50 – Febbraio ‘89

febbraio , 1989

La sera in cui siamo andati con molti amici nel localino di via di Monte Giordano 28: Giulio passami l’olio non avevamo con noi nessuno che si chiamasse Giulio, però, sui rotondi tavolini di marmo liberteggianti l’ampollina dell’olio non c’era, cosicché non abbiamo avuto modo di fare il verso all’insegna di questo «wine and music bar club».
Né olio, né tracce di nessun altro condimento abbiamo però trovato nella smisurata quantità di piatti che abbiamo voluto assaggiare.
Alle tartine multiformi: al caviale di melanzane, acquose ed amare, ai paté di vecchie scatolette o all’insipido salmone, sono seguite altrettanto multiformi e per di più dissennate insalate: Elvire (mais, funghi, avocado e mela), Pomme de terre (patate, uova sode, uova di lompo e gamberetti), Mignon (mais, rughetta e parmigiano) in grandi coppe di vetro che mostravano in tutto il loro splendore i vari ingredienti assemblati senza alcun rispetto per gli accostamenti di sapore. o per l’equilibrio delle parti; persino il carpaccio ai funghi e parmigiano ancorché scondito, pareva disidratato. Estrema dissennatezza ci sono parse infine le crèpes, molli involucri biancastri, sommersi di cremoso biancore, dentro i quali era inutile sperare di trovare il sapore previsto: di ricotta e spinaci, oppure di gruviera, scamorza e fontina o di funghi porcini.
I vini della già non entusiasmante lista erano o molto scadenti come un Pinot rosato (messo in bottiglia nel 1988) che ricordava la sciacquatura delle botti, o maltenuti e un po’ passati come il Riesling e il Tocai serviti fuori tempo massimo. Il locale offre anche un allettante (sulla carta) elenco di cocktail, ma, dopo l’esperienza che ne abbiamo fatta, non li consigliamo a nessuno, neppure per fare uno scherzo di carnevale.
Dell’arredamento e del posto c’è da dire che, a parte il gioco eccessivamente insistito dei «dagherrotipi» da postribolo, è abbastanza accogliente ed ha qualche tocco di ricercatezza, come per esempio nelle posate.
Il prezzo è tutt’altro che basso!

Nel panorama cittadino, il ristorante Papà Giovanni, in via dei Sediari 4, è da tempo immemorabile uno dei santuari, ai quali è d’obbligo aver fatto visita al- meno una volta. Noi ci siamo ritornati talora, anche a distanza di molto tempo, rimanendone però sempre assolutamente scontenti. Non solo l’ambiente rassomiglia troppo ad una tomba egizia: due lunghi cunicoli e un arredamento fitto di suppellettili; ma quello che proprio non è più vitale da tempo immemorabile è la cucina.
Domina un miscuglio di idee che vorrebbero essere originali, ma che sono soltanto squallide; la qualità degli ingredienti lascia molto a desiderare e la loro manipolazione è assolutamente inadeguata.
Appena ci siamo seduti, l’ultima volta, amo stati aggrediti da un bollente vin brulé, trovata balzana, ma dato il freddo notturno, tutto sommato abbastanza accettabile (del resto non abbiamo noi per primi sempre sostenuto che ciò che digestivo è anche aperitivo?). Di lì in poi, potremmo proprio dire, come gli antichi, «hic sunt leones». La misticanza con nervetti, consisteva in un mucchietto di carne insapore, sepolto da una foresta di verdure tra le quali predominava una rughetta cresciuta come un baoab. Lacrimevole addirittura l’insalata del faraone che vedeva un bel piatto di arance e cedri, delicatamente profumati, scempiato da una sbriciolatura di uova di lompo rosso e nero, la cui salata «pesciosità» offendeva la timidezza negli altri due ingredienti. I ravioli alle castagne risultavano dolciastri in modo insostenibile e per di più la gommosa pasta era sommersa da un mascarpone viscido reso più assurdo da alcuni gherigli di noce. La stessa pasta avvolgeva il ripieno di quelli alla borraggine il cui gusto amarognolo faceva a pugni col condimento di formaggio dolce. Il polpettone al cannellino era un trito di carni stantie e mal assortite, accompagnate da carciofi resi intensamente aromatizzati da ricordare una famosa colonia «for men». Le listarelle di capretto erano forse l’unica cosa la cui insipida neutralità non offendeva, anche se il purè era bruciato. Il sufflé di ricotta era un massiccio sformato di ricotta salata, stridente col sapore d’arancio e di zucchero; e i profiteroles con crema di castagne erano impressionantemente simili ai ravioli.
Buono il Genzano bianco della casa (sfuso) e un Dolcetto d’Alba profumato ed armonico. Pur nella modestia degli ingredienti e dei vini scelti, siamo riusciti a pagare una cifra così alta che ci ha lasciati di stucco.