Psicoanalisi contro n. 50 – L’ingiusta solitudine

febbraio , 1989

E’ molto difficile accettare di essere giudicati ed anche di giudicare.
Tutti gli esseri umani, più o meno consapevolmente, vogliono giudicare, ma, almeno apparentemente, non vogliono essere giudicati. Le tecniche che ciascuno mette in atto per giudicare, evitando però il giudizio degli altri, sono molteplici ed io qui non posso certo enumerarle tutte, ma, rovistando nella mia memoria di psicoanalista e di uomo, mi rendo conto di aver accumulato una discreta esperienza. C’è chi parla molto e sottopone continuamente il mondo circostante ad analisi e giudizi severi, dai quali risulta chiarissimo che i propri sono gli unici giudizi sulla realtà ritenuti plausibili. C’è anche chi, al contrario, tace: silenzioso ed assorto come una statua non ascolta quello che gli dite; le vostre parole gli scivolano addosso: a differenza della statua di Condillac, però, ha chiuso tutti i suoi canali di percezione del mondo. C’è anche chi capovolge il senso di tutto ciò che gli viene detto: questo è un tipo molto pericoloso, perché si muove nell’ambiguità; è una persona viscida e malfidata che, appositamente, ricorda male quello che gli è stato detto e fa il possibile per indurre nell’interlocutore il dubbio, il timore di non aver parlato sufficientemente chiaro – cosa che talvolta può davvero succedere – per cui si resta interdetti, finendo col dargli grossi vantaggi. Di genere opposto sembrerebbero essere quelli che, continuamente, chiedono giudizi su ogni cosa che li riguardi, ben decisi, peraltro, a non tenerne assolutamente conto: costoro sommergono il prossimo con melliflue richieste di consigli, determinati a seguire solo quelli che coincideranno con le decisioni che loro stessi hanno già preso. Altri invece fuggono, divagando sempre e passando a nuovi argomenti, prima che si riesca ad esprimere loro un parere su qualsiasi cosa. C’è chi invita amici e conoscenti a mettersi ogni volta in discussione, ben attento a non tirare mai in ballo se stesso. I più terribili, per me, sono però quelli che, dopo aver sollecitato un parere, se appena trovano chi obietti loro qualcosa, accettano l’obiezione radicalmente, con eccessiva adesione al giudizio negativo su di loro o sul loro gesto: costoro con sottile perfidia e tremendo cattivo gusto trasformano la critica loro mossa in una litania di autodenigrazione, spietatamente torturando chi li ha disapprovati e trasformando questa disapprovazione in una condanna eccessiva ed insensata; si ripromettono – con atteggiamento minaccioso verso chi sta loro di fronte – le più spietate gesta di autopunizione e di automortificazione, togliendo così, di fatto, ogni possibilità di vera critica.

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Ognuno di noi tenta, in realtà, di sottrarsi al giudizio altrui e si arroga il diritto di fare da giudice. Forse, come si dice, ciò avviene perché siamo il frutto malato di una cultura giudaico-cristiana, per la quale la divinità è soprattutto intesa come autorità giudicatrice; ma io sono più propenso a credere che questa idea venga, in gran parte, da una imbelle abitudine mentale di una certa sociologia antropologica. Il Dio degli ebrei e dei cristiani è invece il Dio più umano e semplice che l’uomo abbia mai concepito: «… perché io sono il Signore Dio tuo, forte, geloso (…) e faccio misericordia per migliaia di generazioni a quelli che mi amano…» (Esodo, 20).
Un Dio che riconosce di essere geloso, di desiderare l’amore, tenero e caldo, degli uomini, che chiede di non essere abbandonato. Che inoltre manda il proprio figlio, Gesù, a parlare bensì di giustizia, ma soprattutto di amore e di perdono, rivela una gran voglia di amare e di essere amato, più che di giudicare per punire. «Padre, perdona loro, perché non sanno quel che fanno» (Luca, 23,34).

