Archivio di febbraio 1989

50 – Febbraio ‘89

mercoledì, 1 febbraio 1989

Benjamin Britten (1913-1976), è uno tra i più validi e importanti compositori del nostro secolo. Le sue composizioni strumentali vocali e teatrali, rivelano un ec1ettismo così ben armonico che le pur molteplici e riconoscibilissime influenze di altri compositori non gli hanno impedito di formarsi un linguaggio assolutamente personale, riconoscibilissimo. Le sue migliori composizioni non rivelano mai momenti di stanchezza creativa: sono scattanti, sensuali, ironiche e si fondano su di una profonda conoscenza della voce umana, degli strumenti e dei linguaggi compositivi. Possiede pure la dote di una grande intuizione teatrale: da Peter Grimes al Turn of the Screw, le sue opere sono veri spettacoli in cui la musica è straordinariamente unita agli avvenimenti scenici: melodie fluenti, ammiccamenti geniali, stupendo uso della vocalità che si appoggia su di un’ottima orchestrazione; sono cioè presenti tutte le caratteristiche del vero compositore di teatro.
Tutte queste caratteristiche sono ben rilevabili anche nell’operina comica Albert Herring, che la Glyndbourne Touring Opera ha messo in scena al Teatro Olimpico per la stagione dell’Accademia Filarmonica Romana.
Scritta nel 1947 (da Eric Crozier che ha adattato una novella di Maupassant) la storia disegna, in tre atti, un ironico bozzetto di vita della provincia inglese della prima metà del secolo, attraverso la vicenda del giovane Albert, che in mancanza di fanciulle abbastanza virtuose per ottenere la coroncina e il premio in danaro destinati alla «regina di maggio», viene eletto, come unico simbolo di virtù esistente in paese, «re di maggio». Il ragazzo però, anche grazie al coraggio che gli viene da una sbornia di limonata corretta al rum dallo scherzo di un amico, si ribella al ruolo, in cui lo vogliono costringere, di virtuoso un po’ imbecille e fugge di casa e alle sgrinfie della madre oppressiva, per spendere in piaceri in una «public house» i soldi del premio. Tutto finisce bene, col ragazzo che diventa uomo, padrone alfine di se stesso.
I personaggi, musicalmente sono tutti caratterizzati con estrema arguzia e precisione; la piccola compagine orchestrale, con i suoi suoni, è strettamente legata ad ogni nota che viene cantata sulla scena.
I vari strumenti sono sempre nitidamente percepibili in ogni momento espressivo e acquistano a loro volta la caratteristica di personaggi, come se rappresentassero tutto il paese che commenta l’azione principale. Lievi e precisissimi impasti strumentali, un caleidoscopico succedersi delle tonalità, che talvolta abilmente si sovrappongono, rendono la tessitura orchestrale leggibilissima anche per un orecchio distratto. Gustosa la presenza arguta e talvolta ingenuamente malinconica del pianoforte. Le voci continuamente e senza fratture, passano dal canto spiegato al recitativo, a qualche frase di cantato-parlato e a momenti di stupendo concertato. Non si creda che siano presenti però soltanto aspetti variopinti, grotteschi o umoristici; basti notare gli attimi dolci e sentimentali come quelli dell’idillio tra i due innamorati Sid e Nancy, oppure gli accenni quasi tragici del lamento per la presunta morte di Albert.
Tutti gli interpreti sono stati bravissimi:
voci estremamente duttili, ricche di espressività cui si univa una grande capacità recitativa; mai un momento di eccesso nelle pause o di imprecisione nel ritmo.
John Graham-Hall ha magnificamente interpretato il ruolo del protagonista Albert, con una voce dall’estensione non eccessivamente ampia, ma colorita, precisa e adattissima al personaggio. Gerald Finley ha interpretato Sid dandogli una bella voce piena e sensuale. La Nancy di Luise Winter si notava per la voce incisiva e limpida. Molto chiaroscurato, dal tono giustamente grottesco, è sempre stato il canto di Pauline Tinsley nei panni della divertentissima Lady Billows. Bravi anche tutti gli altri: Susan Bickley, Elizabeth Gale, Philip O’Reilly, Alexander Oliver, Richard Van Allan, Menai Davies, Helen Williams, Lynne Davies, Gary King.
Graeme Jenkins è stato splendido: sotto la sua direzione i solisti di «The London Sinfonietta» sono stati precisissimi, senza alcuna rigidità: tutte le note risultavano quanto mai «pulite» e sempre suonate con attento ritmo e calore.
La messinscena di Cristopher Newell risultava quanto mai gradevole, nella sua semplicità.

