Archivio di gennaio 1987

Psicoanalisi contro n. 28 – Il passero in gabbia

venerdì, 2 gennaio 1987

Una giovane donna, disorientata e spaurita, si recò da uno psicoterapeuta per chiedergli aiuto. Era sempre stata molto nervosa, chiusa ed introversa sin da quando era bambina, ma pochi giorni prima le era accaduto un fatto che l’aveva buttata letteralmente nel panico. La notte aveva incubi, si svegliava di soprassalto con il cuore in gola. Fino a pochi giorni prima la sua vita era trascorsa abbastanza quietamente accanto ad un uomo pacifico, tranquillo, forse un po’ troppo indifferente e casalingo. Avrebbe voluto uscire, avere amici, andare a teatro, al cinema, ma il marito la sera stanco si addormentava davanti alla televisione e solo qualche volta uscivano: la domenica. Avevano una figlia di otto anni: bella, bionda, con grandi occhi verdi, teneramente amata da tutti e due. La bambina era un po’ pigra, silenziosa e non particolarmente emotiva; anzi, la madre, spesso, era irritata da questa sua apparente imperturbabilità; spesso la aggrediva perché faceva lentamente i compiti, perché aveva maldestramente versato un bicchiere, e la sgridava, la sgridava fino a che la bambina si metteva a piangere. Allora la madre le chiedeva scusa. Non era contenta di questo suo comportamento, detestava questo suo essere così nervosa, ma tutto sommato si credeva normale. Invece, qualche giorno prima… domenica, erano a tavola tutti e tre, la madre il marito e la figlia. Quando venne in tavola il secondo, un succulento piatto di carne, la bambina disse: «Io non mangio, non ho più fame». Poi rimase zitta ed imperturbabile. La madre cominciò ad alterarsi, cercò di ordinarle di mangiare; ma, la bambina tranquilla scuoteva il capo. Improvvisamente senza sapere perché la donna prese il proprio piatto e lo scaraventò contro la figlia, che ebbe appena il tempo di abbassare la testa ed il piatto si frantumò contro il muro che era alle sue spalle, lasciando una grande chiazza di unto. Quel giorno non ebbe nemmeno il coraggio di chiedere scusa a sua figlia; corse in camera sua a piangere, a piangere, a piangere, esterrefatta e terrorizzata. L’appartamento era nel silenzio più assoluto: senti la porta sbattere, padre e figlia erano usciti. Andò nella camera da pranzo, con orrore vide quella chiazza sul muro, esattamente
dietro il luogo dove era la bionda testa della figlia. Inorridì, «sono pazza, sono una assassina», disse a se stessa, e corse da uno psicoterapeuta consigliatele da un’amica. Aveva voglia di dire molto di sé. Quasi subito raccontò questo: «Mio padre amava molto gli uccelli, aveva gabbie di canarini, di pappagalli, e di altri pennuti più strani, variopinti e canori. Raccoglieva anche quelli caduti dal nido, quelli feriti. Mi raccontava sempre che da bambino, un giorno, non era così piccolo da non ricordarsene, aveva stretto tra le mani un pettirosso che aveva catturato non si sa più perché, e sentiva il piccolo cuore pulsare tra le mani. Improvvisamente lo scaraventò per terra, e quell’esserino rimase lì, spiaccicato ed inerte. Ero un bambino violento diceva di sé mio padre, ora curo gli uccelli perché debbo farmi perdonare di quell’assassinio terribile. Ancora me lo sogno la notte; ero un bambino violento diceva scuotendo la testa. Un giorno raccolse un passerotto, con una zampa ferita, lo curò, legò attorno all’arto dell’animale uno stecchino con una benda; gli dava da mangiare e da bere ogni giorno. Il passero guarì, saltellava nella gabbia». Lei, bambina, lo guardava. Quel passero, però, era triste, non cinguettava. Un mattino fu trovato morto: il padre apri la gabbietta e lo prese in mano con aria tristissima, la bambina, guardandolo, gli disse: «Gli hai guarito la zampa, ma gli hai fatto una grande violenza. I passeri non debbono stare prigionieri, quel poverino ha preferito morire»; suo padre si voltò e le affibbiò un ceffone terribile. Violenza, violenza ed ancora violenza, sottile, crudele, familiare.