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Gli esseri umani giudicano così spesso forse anche per vincere la noia. Se si ascoltano quattro ragazzi, maschi e femmine, all’uscita dalla scuola, li si sente spessissimo parlare dei loro compagni, emettendo a getto continuo sentenze di assoluzione o di condanna. Lo stesso fanno gli operai di una fabbrica, gli impiegati di un ministero, gli scienziati di una commissione: tutti giudicano, quasi sempre per condannare, solo qualche rara volta per assolvere. Giorni fa sentivo una mia zia parlare con una sua amica di una terza persona: la stavano giudicando e condannando. Non è difficile notare l’abitudine delle donne di casa, quando portano un piatto in tavola, mentre sparecchiano, parlano quasi soltanto per esprimere giudizi e critiche su ogni cosa: dal comportamento dei commensali all’operato del portiere dello stabile, sulla sua vita privata e su quella dei suoi famigliari; passando poi da un argomento all’altro, giudicano i vicini e poi il conduttore di una trasmissione televisiva. Quasi sempre concludono ogni discorso con la frase: «A me non importa nulla, faccia pure come vuole!».

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A parte la superficiale spiegazione della noia, alla quale ho accennato qui sopra, da cosa sorge però, andando più a fondo, questa esigenza giudicatrice così assillante?
L’antica psicoanalisi parlava del SuperIo: un’istanza psichica che avrebbe soprattutto la funzione di giudice. Neppure io, che ormai credo (pur con tutto il rispetto che riconosco le sia dovuto) di essermi liberato da quella cultura «liberty», riesco però a liberarmi di questo Super-Io che, anzi, mi sembra avere ancor più significati di quanti gliene attribuisca generalmente la psicoanalisi. Freud usava – a mio avviso – il termine Super-Io molto scorrettamente: questo era per lui un’istanza giudicatrice che accoglieva in sé, in modo massiccio, le tracce delle figure genitoriali, come sarebbero state recepite nel periodo infantile. Sarebbe perciò un’istanza che è al di sopra della persona.
Il suo primo errore è stato di non far coincidere l’lo con la persona; inoltre ha posto barriere arbitrarie tra conscio ed inconscio, per cui è risultato che il Super-Io, che dovrebbe essere la proiezione interna di tutto l’individuo, è divenuto un giudice, staccato dalla persona, che ha solo la funzione negativa di impedire, punire e castrare.
Al contrario, è mia convinzione che io sono il mio Super-Io, o meglio: che il mio Super-Io è quell’aspetto della mia personalità che mi spinge a giudicare cosa è bene e cosa è male. Il concetto di bene e di male, invece deriva, secondo me, solo in parte dalle figure genitoriali; ma per il resto è frutto delle convinzioni, più o meno inconsce, della società. Nessuno è completamente libero nel giudicare il bene e il male: si è costretti a partire sempre dall’esterno: famiglia, microcosmo e società.

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Non essendo riuscito a liberarmi dal concetto di Super-Io, ho pensato, nella mia teorizzazione metapsicologica, di articolarlo in Super-Io-censore (cioè giudice del comportamento morale) e Super-Io piacere.
Il Super-Io-censore, giudica, condanna e talvolta anche approva (immagino l’orrore di chi ha sempre e soltanto voluto concepire il giudice come un giustiziere); il Super-Io -piacere, invece, decide che cosa è il piacere.
Così facendo – in pratica – mi accorgo di essermi liberato dal Super-Io. Il Super-Io-piacere e il Super-Io-censore sono infatti un’unica istanza che coincide con la persona, ma non la esaurisce. Entrambi hanno la funzione di richiamare continuante l’uomo alla sua limitatezza e finitezza, e quindi alla consapevolezza che l’assoluta libertà di giudizio è un’illusione. Inoltre, l’aspetto censore del cosiddettto Super-Io, stimola continuamente l’essenza giudicatrice. Purtroppo in questo mondo perverso e malato, in cui odio e invidia sopraffanno l’amore, i giudizi che conseguono sono per lo più di condanna e di castrazione.