50 – Febbraio ‘89

mercoledì, 1 febbraio 1989

Per la stagione dei concerti di musica da camera dell’ Accademia di S. Cecilia, nell’auditorio di via della Conciliazione, il 20 gennaio, Maurizio Pollini ha tenuto un concerto che ha riscosso un successo straordinario ed ovazioni per ogni brano eseguito compresi i bis chopiniani (come era ovvio che fosse). Noi siamo rimasti molto più freddi del pubblico, davanti a queste sue interpretazioni, pur riconoscendo che sono state tutte di grande interesse e stimolo per meditazioni e considerazioni. Non è stato certo un concerto «banale» e neppure. semplicemente «virtuosistico». Noi che lo seguiamo fin dalle sue prime apparizioni in pubblico, abbiamo sempre constatato in lui evidenti segni di una continua ricerca, poetica ed estetica, della quale il concerto appena ascoltato ci sembra però essere un punto in qualche modo rischioso.
Un punto che non ci sembra né di arrivo né di svolta tale da far sperare in future proficue evoluzioni: il Maestro ci sembra essersi insabbiato. La sua è una splendida stasi che, a nostro avviso, può però solo essere il preludio di un declino; poiché anche il rimanere a questa fase significherebbe lasciare il suo lavoro ad un preoccupante livello di indeterminatezza e confusione stilistica. Pollini ha scavato la musica e la sua anima dall’interno, nel tentativo di liberarle da ogni orpello, cercando cioè di arrivare all’essenza, ma qualche cosa nella sua coraggiosa e geniale avventura non ha funzionato.
Prendiamo, ad esempio, il primo brano in programma: la Sonata-Fantasia in sol maggiore, op.78 D.894 di F. Schubert, il cui esito è stato un grande pasticcio;
momenti di grande pianismo e sapienza espressiva, uniti a lunghe pIaghe di monotona ripetitività. L’ossessivo grumo armonico del primo tempo Molto moderato e cantabile è stato ripetuto con disarmante monotomia, con effetti di piatta banalità. L’Andante del secondo tempo ha permesso di apprezzare bene gli stupendi e sfumatissimi passaggi tra il forte e il piano, ma d’improvviso una cantabilità troppo trattenuta rendeva alcune belle melodie zuccherose e dolciastre, quasi come se fossero eseguite da un principiante troppo sentimentale. Meraviglioso è poi stato l’impasto ritmico e sonoro del Minuetto e Trio; il bel brano ampio del finale è stato reso con grande fluidità, frammentandolo però in tanti piccoli bozzetti «realistici» di vita agreste e di aia contadina e non siamo in grado di dire se ciò sia stato un bene o un male.
Nei successivi Sei piccoli pezzi per pianoforte op. 19 (1917) di Arnold Schoenberg l’esecuzione è stata perfetta: sentimentalissima e filologicamente corretta. I suoni, stilisticamente analoghi ai ghirigori di una vetrata secessionista, si alternavano alle pause, simili ai racemi metallici che legano fra loro quelle lastre di cristallo dipinto.
Il V e il IX dei Klavierstucke di K. Stockhausen (1952-62) sono brani di musica triviale e sgangherata, fatta per stupire gli ingenui, che il pianista ha eseguito molto correttamente, in modo un po’ scolastico.
La Sonata in fa minore op.14 (Concert sans orchestre) (versione del 1835) di R. Schumann ci ha permesso di apprezzare infine una meravigliosa esecuzione «all’antica», perfetta nei momenti languorosi e in quelli irruenti, con stupende sfumature timbriche e sonore.
Noi consigliamo a Maurizio Pollini di sospendere per almeno due anni l’attività pubblica, durante i quali, dopo essersi trovato in qualunque parte del mondo un Maestro, sappia con lui ricostruire la propria unità spirituale ed artistica.
Se avrà l’umiltà di farlo potrà forse darci l’opportunità di ascoltare presto uno dei .più grandi pianisti di questo secolo.

50 – Febbraio ‘89

mercoledì, 1 febbraio 1989

Squali

Ci sono situazioni e momenti in cui si prova vergogna e ribrezzo all’idea di avere qualcosa a che spartire con la psicoanalisi e con gli psicoanalisti; o almeno di aver a che fare con quella misera cosa alla quale i «mass-media» hanno ridotto l’una e gli altri.

Quasi sempre ciò si spiega con la volgarità cui fa ricorso il giornalismo meno qualificato, quando tenta di tradurre in soldoni le complicate e difficili concezioni dell’uomo e del suo significato, che la scienza psicoanalitica va faticosamente e pazientemente (tra troppe contraddizioni forse) elaborando. In questi casi, lo scadimento del discorso è inevitabile, data la scadente qualità dell’informazione ogni volta che pretende di farsi divulgazione. Quello che però fa stare veramente male chiunque abbia un minimo di rispetto per la dignità umana è la cialtroneria cinica di coloro (sono davvero troppi) che, fregiandosi della qualifica di psicologo o psicoanalista, svendono in interviste scritte o in apparizioni televisive la propria scienza, incuranti persino dei danni che spesso provocano.
È colpa loro infatti se la psicologia, in tutti i suoi aspetti, ha assunto nell’inconscio sociale due caratteristiche tanto opposte quanto entrambe negative.
Da una parte, infatti, la pretesa di costoro di poter sempre fornire spiegazioni sui fatti più disparati mira
a far credere che psicoanalisi e psicologia siano vere e proprie «scienze delle scienze», in grado di leggere il codice segreto che regge l’universo. Il che è falso. Dall’altra, la genericità e la povertà dei quattro schemi «interpretativi» sempre uguali e applicati ogni volta allo stesso modo, toglie al loro strumento scientifico ogni credibilità e spesso suona anche offesa al dolore degli uomini.
Offende per esempio che, a commento dell’orrore suscitato da una tragedia in cui un uomo, recentemente, ha perso la vita, vittima (chissà come e perché) di uno squalo, qualcuno possa aver messo in bocca al «grande vecchio della psicoanalisi italiana» la frase: «È una paura che non ci passerà mai che viene a galla (sic!) all’improvviso, e rappresenta lo spettro di essere inglobati, in modo orribile, in un altro organismo. »
Frase che, se fosse stata davvero pronunciata in questi termini, suonerebbe come un insulto a chi per questa morte ha veramente sofferto.
Quale legge ci proteggerà mai dai pescecani?

50 – Febbraio ‘89

mercoledì, 1 febbraio 1989

Noi, non sappiamo più quando, richiamandoci ad una affermazione, non sappiamo più di chi, abbiamo scritto una solenne imbecillità, affermando che un autore ripete sempre la stessa opera. Cosa quanto mai falsa: questo vale soltanto per i mediocri. I veri e sinceri artisti possono talvolta variare un tema, ma le loro variazioni sono ogni volta creazioni nuove che esprimono sensazioni, sentimenti e armonie del tutto nuove. La pittura di Claudio Bogino, presente in questi giorni con 14 opere alla galleria «Il gabbiano» di via della Frezza, è grandemente «a rischio». Grande è la sua sapienza nel tracciare il disegno, nello stendere i colori e nell’uso ottimale che fa della luce. Tommasi Ferroni e Fabrizio Clerici entrano quasi imperversanti in ciascuna delle sue tele: è giusto richiamarsi ai maestri, ma non è giusto rifare 14 volte lo stesso quadro, non solo ripetendo ne l’iconografia, ma riproponendo alla lettera lo stesso fraseggiare poetico.
Fin dai titoli, ricorre costantemente la parola interno ed infatti lo stesso interno è riproposto ogni volta, coi suoi pavimenti di piastrelle a disegni geometrici, col cavalletto variamente rovesciato, con ingranaggi, drappi diversamente composti, calchi di antiche sculture classicheggianti, riproduzioni di pitture rinascimentali abbandonate e accartocciate.
Lo stupore di fronte al sortilegio iperrealistico che fa quasi balzare dal muro sull’osservatore quel piccolo mondo di oggetti, decisamente incongrui, lascia pian piano il posto, però, alla sensazione del già visto, che rischia, alla lunga, di annoiare. Come di fronte al virtuosismo degli acrobati, che nel suo replicarsi sempre negli stessi passaggi, perde la carica emotiva, così la perfezione tecnica di Bogino finisce per suscitare la voglia di vederlo fare qualcosa di «diverso», di inaspettato; infine: di emozionante.

