvolta ho persino la gioia di percepire verso la mia musica un sentimento d’amore. Forse, grazie a quell’insegnamento, posso oggi dire a me stesso che non ho più bisogno di estetistici infingimenti per credere nel mio lavoro artistico.
Lo stesso sforzo di rottura con ogni compiacimento verso le mode e le tendenze scientifiche e culturali voglio fare a proposito della mia ricerca in campo psicoanalitico; un lavoro che oggi posso considerare sufficientemente strutturato. Oltre ad esprimere rigetto per la vecchia maniera di fare scienza, cosa dice però la mia psicoanalisi? Perché sembra allo stesso tempo così bizzarra e così paurosa? Perché i maschi la temono e le femmine vi si oppongono con furia? Perché mi si vorrebbe far tacere?
Io, per il momento, ho scelto di non rinunciare al mio lavoro e a diffondere il mio pensiero. Eppure ancora non ho deciso se e quando debbo comunicare le verità che leggo oltre le parole che mi vengono dette, oltre i gesti che si compiono davanti a me.

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In un primo tempo avevo deciso di tacere, di lasciare che quei cumuli pesantissimi di verità restassero sepolti; era meglio per me limitarmi a raccontare attraverso i ricordi di antichi miti solo poche briciole, così pensavo che avrei evitato catastrofi. In altri momenti però mi sono chiesto se non fosse giunto il tempo di scatenarle certe catastrofi, di superare finalmente queste contraddizioni. Il fatto è che io vorrei allo stesso tempo essere libero di parlare ed essere certo che la catastrofe non sopraggiungerà! Certo, sarebbe più facile se qualcuno volesse accettare il contratto e venire con me, sfidando il proprio destino e il mio, capace di ascoltare tutto. So però che mi direbbero di sì solo gli arroganti e che io stesso sarei troppo vile comunque per accettare: un vigliacco ed un arrogante con quali forze potrebbero sfidare il destino?

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Ho parlato anche di me, raccontando un po’ della mia storia, delle mie sventure, delle mie speranze, e dei miei errori. Ho detto, più o meno chiaramente, che essere musicista mi è servito a capire meglio l’anima degli uomini, a fare meglio il mio lavoro di psicoanalista. Senza l’aiuto della musica non avrei avuto la forza di fare questo mestiere di terapeuta, perché mi sarebbe sembrato di ingannare chi si rivolgeva a me; la musica attinge in profondità: il suo linguaggio è quello del mondo. Per questo io mi sento in grado oggi anche di insegnare la psicoanalisi, a chi mi segue e a chi mi ama.
C’era una volta un ragazzo che leggeva sempre chiuso nella sua stanza alla luce di una candela. Nessuno, nemmeno lui, sapeva dire perché in quella stanza non ci fosse la luce elettrica. All’ondeggiante fiammella, le righe delle parole si attorcigliavano, linee contorte, lucide e incomprensibili. Cosa studiava continuamente quel ragazzo? Un giorno nella camera entrò qualcuno che gli chiese un bacio. Quel ragazzo fissò ancora per un attimo quella pagina che stava leggendo; le bisce si contorcevano sulla carta; il ragazzo si alzò e concesse quel bacio. Come è ben dire alla fine di ogni parabola: «Chi ha orecchie per intendere intenda».