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Tutti ricerchiamo continuamente anche il giudizio degli altri. Non solo, ma abbiamo inventato un meccanismo educativo, una scuola e persino un sacramento (cattolico) per cui il giudizio è l’elemento essenziale: premio o punizione, condanna o perdono, anche nell’al di là, addirittura! Io, Sandro, non sarò mai sufficientemente grato al figlio di Alighiero, autore di un’opera come «La commedia», divenuta famosa poi come «divina». Più che una commedia, una farsa stupenda, davvero divina, in cui ci ha messo a contatto con la punizione senza appello, con la diafana e azzurra punizione che porta alla salvezza e con lo splendore rutilante del paradiso. Dante aveva paura e desiderava quanto me il giudizio degli altri, perciò s’è tuffato nel mondo del giudizio. Con chi si era identificato? Con Farinata o forse con Lucifero stesso, con Sordello, con Beatrice o con San Bernardo? Qualcuno potrebbe dire che si era identificato con la Trinità. Ma, siamo sinceri, chi non si è mai identificato con la Santissima Trinità?
Io invito tutti ad immergersi nella bellezza davvero sovraumana della «Commedia» dantesca, per superare, almeno un poco, la paura del giudizio; anche se so che questa paura continuerà ad esistere e con essa continuerà ad esistere il desiderio di essere giudicati. Giudicati da chi? Dai genitori? Non li fuggiamo forse? Dagli amici? Eppure li contestiamo. Da chi ci ama? Ma se neppure lo ascoltiamo! Dall’autorità? La neghiamo. Dai più sapienti? Se avessimo fiducia in loro forse potremmo iniziare di qui il cammino verso la guarigione, se incominciassimo ad accettare l’ipotesi che esista qualcuno più saggio di noi e magari anche migliore di noi moralmente.

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La salute è ancora lontana. Non siamo tutti uguali, esistono individui migliori e peggiori; se una volta per tutte ci convincessimo di ciò, capiremmo anche che nessuno è davvero sostanzialmente diverso, così avremmo almeno imparato a non fare più troppe discriminazioni, ad entrare in relazione con gli altri, accettandoli per quali sono e proponendoci quali siamo. La cultura oggi ha due atteggiamenti fondamentalmente idioti: il primo è quello per cui distinguere tra migliore e peggiore significa discriminare: intelligenti e stupidi, bianchi e neri; l’altro è quello di negare, con vigliacca ipocrisia, le differenze tra gli uomini, sostenendone una falsa uguaglianza. Sono di questo genere i libertari della violenza e della castrazione, del ricatto e dello stupro. Questa è la nostra grave malattia. Se un giorno diverremo sani riusciremo ad accettare che qualcuno sia migliore di noi, per cui vale la pena starlo ad ascoltare, in silenzio dapprima, poi facendo domande e di nuovo ascoltando le risposte. Alla fine dovremo essere capaci di ringraziarlo e – se ne saremo in grado- di ricompensarlo, dopo essere diventati sì giudici, ma per amore.

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Ogni essere umano quindi rifugge dal giudizio e allo stesso tempo lo ricerca. Fugge perché non vuole riconoscere ad altri il diritto di condizionare il suo comportamento. Vuole essere giudicato perché spera di ottenere l’approvazione del suo operato. La solita frase sciocca: «Quello è un amico che mi capisce», spesso, nasconde l’intento di spacciare per comprensione l’incondizionata approvazione; io non ritengo che questa sia sempre manifestazione di amore; talvolta è viltà o piaggeria. Chi è malato, ma un po’ innamorato, spesso teme di scontentare l’amante, dissentendo e contestando; come il servo che teme di dispiacere al padrone, se non ride ai suoi motti di spirito, se non ne approva il gusto. Certo, quando si ama qualcuno, bisogna essere dalla sua parte, condividere le sue scelte di vita, partecipare alle sue fantasie, ai suoi desideri, ai suoi sogni, accettarne l’anima e il corpo; ma bisognerebbe anche avere la possibilità e la capacità, oltre che il coraggio, di muovere critiche negative. Io contesto profondamente la frase del vecchio Freud che privilegiando la verità della botanica rispetto alla poesia prendeva i carciofi per fiori davvero dicendo inoltre, da splendido carciofo qual era, che gli innamorati sono pazzi. Coloro che sopravvalutano l’oggetto amato, non lo percepiscono nelle sue prerogative e non ne colgono le caratteristiche essenziali, non sono innamorati, sono solamente pazzi; malati, cattivi ed egoisti, chiusi nella somma delle loro difese narcisistiche e sadomasochistiche. Chi realmente ama, seppure iper-valuta la persona amata, deve però essere in grado di vederne anche i difetti ed avere il coraggio di farglieli notare. Questo è l’amore; i baci, gli abbracci, le carezze. Tutto il resto è soltanto utile per un pinzimonio. Chi ha coraggio deve dire alla persona amata ciò che pensa, nel bene e nel male, come deve accettare nel bene e nel male quello che gli viene detto. Noi siamo però ancora così malati che neppure in una situazione di amore, caldo e tenero, ci tratteniamo dall’irrigidirci, se chi amiamo ha il coraggio di metterci in discussione. Questa è la malattia più profonda, grave e corrosiva per l’uomo: temere la critica negativa di chi lo ama. Vi sono legami, anche abbastanza profondi, che si sono spezzati di fronte alla sincerità. Tutti giudicano, tutti dicono di voler essere giudicati, nessuno però accetta di essere giudicato. Non però il Dio della Bibbia, non suo figlio, violenti, ma innamorati, ci hanno insegnato ad avere paura del giudizio; ma è stata la nostra caduta nel mondo che vive di pettegolezzo e su di esso costruisce il proprio esistere.