Alla galleria «L’Indicatore», di largo Toniolo 3 sono esposte 30 opere recenti di Alessio Paternesi. In quasi tutti i quadri di questa mostra è rappresentata la figura umana, immersa in una cornice naturale. Nonostante ciò in noi è sorto prepotente il dubbio che l’autore concepisca gli esseri umani più come fantasmi che come creature viventi. Forse sono ectoplasmi richiamati in questo mondo da una volontà medianica, o forse solo ricordi di un mondo di morti. Certo che quelle figure hanno conservato ben poco di vitale e quel poco è costituito da un’impronta di leggera volgarità. Quella di Paternesi sembrerebbe voler essere una pittura del quotidiano; c’è infatti un tentativo di fuggire ogni tentazione di arte decadente che però si risolve in una realtà di arte decaduta a povera cronaca. La robustezza delle figure, si richiama esplicitamente alla plasticità di grandi maestri come Sironi, Martini e Carrà e insieme però alla funebrità espressiva dell’arte tombale del Fayum.
Se il buono di Paternesi è l’uso del colore, le sue luci risultano però artefatte fino alla falsificazione. La lettura dei dettagli: indumenti, gesti e animali rivela intenzioni così dimesse da sfiorare il cattivo gusto, in cui cadono alcune figure, specialmente di bambine, semi svestite, in acqua o sulla spiaggia. Non è certo la «scuola» che manca a Paternesi, ma forse dovrebbe liberarsi di certa pigrizia intellettuale che lo consegna a moduli pittorici eccessivamente scontati.

50 – Febbraio ‘89

mercoledì, 1 febbraio 1989

In questi ultimi anni, gli studiosi e gli storici delle varie arti amano assumere l’atteggiamento «obiettivo» nei confronti delle opere maggiori e dei geni della nostra cultura. Le analisi filologiche si sprecano, fioriscono le biografie non encomiastiche e refrattarie all’iperbole.
Tutto questo, se per un verso va considerato positivamente, in quanto restringe e limita il campo degli sproloqui animosi pro oppure contro un grande artista del passato, dall’altro dà a tutti questi lavori un che di «burocratico» ed addirittura, quando l’obiettività vuol essere portata ai livelli massimi, si produce il racconto di vite, che, oltre che noiose, appaiono false e si analizzano opere d’arte riducendole a puri scheletri inerti.
Soltanto la psicoanalisi continua imperterrita ad infiltrarsi, talvolta persino subdolamente, in questi studi, conferendo loro un tocco ad un tempo ingenuo ed umano. A dispetto della compassatezza critico-storica, la figura di W. A. Mozart è esplosa nell’inconscio sociale dei nostri tempi. La sua musica è fruita a tutti i livelli, la sua vicenda personale entusiasmante, poetica e misteriosa, commuove persone di ogni classe sociale.
Non sappiamo quanto siano rispettosi della realtà film, spettacoli e romanzi costruiti su di essa, però in quasi tutti c’è qualcosa di partecipe e, grazie al cielo, anche di spudorato; perché «quella» musica è essenzialmente senza pudore. Quando la ascoltiamo a noi viene spesso da dire: «Ma è indecente, tutto questo! È troppo bello e troppo vero.» La musica parla della verità senza servirsi delle parole, e quella mozartiana rivela una verità impronunciabile: divina ed umana allo stesso tempo.
È da non molto uscito un libro di Danilo Faravelli, W. A. Mozart 1756-1791, Un musicista fra Antico Regime e Mondo Nuovo (Editori Riuniti, 1989, pagg. 170, Lit. 10.000) che, in poche pagine, racconta tutta la vita di Mozart, senza avere peraltro la pretesa di analizzarne l’opera. Purtroppo un po’ dell’atteggiamento obiettivo di cui parlavamo sopra, frigido e impettito, è presente anche in questo scritto: l’autore eccede nel voler ridimensionare le leggende, tentando di radicare il suo racconto su elementi storici e sul buon senso; però siccome è percepibilissima un’ottima sensibilità musicale e una sincera venerazione per Wolfango Amedeo Mozart, l’operina ha una sua grazia e una gradevolezza di lettura.
Anche qui la psicoanalisi occhieggia, ma con discrezione, senza ridicole ipotesi interpretative. Il testo è corredato da una breve, ma utilissima, appendice bibliografica, e risulta nel complesso un buon tentativo di presentare correttamente la vita del più grande Artista dell’universo.

