50 – Febbraio ‘89

febbraio , 1989

Per la stagione dei concerti di musica da camera dell’ Accademia di S. Cecilia, nell’auditorio di via della Conciliazione, il 20 gennaio, Maurizio Pollini ha tenuto un concerto che ha riscosso un successo straordinario ed ovazioni per ogni brano eseguito compresi i bis chopiniani (come era ovvio che fosse). Noi siamo rimasti molto più freddi del pubblico, davanti a queste sue interpretazioni, pur riconoscendo che sono state tutte di grande interesse e stimolo per meditazioni e considerazioni. Non è stato certo un concerto «banale» e neppure. semplicemente «virtuosistico». Noi che lo seguiamo fin dalle sue prime apparizioni in pubblico, abbiamo sempre constatato in lui evidenti segni di una continua ricerca, poetica ed estetica, della quale il concerto appena ascoltato ci sembra però essere un punto in qualche modo rischioso.
Un punto che non ci sembra né di arrivo né di svolta tale da far sperare in future proficue evoluzioni: il Maestro ci sembra essersi insabbiato. La sua è una splendida stasi che, a nostro avviso, può però solo essere il preludio di un declino; poiché anche il rimanere a questa fase significherebbe lasciare il suo lavoro ad un preoccupante livello di indeterminatezza e confusione stilistica. Pollini ha scavato la musica e la sua anima dall’interno, nel tentativo di liberarle da ogni orpello, cercando cioè di arrivare all’essenza, ma qualche cosa nella sua coraggiosa e geniale avventura non ha funzionato.
Prendiamo, ad esempio, il primo brano in programma: la Sonata-Fantasia in sol maggiore, op.78 D.894 di F. Schubert, il cui esito è stato un grande pasticcio;
momenti di grande pianismo e sapienza espressiva, uniti a lunghe pIaghe di monotona ripetitività. L’ossessivo grumo armonico del primo tempo Molto moderato e cantabile è stato ripetuto con disarmante monotomia, con effetti di piatta banalità. L’Andante del secondo tempo ha permesso di apprezzare bene gli stupendi e sfumatissimi passaggi tra il forte e il piano, ma d’improvviso una cantabilità troppo trattenuta rendeva alcune belle melodie zuccherose e dolciastre, quasi come se fossero eseguite da un principiante troppo sentimentale. Meraviglioso è poi stato l’impasto ritmico e sonoro del Minuetto e Trio; il bel brano ampio del finale è stato reso con grande fluidità, frammentandolo però in tanti piccoli bozzetti «realistici» di vita agreste e di aia contadina e non siamo in grado di dire se ciò sia stato un bene o un male.
Nei successivi Sei piccoli pezzi per pianoforte op. 19 (1917) di Arnold Schoenberg l’esecuzione è stata perfetta: sentimentalissima e filologicamente corretta. I suoni, stilisticamente analoghi ai ghirigori di una vetrata secessionista, si alternavano alle pause, simili ai racemi metallici che legano fra loro quelle lastre di cristallo dipinto.
Il V e il IX dei Klavierstucke di K. Stockhausen (1952-62) sono brani di musica triviale e sgangherata, fatta per stupire gli ingenui, che il pianista ha eseguito molto correttamente, in modo un po’ scolastico.
La Sonata in fa minore op.14 (Concert sans orchestre) (versione del 1835) di R. Schumann ci ha permesso di apprezzare infine una meravigliosa esecuzione «all’antica», perfetta nei momenti languorosi e in quelli irruenti, con stupende sfumature timbriche e sonore.
Noi consigliamo a Maurizio Pollini di sospendere per almeno due anni l’attività pubblica, durante i quali, dopo essersi trovato in qualunque parte del mondo un Maestro, sappia con lui ricostruire la propria unità spirituale ed artistica.
Se avrà l’umiltà di farlo potrà forse darci l’opportunità di ascoltare presto uno dei .più grandi pianisti di questo secolo.