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Siamo nati, cresciuti ed educati in una società che stupidamente si diverte a criticare e giudica tronfiamente l’operato degli altri. Lo stesso tipo di giudizio lo portiamo dentro. È difficile dire quale dei due sia venuto prima, né sarebbe utile saperlo. Noi viviamo in questa società, della quale abbiamo introiettato alcuni precetti e sulla quale proiettiamo, a nostra volta, i nostri concetti di male e di bene, di dolore e di piacere. Quando però ci troviamo a dover determinare quale sia il male e quale sia il bene, quale il piacere e quale il dispiacere, spesso non sappiamo orientarci. È difficile orientarsi e molte sono le contraddizioni. Da piccolo mi piaceva toccarmi i genitali, una vecchia parente, troppo grassa e molto flaccida me lo proibiva. Mi piaceva anche fare la pipì a letto, ma un’altra figura, dolce e profumata mi si avvicinava per dissuadermi. Fin dalla più tenera età io ho detestato i giocattolini tintinnanti, fatti di sonagli e palline, come orribili testicoli azzurri, dal suono per me insopportabile; una figura dai capelli bianchi, mite e tenera, voleva convincermi che il loro fosse un suono bellissimo. Ancora oggi voglio dire a quella persona, che certo sta suonando un glockenspiel in paradiso, che il suono di quei bubboli era orribile; forse anche per questo ho scelto di diventare un musicista, perché mi sono ribellato all’imposizione di quella brutta musica: la musica deve essere ricercata e non imposta. Non so bene in quale misura il mio concetto di piacere e di Super-Io-censore abbiano determinato quel mio rifiuto, certo si sono uniti fino a coincidere e a determinare il mio giudizio.

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Come ho detto, Super-Io-censore e SuperIo-piacere coincidono perché sono sempre espressioni del mio Io, di me con le mie fantasie e i miei desideri. Ma il mio Io che cosa è? Io sono cosa voglio o cosa non voglio essere? Quello che so o non so di essere? Io sono le leggi che ho dentro, i desideri che mi sono permesso di avere; però sono anche ciò che va contro tutto questo e in più sono anche parte del mondo che mi circonda. E’ molto facile adesso fare una diagnosi e dire che io sono affetto da una forma di paranoia, per cui faccio coincidere il mio Io con il mondo intero. Eppure la stessa cosa vale per tutti. L’importante è che si sappia di non rappresentare l’unico mondo esistente, ma di essere un universo in relazione con altri universi, che hanno contribuito anch’essi alla costruzione di quello che siamo. Quello che io chiamo il mio mondo è degli altri e gli altri mondi mi appartengono in egual misura. Questa è confusione. La salute però non consiste nel rifuggire dalla confusione, nell’accettare solo principi semplici e lineari, idee chiare e distinte. Cartesio è stato un grande filosofo, totalmente imbecille: le idee chiare e distinte non sono mai esistite; sono soltanto la fantasia di chi ha paura di disperdersi nel mondo. Perché ho dato dell’imbecille ad uno tra i filosofi che io amo di più? Perché ho dato dell’imbecille a me stesso, identificandomi con Renato Cartesio. Entrambi siamo imbecilli perché temiamo di sognare e ci aggrappiamo disperatamente a questo Io penso; perché vogliamo esistere. Però bisogna ribellarsi a questo Io penso e scoprire che l’uomo non è solo pensiero: è semplicemente un uomo che pensa, che sente, che agisce e che ha timore di essere giudicato, pur avendone un gran desiderio.