50 – Febbraio ‘89

mercoledì, 1 febbraio 1989

La sera in cui siamo andati con molti amici nel localino di via di Monte Giordano 28: Giulio passami l’olio non avevamo con noi nessuno che si chiamasse Giulio, però, sui rotondi tavolini di marmo liberteggianti l’ampollina dell’olio non c’era, cosicché non abbiamo avuto modo di fare il verso all’insegna di questo «wine and music bar club».
Né olio, né tracce di nessun altro condimento abbiamo però trovato nella smisurata quantità di piatti che abbiamo voluto assaggiare.
Alle tartine multiformi: al caviale di melanzane, acquose ed amare, ai paté di vecchie scatolette o all’insipido salmone, sono seguite altrettanto multiformi e per di più dissennate insalate: Elvire (mais, funghi, avocado e mela), Pomme de terre (patate, uova sode, uova di lompo e gamberetti), Mignon (mais, rughetta e parmigiano) in grandi coppe di vetro che mostravano in tutto il loro splendore i vari ingredienti assemblati senza alcun rispetto per gli accostamenti di sapore. o per l’equilibrio delle parti; persino il carpaccio ai funghi e parmigiano ancorché scondito, pareva disidratato. Estrema dissennatezza ci sono parse infine le crèpes, molli involucri biancastri, sommersi di cremoso biancore, dentro i quali era inutile sperare di trovare il sapore previsto: di ricotta e spinaci, oppure di gruviera, scamorza e fontina o di funghi porcini.
I vini della già non entusiasmante lista erano o molto scadenti come un Pinot rosato (messo in bottiglia nel 1988) che ricordava la sciacquatura delle botti, o maltenuti e un po’ passati come il Riesling e il Tocai serviti fuori tempo massimo. Il locale offre anche un allettante (sulla carta) elenco di cocktail, ma, dopo l’esperienza che ne abbiamo fatta, non li consigliamo a nessuno, neppure per fare uno scherzo di carnevale.
Dell’arredamento e del posto c’è da dire che, a parte il gioco eccessivamente insistito dei «dagherrotipi» da postribolo, è abbastanza accogliente ed ha qualche tocco di ricercatezza, come per esempio nelle posate.
Il prezzo è tutt’altro che basso!

Nel panorama cittadino, il ristorante Papà Giovanni, in via dei Sediari 4, è da tempo immemorabile uno dei santuari, ai quali è d’obbligo aver fatto visita al- meno una volta. Noi ci siamo ritornati talora, anche a distanza di molto tempo, rimanendone però sempre assolutamente scontenti. Non solo l’ambiente rassomiglia troppo ad una tomba egizia: due lunghi cunicoli e un arredamento fitto di suppellettili; ma quello che proprio non è più vitale da tempo immemorabile è la cucina.
Domina un miscuglio di idee che vorrebbero essere originali, ma che sono soltanto squallide; la qualità degli ingredienti lascia molto a desiderare e la loro manipolazione è assolutamente inadeguata.
Appena ci siamo seduti, l’ultima volta, amo stati aggrediti da un bollente vin brulé, trovata balzana, ma dato il freddo notturno, tutto sommato abbastanza accettabile (del resto non abbiamo noi per primi sempre sostenuto che ciò che digestivo è anche aperitivo?). Di lì in poi, potremmo proprio dire, come gli antichi, «hic sunt leones». La misticanza con nervetti, consisteva in un mucchietto di carne insapore, sepolto da una foresta di verdure tra le quali predominava una rughetta cresciuta come un baoab. Lacrimevole addirittura l’insalata del faraone che vedeva un bel piatto di arance e cedri, delicatamente profumati, scempiato da una sbriciolatura di uova di lompo rosso e nero, la cui salata «pesciosità» offendeva la timidezza negli altri due ingredienti. I ravioli alle castagne risultavano dolciastri in modo insostenibile e per di più la gommosa pasta era sommersa da un mascarpone viscido reso più assurdo da alcuni gherigli di noce. La stessa pasta avvolgeva il ripieno di quelli alla borraggine il cui gusto amarognolo faceva a pugni col condimento di formaggio dolce. Il polpettone al cannellino era un trito di carni stantie e mal assortite, accompagnate da carciofi resi intensamente aromatizzati da ricordare una famosa colonia «for men». Le listarelle di capretto erano forse l’unica cosa la cui insipida neutralità non offendeva, anche se il purè era bruciato. Il sufflé di ricotta era un massiccio sformato di ricotta salata, stridente col sapore d’arancio e di zucchero; e i profiteroles con crema di castagne erano impressionantemente simili ai ravioli.
Buono il Genzano bianco della casa (sfuso) e un Dolcetto d’Alba profumato ed armonico. Pur nella modestia degli ingredienti e dei vini scelti, siamo riusciti a pagare una cifra così alta che ci ha lasciati di stucco.

50 – Febbraio ‘89

mercoledì, 1 febbraio 1989

La compagnia «La Contemporanea 83» ha messo in scena al Teatro Due, di via dei Due Macelli, Amori difficili (premio IDI 1988) di Giacomo Piperno, che è anche il protagonista dei quattro atti unici che compongono lo spettacolo.
Il testo è decisamente sciatto e noioso, con molte punte di volgarità: un umorismo da avan-spettacolo, però con la tronfia pretesa, qua e là, di inserzioni surreali. La prima scenetta, «Sabato sera», racconta una serata trascorsa insieme di un’anziana fidanzata ed un fidanzato con tendenza al travestitismo; nella seconda «Amore a mezzo servizio» una più che realistica cameriera, in romanesco, seduce il suo datore di lavoro, a suon di parolacce e di preziosi vasi infranti; ne «Il pescatore e la cantante» una fanciulla, canticchiando, parla dei suoi ricordi a un pescatore, che forse è anche lo zio stupratore della sua infanzia, ma forse i due ripetono da sempre la stessa scena; ne «Lo scompartimento» una viaggiatrice tollerante socio-psicologo-psichiatra protegge dal controllore un infernale compagno di viaggio logorroico e affetto da instabilità psicomotoria.
La regia di Lorenzo Salveti non aiuta certo né gli attori né il testo, facendo affondare queste esili gag in paludi di lentezza e di monotonia.
Nonostante tutto, invece, gli attori della compagnia, a cominciare da Giacomo Piperno, hanno dimostrato tutti buone capacità, che è stato un peccato vedere mortificate sia dal testo sia dalla regia. Le quattro valide «spalle» femminili erano: Laura Panti, Claudia Della Seta, Teresa Patrignani e Federica Tatulli. Mario Podeschi ha indossato le vesti del «controllore» ferroviario.
Le musiche erano curate da Paolo Terni, le scene e i costumi da Bruno Buonincontri.

