50 – Febbraio ‘89

febbraio , 1989

Noi, non sappiamo più quando, richiamandoci ad una affermazione, non sappiamo più di chi, abbiamo scritto una solenne imbecillità, affermando che un autore ripete sempre la stessa opera. Cosa quanto mai falsa: questo vale soltanto per i mediocri. I veri e sinceri artisti possono talvolta variare un tema, ma le loro variazioni sono ogni volta creazioni nuove che esprimono sensazioni, sentimenti e armonie del tutto nuove. La pittura di Claudio Bogino, presente in questi giorni con 14 opere alla galleria «Il gabbiano» di via della Frezza, è grandemente «a rischio». Grande è la sua sapienza nel tracciare il disegno, nello stendere i colori e nell’uso ottimale che fa della luce. Tommasi Ferroni e Fabrizio Clerici entrano quasi imperversanti in ciascuna delle sue tele: è giusto richiamarsi ai maestri, ma non è giusto rifare 14 volte lo stesso quadro, non solo ripetendo ne l’iconografia, ma riproponendo alla lettera lo stesso fraseggiare poetico.
Fin dai titoli, ricorre costantemente la parola interno ed infatti lo stesso interno è riproposto ogni volta, coi suoi pavimenti di piastrelle a disegni geometrici, col cavalletto variamente rovesciato, con ingranaggi, drappi diversamente composti, calchi di antiche sculture classicheggianti, riproduzioni di pitture rinascimentali abbandonate e accartocciate.
Lo stupore di fronte al sortilegio iperrealistico che fa quasi balzare dal muro sull’osservatore quel piccolo mondo di oggetti, decisamente incongrui, lascia pian piano il posto, però, alla sensazione del già visto, che rischia, alla lunga, di annoiare. Come di fronte al virtuosismo degli acrobati, che nel suo replicarsi sempre negli stessi passaggi, perde la carica emotiva, così la perfezione tecnica di Bogino finisce per suscitare la voglia di vederlo fare qualcosa di «diverso», di inaspettato; infine: di emozionante.

Alla galleria «L’Indicatore», di largo Toniolo 3 sono esposte 30 opere recenti di Alessio Paternesi. In quasi tutti i quadri di questa mostra è rappresentata la figura umana, immersa in una cornice naturale. Nonostante ciò in noi è sorto prepotente il dubbio che l’autore concepisca gli esseri umani più come fantasmi che come creature viventi. Forse sono ectoplasmi richiamati in questo mondo da una volontà medianica, o forse solo ricordi di un mondo di morti. Certo che quelle figure hanno conservato ben poco di vitale e quel poco è costituito da un’impronta di leggera volgarità. Quella di Paternesi sembrerebbe voler essere una pittura del quotidiano; c’è infatti un tentativo di fuggire ogni tentazione di arte decadente che però si risolve in una realtà di arte decaduta a povera cronaca. La robustezza delle figure, si richiama esplicitamente alla plasticità di grandi maestri come Sironi, Martini e Carrà e insieme però alla funebrità espressiva dell’arte tombale del Fayum.
Se il buono di Paternesi è l’uso del colore, le sue luci risultano però artefatte fino alla falsificazione. La lettura dei dettagli: indumenti, gesti e animali rivela intenzioni così dimesse da sfiorare il cattivo gusto, in cui cadono alcune figure, specialmente di bambine, semi svestite, in acqua o sulla spiaggia. Non è certo la «scuola» che manca a Paternesi, ma forse dovrebbe liberarsi di certa pigrizia intellettuale che lo consegna a moduli pittorici eccessivamente scontati.