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Per giudicare ed essere giudicati è indispensabile avere un concetto di giustizia; ma dove e quale è il principio di giustizia a cui si fa riferimento? La giustizia è virtù degli dèi. Dio è giusto proprio perché è Dio. Io credo in questo; sono affascinato dai Comandamenti dell’Antico Testamento e mi entusiasma il pensiero che Dio stesso sia il fondamento del mio concetto di giustizia. È stata una mia scelta; io e Dio siamo a confronto: la nostra è una lotta in cui spero di essere vinto e indotto ad accettare la sua giustizia. Accettarla non vuol dire illudersi di possederla, vuol dire semplicemente continuare a cercarla instancabilmente.
Se io ritengo che Dio sia il fondamento della giustizia, dove trovo però l’espressione concreta della giustizia? Mi fondo sugli antichi testi? Io preferirei percepirla presente nel mondo in cui mi trovo a vivere, che però mi pare, al contrario, quasi privo di ogni traccia di giustizia. E’ vero, talvolta incontro qualcuno che a me pare sappia dire parole di giustizia; ma su quale base io posso dire che costui dice parole giuste, dal momento che io e il mondo siamo così ingiusti?

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Molti pensano che si possa eludere il problema della giustizia parlando dell’ingiustizia; sorgono così fiumi di parole che denunciano le mille ingiustizie del mondo. Mi domando allora: se tutti costoro sanno così bene che cosa è l’ingiustizia, non sapranno anche con sufficiente precisione che cosa è la giustizia? Nonostante ciò, io, in realtà, non ho ancora trovato chi sappia darmi una definizione di giustizia che abbia una validità generale. Ingiustizia è sofferenza, prevaricazione, sfruttamento. La giustizia dovrebbe essere il contrario di ciò; ma come si realizza? Perché non ci chiediamo come mai noi riusciamo a cogliere abbastanza bene l’ingiustizia e poi non sappiamo definire la giustizia? È per questo che abbiamo paura di essere giudicati?

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In parte può essere anche per questo; ma io penso che non sia solo questa la ragione: noi temiamo di essere giudicati perché ci sottraiamo al confronto con gli altri. È questa la paura originaria che l’uomo prova nella sua relazione con il mondo. È vero che, mentre siamo trafitti da un raggio di sole, è subito sera; ma ancor più pesante è la condanna alla solitudine. La vita è breve e la sera viene subito, ma nella sera sentirsi soli riempie di disperazione. Io sento che ho dentro di me un’idea di giustizia che faccio fatica ad esprimere, ma quello che non riesco a sopportare è l’idea della solitudine. La solitudine esclude sia dalla giustizia sia dall’ingiustizia ed è un grave peso per l’uomo. L’ingiustizia si radica nella solitudine, è frutto di narcisismo e sado-masochismo. La giustizia è nel rapporto degli uomini con gli altri uomini.

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La relazione di per sé, non è sufficiente all’uomo. Potrei riempirmi la bocca e arricchire queste mie righe parlando della bellezza dei rapporti umani; ma nella relazione c’è, inevitabile, sia il germe della giustizia sia quello dell’ingiustizia. Ingiusto è esser soli, perché vuol dire non essere in rapporto col mondo, però è anche ingiusto accettare rapporti non basati sulla giustizia. L’ingiustizia e la giustizia si realizzano entrambe nel rapporto; ma l’ingiustizia si nutre anche dell’assenza di relazione, di violenza e di prevaricazione, che negano l’altro. Vorrei che tutti capissero quanto possa essere bello cantare insieme un canone a quattro voci. Ma chi si è chiesto che cosa sia un canone a quattro voci?