Lo scrittore e drammaturgo Per Olov Enquist, ci pare abbia assimilato molto bene il linguaggio teatrale e le atmosfere strindberghiane; infatti, nelle sue Tribadi, andato in scena al Teatro Colosseo, nell’allestimento della Compagnia Stravagario Maschere, col patrocinio dell’ Ambasciata di Svezia, il miscuglio di frammenti tratti dallo stesso Strindberg e quelli creati dall’autore, non lascia intravedere salti stilistici o punti di sutura. Questo testo del 1975 sembra però scritto da uno Strindberg arteriosc1erotico: più ripetitivo del solito, più volgare, più rozzo e, sebbene il teatro di Strindberg in quanto a noia non scherzi, anche più noioso. Riconosciamo che qualche scena e qualche tirata non sono prive di effettacci che talvolta risvegliano lo spettatore assopito; anche le lunghe sequele di parolacce risultano messe al punto giusto e quindi non sono del tutto gratuite. Questo stile «alla Strindberg» può darsi che sia dovuto anche all’ottima traduzione di Maria Pia D’Agostino, che traduce Enquist-Strindberg con attenzione ,ottenendo l’effetto del migliore Strindberg quale ci è dato conoscere in italiano. L’idea di questo lungo atto unico consiste nel trasportare sulla scena in un ennesimo esempio di teatro nel teatro – un momento della vita artistica e sentimentale del drammaturgo svedese e di sua moglie, colti quando, alla fine della loro esperienza matrimoniale, tentano di allestire in un teatro di Copenhagen l’atto unico «La più forte» con cui egli spera di tornare a farsi apprezzare come autore e lei gioca la carta di un ritorno come protagonista sulle scene. La stretta affinità, almeno emotiva, tra la vicenda da rappresentare e la personale vicenda coniugale ed esistenziale dei due, trasforma le prove in continue ragioni di scontro, che ci permettono tra l’altro di cogliere un condensato di quello che era la lotta tra i due sessi verso la fine del secolo scorso, quando il femminismo avanzava e il maschio pareva essere quanto mai disorientato. In realtà questo aspetto sociologico ed emblematico non viene molto alla luce, perché i personaggi sono tutti desolantemente stupidi e cattivi. La moglie è una donnetta frivola e volgare, il marito un trombone che strilla frasi aggressive e talvolta piagnucolose; la seconda attrice, Marie Caroline David, oggetto perturbante ed istigatrice, non risulta essere altro che un’oca lesbica ed intrigante. Il secondo attore parla per frasi pre-stampate, quasi senza collegarle le une con le altre.
Ci ha lasciati ammirati la bravura dei due interpreti protagonisti. Ugo Margio (Strindberg) con abilità veramente sbalorditiva è riuscito, quasi soltanto con il suono della voce, l’intonazione e il gesto a costruire il personaggio che l’autore ha mancato e a dare un senso alla congerie dissennata di battute. La sua dizione efficacemente un po’ impastata trovava accenti variatissimi, disperati, rabbiosi e sommessi, che rendevano plausibili anche le oscenità.
Valeria Ciangottini è riuscita a tendere l’esile personaggio di Siri von Essen, fino a comunicare allo spettatore, al di là del testo, drammatiche sensazioni, oscillanti tra ambiguità e scoperta ingenuità.
Un po’ amorfa ci è parsa la prestazione di Donatella Lepidio ed eccessivamente rigida e stentorea quella di Alessandro Lanza.
Intelligente ed efficace la regia dello stesso Margio. Scene e costumi di routine, le une di Fabio Luzi, gli altri di Brunella Tonnetti.

Psicoanalisi contro n. 50 – L’ingiusta solitudine

mercoledì, 1 febbraio 1989

E’ molto difficile accettare di essere giudicati ed anche di giudicare.
Tutti gli esseri umani, più o meno consapevolmente, vogliono giudicare, ma, almeno apparentemente, non vogliono essere giudicati. Le tecniche che ciascuno mette in atto per giudicare, evitando però il giudizio degli altri, sono molteplici ed io qui non posso certo enumerarle tutte, ma, rovistando nella mia memoria di psicoanalista e di uomo, mi rendo conto di aver accumulato una discreta esperienza. C’è chi parla molto e sottopone continuamente il mondo circostante ad analisi e giudizi severi, dai quali risulta chiarissimo che i propri sono gli unici giudizi sulla realtà ritenuti plausibili. C’è anche chi, al contrario, tace: silenzioso ed assorto come una statua non ascolta quello che gli dite; le vostre parole gli scivolano addosso: a differenza della statua di Condillac, però, ha chiuso tutti i suoi canali di percezione del mondo. C’è anche chi capovolge il senso di tutto ciò che gli viene detto: questo è un tipo molto pericoloso, perché si muove nell’ambiguità; è una persona viscida e malfidata che, appositamente, ricorda male quello che gli è stato detto e fa il possibile per indurre nell’interlocutore il dubbio, il timore di non aver parlato sufficientemente chiaro – cosa che talvolta può davvero succedere – per cui si resta interdetti, finendo col dargli grossi vantaggi. Di genere opposto sembrerebbero essere quelli che, continuamente, chiedono giudizi su ogni cosa che li riguardi, ben decisi, peraltro, a non tenerne assolutamente conto: costoro sommergono il prossimo con melliflue richieste di consigli, determinati a seguire solo quelli che coincideranno con le decisioni che loro stessi hanno già preso. Altri invece fuggono, divagando sempre e passando a nuovi argomenti, prima che si riesca ad esprimere loro un parere su qualsiasi cosa. C’è chi invita amici e conoscenti a mettersi ogni volta in discussione, ben attento a non tirare mai in ballo se stesso. I più terribili, per me, sono però quelli che, dopo aver sollecitato un parere, se appena trovano chi obietti loro qualcosa, accettano l’obiezione radicalmente, con eccessiva adesione al giudizio negativo su di loro o sul loro gesto: costoro con sottile perfidia e tremendo cattivo gusto trasformano la critica loro mossa in una litania di autodenigrazione, spietatamente torturando chi li ha disapprovati e trasformando questa disapprovazione in una condanna eccessiva ed insensata; si ripromettono – con atteggiamento minaccioso verso chi sta loro di fronte – le più spietate gesta di autopunizione e di automortificazione, togliendo così, di fatto, ogni possibilità di vera critica.

