50 – Febbraio ‘89

febbraio , 1989

La compagnia «La Contemporanea 83» ha messo in scena al Teatro Due, di via dei Due Macelli, Amori difficili (premio IDI 1988) di Giacomo Piperno, che è anche il protagonista dei quattro atti unici che compongono lo spettacolo.
Il testo è decisamente sciatto e noioso, con molte punte di volgarità: un umorismo da avan-spettacolo, però con la tronfia pretesa, qua e là, di inserzioni surreali. La prima scenetta, «Sabato sera», racconta una serata trascorsa insieme di un’anziana fidanzata ed un fidanzato con tendenza al travestitismo; nella seconda «Amore a mezzo servizio» una più che realistica cameriera, in romanesco, seduce il suo datore di lavoro, a suon di parolacce e di preziosi vasi infranti; ne «Il pescatore e la cantante» una fanciulla, canticchiando, parla dei suoi ricordi a un pescatore, che forse è anche lo zio stupratore della sua infanzia, ma forse i due ripetono da sempre la stessa scena; ne «Lo scompartimento» una viaggiatrice tollerante socio-psicologo-psichiatra protegge dal controllore un infernale compagno di viaggio logorroico e affetto da instabilità psicomotoria.
La regia di Lorenzo Salveti non aiuta certo né gli attori né il testo, facendo affondare queste esili gag in paludi di lentezza e di monotonia.
Nonostante tutto, invece, gli attori della compagnia, a cominciare da Giacomo Piperno, hanno dimostrato tutti buone capacità, che è stato un peccato vedere mortificate sia dal testo sia dalla regia. Le quattro valide «spalle» femminili erano: Laura Panti, Claudia Della Seta, Teresa Patrignani e Federica Tatulli. Mario Podeschi ha indossato le vesti del «controllore» ferroviario.
Le musiche erano curate da Paolo Terni, le scene e i costumi da Bruno Buonincontri.

Lo scrittore e drammaturgo Per Olov Enquist, ci pare abbia assimilato molto bene il linguaggio teatrale e le atmosfere strindberghiane; infatti, nelle sue Tribadi, andato in scena al Teatro Colosseo, nell’allestimento della Compagnia Stravagario Maschere, col patrocinio dell’ Ambasciata di Svezia, il miscuglio di frammenti tratti dallo stesso Strindberg e quelli creati dall’autore, non lascia intravedere salti stilistici o punti di sutura. Questo testo del 1975 sembra però scritto da uno Strindberg arteriosc1erotico: più ripetitivo del solito, più volgare, più rozzo e, sebbene il teatro di Strindberg in quanto a noia non scherzi, anche più noioso. Riconosciamo che qualche scena e qualche tirata non sono prive di effettacci che talvolta risvegliano lo spettatore assopito; anche le lunghe sequele di parolacce risultano messe al punto giusto e quindi non sono del tutto gratuite. Questo stile «alla Strindberg» può darsi che sia dovuto anche all’ottima traduzione di Maria Pia D’Agostino, che traduce Enquist-Strindberg con attenzione ,ottenendo l’effetto del migliore Strindberg quale ci è dato conoscere in italiano. L’idea di questo lungo atto unico consiste nel trasportare sulla scena in un ennesimo esempio di teatro nel teatro – un momento della vita artistica e sentimentale del drammaturgo svedese e di sua moglie, colti quando, alla fine della loro esperienza matrimoniale, tentano di allestire in un teatro di Copenhagen l’atto unico «La più forte» con cui egli spera di tornare a farsi apprezzare come autore e lei gioca la carta di un ritorno come protagonista sulle scene. La stretta affinità, almeno emotiva, tra la vicenda da rappresentare e la personale vicenda coniugale ed esistenziale dei due, trasforma le prove in continue ragioni di scontro, che ci permettono tra l’altro di cogliere un condensato di quello che era la lotta tra i due sessi verso la fine del secolo scorso, quando il femminismo avanzava e il maschio pareva essere quanto mai disorientato. In realtà questo aspetto sociologico ed emblematico non viene molto alla luce, perché i personaggi sono tutti desolantemente stupidi e cattivi. La moglie è una donnetta frivola e volgare, il marito un trombone che strilla frasi aggressive e talvolta piagnucolose; la seconda attrice, Marie Caroline David, oggetto perturbante ed istigatrice, non risulta essere altro che un’oca lesbica ed intrigante. Il secondo attore parla per frasi pre-stampate, quasi senza collegarle le une con le altre.
Ci ha lasciati ammirati la bravura dei due interpreti protagonisti. Ugo Margio (Strindberg) con abilità veramente sbalorditiva è riuscito, quasi soltanto con il suono della voce, l’intonazione e il gesto a costruire il personaggio che l’autore ha mancato e a dare un senso alla congerie dissennata di battute. La sua dizione efficacemente un po’ impastata trovava accenti variatissimi, disperati, rabbiosi e sommessi, che rendevano plausibili anche le oscenità.
Valeria Ciangottini è riuscita a tendere l’esile personaggio di Siri von Essen, fino a comunicare allo spettatore, al di là del testo, drammatiche sensazioni, oscillanti tra ambiguità e scoperta ingenuità.
Un po’ amorfa ci è parsa la prestazione di Donatella Lepidio ed eccessivamente rigida e stentorea quella di Alessandro Lanza.
Intelligente ed efficace la regia dello stesso Margio. Scene e costumi di routine, le une di Fabio Luzi, gli altri di Brunella Tonnetti.