2

Ognuno di noi tenta, in realtà, di sottrarsi al giudizio altrui e si arroga il diritto di fare da giudice. Forse, come si dice, ciò avviene perché siamo il frutto malato di una cultura giudaico-cristiana, per la quale la divinità è soprattutto intesa come autorità giudicatrice; ma io sono più propenso a credere che questa idea venga, in gran parte, da una imbelle abitudine mentale di una certa sociologia antropologica. Il Dio degli ebrei e dei cristiani è invece il Dio più umano e semplice che l’uomo abbia mai concepito: «… perché io sono il Signore Dio tuo, forte, geloso (…) e faccio misericordia per migliaia di generazioni a quelli che mi amano…» (Esodo, 20).
Un Dio che riconosce di essere geloso, di desiderare l’amore, tenero e caldo, degli uomini, che chiede di non essere abbandonato. Che inoltre manda il proprio figlio, Gesù, a parlare bensì di giustizia, ma soprattutto di amore e di perdono, rivela una gran voglia di amare e di essere amato, più che di giudicare per punire. «Padre, perdona loro, perché non sanno quel che fanno» (Luca, 23,34).

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Gli esseri umani giudicano così spesso forse anche per vincere la noia. Se si ascoltano quattro ragazzi, maschi e femmine, all’uscita dalla scuola, li si sente spessissimo parlare dei loro compagni, emettendo a getto continuo sentenze di assoluzione o di condanna. Lo stesso fanno gli operai di una fabbrica, gli impiegati di un ministero, gli scienziati di una commissione: tutti giudicano, quasi sempre per condannare, solo qualche rara volta per assolvere. Giorni fa sentivo una mia zia parlare con una sua amica di una terza persona: la stavano giudicando e condannando. Non è difficile notare l’abitudine delle donne di casa, quando portano un piatto in tavola, mentre sparecchiano, parlano quasi soltanto per esprimere giudizi e critiche su ogni cosa: dal comportamento dei commensali all’operato del portiere dello stabile, sulla sua vita privata e su quella dei suoi famigliari; passando poi da un argomento all’altro, giudicano i vicini e poi il conduttore di una trasmissione televisiva. Quasi sempre concludono ogni discorso con la frase: «A me non importa nulla, faccia pure come vuole!».

4

A parte la superficiale spiegazione della noia, alla quale ho accennato qui sopra, da cosa sorge però, andando più a fondo, questa esigenza giudicatrice così assillante?
L’antica psicoanalisi parlava del SuperIo: un’istanza psichica che avrebbe soprattutto la funzione di giudice. Neppure io, che ormai credo (pur con tutto il rispetto che riconosco le sia dovuto) di essermi liberato da quella cultura «liberty», riesco però a liberarmi di questo Super-Io che, anzi, mi sembra avere ancor più significati di quanti gliene attribuisca generalmente la psicoanalisi. Freud usava – a mio avviso – il termine Super-Io molto scorrettamente: questo era per lui un’istanza giudicatrice che accoglieva in sé, in modo massiccio, le tracce delle figure genitoriali, come sarebbero state recepite nel periodo infantile. Sarebbe perciò un’istanza che è al di sopra della persona.
Il suo primo errore è stato di non far coincidere l’lo con la persona; inoltre ha posto barriere arbitrarie tra conscio ed inconscio, per cui è risultato che il Super-Io, che dovrebbe essere la proiezione interna di tutto l’individuo, è divenuto un giudice, staccato dalla persona, che ha solo la funzione negativa di impedire, punire e castrare.
Al contrario, è mia convinzione che io sono il mio Super-Io, o meglio: che il mio Super-Io è quell’aspetto della mia personalità che mi spinge a giudicare cosa è bene e cosa è male. Il concetto di bene e di male, invece deriva, secondo me, solo in parte dalle figure genitoriali; ma per il resto è frutto delle convinzioni, più o meno inconsce, della società. Nessuno è completamente libero nel giudicare il bene e il male: si è costretti a partire sempre dall’esterno: famiglia, microcosmo e società.

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Non essendo riuscito a liberarmi dal concetto di Super-Io, ho pensato, nella mia teorizzazione metapsicologica, di articolarlo in Super-Io-censore (cioè giudice del comportamento morale) e Super-Io piacere.
Il Super-Io-censore, giudica, condanna e talvolta anche approva (immagino l’orrore di chi ha sempre e soltanto voluto concepire il giudice come un giustiziere); il Super-Io -piacere, invece, decide che cosa è il piacere.
Così facendo – in pratica – mi accorgo di essermi liberato dal Super-Io. Il Super-Io-piacere e il Super-Io-censore sono infatti un’unica istanza che coincide con la persona, ma non la esaurisce. Entrambi hanno la funzione di richiamare continuante l’uomo alla sua limitatezza e finitezza, e quindi alla consapevolezza che l’assoluta libertà di giudizio è un’illusione. Inoltre, l’aspetto censore del cosiddettto Super-Io, stimola continuamente l’essenza giudicatrice. Purtroppo in questo mondo perverso e malato, in cui odio e invidia sopraffanno l’amore, i giudizi che conseguono sono per lo più di condanna e di castrazione.

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Tutti ricerchiamo continuamente anche il giudizio degli altri. Non solo, ma abbiamo inventato un meccanismo educativo, una scuola e persino un sacramento (cattolico) per cui il giudizio è l’elemento essenziale: premio o punizione, condanna o perdono, anche nell’al di là, addirittura! Io, Sandro, non sarò mai sufficientemente grato al figlio di Alighiero, autore di un’opera come «La commedia», divenuta famosa poi come «divina». Più che una commedia, una farsa stupenda, davvero divina, in cui ci ha messo a contatto con la punizione senza appello, con la diafana e azzurra punizione che porta alla salvezza e con lo splendore rutilante del paradiso. Dante aveva paura e desiderava quanto me il giudizio degli altri, perciò s’è tuffato nel mondo del giudizio. Con chi si era identificato? Con Farinata o forse con Lucifero stesso, con Sordello, con Beatrice o con San Bernardo? Qualcuno potrebbe dire che si era identificato con la Trinità. Ma, siamo sinceri, chi non si è mai identificato con la Santissima Trinità?
Io invito tutti ad immergersi nella bellezza davvero sovraumana della «Commedia» dantesca, per superare, almeno un poco, la paura del giudizio; anche se so che questa paura continuerà ad esistere e con essa continuerà ad esistere il desiderio di essere giudicati. Giudicati da chi? Dai genitori? Non li fuggiamo forse? Dagli amici? Eppure li contestiamo. Da chi ci ama? Ma se neppure lo ascoltiamo! Dall’autorità? La neghiamo. Dai più sapienti? Se avessimo fiducia in loro forse potremmo iniziare di qui il cammino verso la guarigione, se incominciassimo ad accettare l’ipotesi che esista qualcuno più saggio di noi e magari anche migliore di noi moralmente.

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La salute è ancora lontana. Non siamo tutti uguali, esistono individui migliori e peggiori; se una volta per tutte ci convincessimo di ciò, capiremmo anche che nessuno è davvero sostanzialmente diverso, così avremmo almeno imparato a non fare più troppe discriminazioni, ad entrare in relazione con gli altri, accettandoli per quali sono e proponendoci quali siamo. La cultura oggi ha due atteggiamenti fondamentalmente idioti: il primo è quello per cui distinguere tra migliore e peggiore significa discriminare: intelligenti e stupidi, bianchi e neri; l’altro è quello di negare, con vigliacca ipocrisia, le differenze tra gli uomini, sostenendone una falsa uguaglianza. Sono di questo genere i libertari della violenza e della castrazione, del ricatto e dello stupro. Questa è la nostra grave malattia. Se un giorno diverremo sani riusciremo ad accettare che qualcuno sia migliore di noi, per cui vale la pena starlo ad ascoltare, in silenzio dapprima, poi facendo domande e di nuovo ascoltando le risposte. Alla fine dovremo essere capaci di ringraziarlo e – se ne saremo in grado- di ricompensarlo, dopo essere diventati sì giudici, ma per amore.

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Ogni essere umano quindi rifugge dal giudizio e allo stesso tempo lo ricerca. Fugge perché non vuole riconoscere ad altri il diritto di condizionare il suo comportamento. Vuole essere giudicato perché spera di ottenere l’approvazione del suo operato. La solita frase sciocca: «Quello è un amico che mi capisce», spesso, nasconde l’intento di spacciare per comprensione l’incondizionata approvazione; io non ritengo che questa sia sempre manifestazione di amore; talvolta è viltà o piaggeria. Chi è malato, ma un po’ innamorato, spesso teme di scontentare l’amante, dissentendo e contestando; come il servo che teme di dispiacere al padrone, se non ride ai suoi motti di spirito, se non ne approva il gusto. Certo, quando si ama qualcuno, bisogna essere dalla sua parte, condividere le sue scelte di vita, partecipare alle sue fantasie, ai suoi desideri, ai suoi sogni, accettarne l’anima e il corpo; ma bisognerebbe anche avere la possibilità e la capacità, oltre che il coraggio, di muovere critiche negative. Io contesto profondamente la frase del vecchio Freud che privilegiando la verità della botanica rispetto alla poesia prendeva i carciofi per fiori davvero dicendo inoltre, da splendido carciofo qual era, che gli innamorati sono pazzi. Coloro che sopravvalutano l’oggetto amato, non lo percepiscono nelle sue prerogative e non ne colgono le caratteristiche essenziali, non sono innamorati, sono solamente pazzi; malati, cattivi ed egoisti, chiusi nella somma delle loro difese narcisistiche e sadomasochistiche. Chi realmente ama, seppure iper-valuta la persona amata, deve però essere in grado di vederne anche i difetti ed avere il coraggio di farglieli notare. Questo è l’amore; i baci, gli abbracci, le carezze. Tutto il resto è soltanto utile per un pinzimonio. Chi ha coraggio deve dire alla persona amata ciò che pensa, nel bene e nel male, come deve accettare nel bene e nel male quello che gli viene detto. Noi siamo però ancora così malati che neppure in una situazione di amore, caldo e tenero, ci tratteniamo dall’irrigidirci, se chi amiamo ha il coraggio di metterci in discussione. Questa è la malattia più profonda, grave e corrosiva per l’uomo: temere la critica negativa di chi lo ama. Vi sono legami, anche abbastanza profondi, che si sono spezzati di fronte alla sincerità. Tutti giudicano, tutti dicono di voler essere giudicati, nessuno però accetta di essere giudicato. Non però il Dio della Bibbia, non suo figlio, violenti, ma innamorati, ci hanno insegnato ad avere paura del giudizio; ma è stata la nostra caduta nel mondo che vive di pettegolezzo e su di esso costruisce il proprio esistere.

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Siamo nati, cresciuti ed educati in una società che stupidamente si diverte a criticare e giudica tronfiamente l’operato degli altri. Lo stesso tipo di giudizio lo portiamo dentro. È difficile dire quale dei due sia venuto prima, né sarebbe utile saperlo. Noi viviamo in questa società, della quale abbiamo introiettato alcuni precetti e sulla quale proiettiamo, a nostra volta, i nostri concetti di male e di bene, di dolore e di piacere. Quando però ci troviamo a dover determinare quale sia il male e quale sia il bene, quale il piacere e quale il dispiacere, spesso non sappiamo orientarci. È difficile orientarsi e molte sono le contraddizioni. Da piccolo mi piaceva toccarmi i genitali, una vecchia parente, troppo grassa e molto flaccida me lo proibiva. Mi piaceva anche fare la pipì a letto, ma un’altra figura, dolce e profumata mi si avvicinava per dissuadermi. Fin dalla più tenera età io ho detestato i giocattolini tintinnanti, fatti di sonagli e palline, come orribili testicoli azzurri, dal suono per me insopportabile; una figura dai capelli bianchi, mite e tenera, voleva convincermi che il loro fosse un suono bellissimo. Ancora oggi voglio dire a quella persona, che certo sta suonando un glockenspiel in paradiso, che il suono di quei bubboli era orribile; forse anche per questo ho scelto di diventare un musicista, perché mi sono ribellato all’imposizione di quella brutta musica: la musica deve essere ricercata e non imposta. Non so bene in quale misura il mio concetto di piacere e di Super-Io-censore abbiano determinato quel mio rifiuto, certo si sono uniti fino a coincidere e a determinare il mio giudizio.

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Come ho detto, Super-Io-censore e SuperIo-piacere coincidono perché sono sempre espressioni del mio Io, di me con le mie fantasie e i miei desideri. Ma il mio Io che cosa è? Io sono cosa voglio o cosa non voglio essere? Quello che so o non so di essere? Io sono le leggi che ho dentro, i desideri che mi sono permesso di avere; però sono anche ciò che va contro tutto questo e in più sono anche parte del mondo che mi circonda. E’ molto facile adesso fare una diagnosi e dire che io sono affetto da una forma di paranoia, per cui faccio coincidere il mio Io con il mondo intero. Eppure la stessa cosa vale per tutti. L’importante è che si sappia di non rappresentare l’unico mondo esistente, ma di essere un universo in relazione con altri universi, che hanno contribuito anch’essi alla costruzione di quello che siamo. Quello che io chiamo il mio mondo è degli altri e gli altri mondi mi appartengono in egual misura. Questa è confusione. La salute però non consiste nel rifuggire dalla confusione, nell’accettare solo principi semplici e lineari, idee chiare e distinte. Cartesio è stato un grande filosofo, totalmente imbecille: le idee chiare e distinte non sono mai esistite; sono soltanto la fantasia di chi ha paura di disperdersi nel mondo. Perché ho dato dell’imbecille ad uno tra i filosofi che io amo di più? Perché ho dato dell’imbecille a me stesso, identificandomi con Renato Cartesio. Entrambi siamo imbecilli perché temiamo di sognare e ci aggrappiamo disperatamente a questo Io penso; perché vogliamo esistere. Però bisogna ribellarsi a questo Io penso e scoprire che l’uomo non è solo pensiero: è semplicemente un uomo che pensa, che sente, che agisce e che ha timore di essere giudicato, pur avendone un gran desiderio.

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Per giudicare ed essere giudicati è indispensabile avere un concetto di giustizia; ma dove e quale è il principio di giustizia a cui si fa riferimento? La giustizia è virtù degli dèi. Dio è giusto proprio perché è Dio. Io credo in questo; sono affascinato dai Comandamenti dell’Antico Testamento e mi entusiasma il pensiero che Dio stesso sia il fondamento del mio concetto di giustizia. È stata una mia scelta; io e Dio siamo a confronto: la nostra è una lotta in cui spero di essere vinto e indotto ad accettare la sua giustizia. Accettarla non vuol dire illudersi di possederla, vuol dire semplicemente continuare a cercarla instancabilmente.
Se io ritengo che Dio sia il fondamento della giustizia, dove trovo però l’espressione concreta della giustizia? Mi fondo sugli antichi testi? Io preferirei percepirla presente nel mondo in cui mi trovo a vivere, che però mi pare, al contrario, quasi privo di ogni traccia di giustizia. E’ vero, talvolta incontro qualcuno che a me pare sappia dire parole di giustizia; ma su quale base io posso dire che costui dice parole giuste, dal momento che io e il mondo siamo così ingiusti?

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Molti pensano che si possa eludere il problema della giustizia parlando dell’ingiustizia; sorgono così fiumi di parole che denunciano le mille ingiustizie del mondo. Mi domando allora: se tutti costoro sanno così bene che cosa è l’ingiustizia, non sapranno anche con sufficiente precisione che cosa è la giustizia? Nonostante ciò, io, in realtà, non ho ancora trovato chi sappia darmi una definizione di giustizia che abbia una validità generale. Ingiustizia è sofferenza, prevaricazione, sfruttamento. La giustizia dovrebbe essere il contrario di ciò; ma come si realizza? Perché non ci chiediamo come mai noi riusciamo a cogliere abbastanza bene l’ingiustizia e poi non sappiamo definire la giustizia? È per questo che abbiamo paura di essere giudicati?

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In parte può essere anche per questo; ma io penso che non sia solo questa la ragione: noi temiamo di essere giudicati perché ci sottraiamo al confronto con gli altri. È questa la paura originaria che l’uomo prova nella sua relazione con il mondo. È vero che, mentre siamo trafitti da un raggio di sole, è subito sera; ma ancor più pesante è la condanna alla solitudine. La vita è breve e la sera viene subito, ma nella sera sentirsi soli riempie di disperazione. Io sento che ho dentro di me un’idea di giustizia che faccio fatica ad esprimere, ma quello che non riesco a sopportare è l’idea della solitudine. La solitudine esclude sia dalla giustizia sia dall’ingiustizia ed è un grave peso per l’uomo. L’ingiustizia si radica nella solitudine, è frutto di narcisismo e sado-masochismo. La giustizia è nel rapporto degli uomini con gli altri uomini.

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La relazione di per sé, non è sufficiente all’uomo. Potrei riempirmi la bocca e arricchire queste mie righe parlando della bellezza dei rapporti umani; ma nella relazione c’è, inevitabile, sia il germe della giustizia sia quello dell’ingiustizia. Ingiusto è esser soli, perché vuol dire non essere in rapporto col mondo, però è anche ingiusto accettare rapporti non basati sulla giustizia. L’ingiustizia e la giustizia si realizzano entrambe nel rapporto; ma l’ingiustizia si nutre anche dell’assenza di relazione, di violenza e di prevaricazione, che negano l’altro. Vorrei che tutti capissero quanto possa essere bello cantare insieme un canone a quattro voci. Ma chi si è chiesto che cosa sia un canone a quattro voci?