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La violenza è sempre un problema individuale? Risale sempre a situazioni o a traumi infantili? La violenza è una malattia? Se così fosse ogni gesto di violenza sarebbe sintomo di una situazione patologica personale, e bisognerebbe affrontarla caso per caso con una terapia adeguata. Ma la violenza non si perpetra soltanto nel chiuso delle famiglie, la violenza esce dalle case, va nelle strade, nelle scuole, nei cinema, persino nelle chiese. Esplode nei campi sportivi e nelle autostrade. La violenza è un problema che riguarda tutti, perché tutti siamo violenti figli di violenti. La violenza è un problema sociale quanto individuale. Lo psicoterapeuta spesso la chiama aggressività, quasi per non spaventare il suo paziente, e analizza con lui violenze agite e subite. Ma il paziente è un essere umano che vive nel mondo; tutti gli esseri umani vivono nel mondo e si trovano di fronte al problema della violenza.
Qualcuno può desiderare di curare la propria aggressività, ma la violenza è una presenza continua e costante dentro e fuori di noi. Il più debole è sopraffatto dal più forte, e spesso quando un essere umano è stato costantemente sopraffatto, appena acquisisce un po’ di potere nei confronti di uno più debole di lui diviene terribilmente violento.
Il rituale della violenza si perpetra ogni giorno, ostinatamente, dovunque.
I violenti sono sempre vigliacchi, altrimenti non sarebbero violenti, sarebbero persone semplicemente forti, che hanno la capacità di resistere all’aggressione degli altri, ma anche la capacità di reggere al proprio desiderio di sopraffare. Coloro che non reagiscono alla violenza sono a loro volta vili, perché accettano che questo rituale, macabro e terribile, si perpetui, perciò violenza e viltà coincidono. Bisogna avere il coraggio di opporsi alla violenza, cercando in ogni modo di non propagarla. Questo è difficile, ma gli esseri umani non dovrebbero fermarsi di fronte alle difficoltà. Vi possono essere cause sociali, economiche, culturali, individuali, che generano e producono i gesti di violenza. Ci deve indubbiamente essere una volontà collettiva che tenti di mutare le condizioni sociali che possono produrre violenza, ma l’atteggiamento di ognuno non deve essere quello di delega. Non sono soltanto i potenti, i ricchi, coloro che guidano le società, ad essere violenti. È altrettanto violento l’insofferente impiegato dietro uno sportello, l’usciere di un ministero, o la madre che scarica le proprie insoddisfazioni torturando il figlio con inutili punizioni.
La violenza mina la qualità della vita, e non si può aspettare che cambino i governi o si sovvertano i rapporti di produzione. Se non cambiano gli esseri umani, possono cambiare i governi, i rapporti di lavoro e la distribuzione della ricchezza: l’uomo, sempre quello, ripeterà quotidianamente il rituale della sopraffazione. Non sono sufficienti le terapie individuali, o forse tutti dovrebbero sottoporsi ad una psicoterapia; ma, questo sarebbe allora un intervento di massa, cioè sarebbe una terapia di gruppo estremamente allargata. Far prendere coscienza al gruppo che la violenza rende penosa la vita a tutti, che la sopraffazione distrugge la buona qualità della vita e che non serve ad altro che a propagare altra violenza è importante quanto, e forse di più, che combattere una epidemia virale. Non è soltanto un problema pedagogico, non si può partire da adesso; dai bambini di oggi per formare, forse, adulti meno violenti nel futuro. Bisogna aggredire la violenza di oggi, la sopraffazione quotidiana.
Però la violenza talvolta è ribellione ad una violenza ancor più forte. Ma allora questa non è violenza, come ho già detto è forza di resistere e di opporsi.

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È difficile riuscire a capire quando la violenza sia pura sopraffazione o quando sia legittima difesa, o meglio legittima ribellione. È difficile però soprattutto teoricamente, concretamente è molto più facile. Le elucubrazioni sofistiche tentano di disorientare per giustificare sempre e comunque la violenza come reazione a violenze subite in passato dall’individuo, dal gruppo o dalla classe. Bisogna avere il coraggio di sporcarsi le mani nel combattere la violenza; bisogna avere il coraggio di lottare per una vita più felice per il maggior numero di persone qui ed ora. La violenza, quindi, deve essere allontanata. Ma come la si allontana se non con altra violenza? Questo parrebbe un problema insolubile se non ci fosse la concretezza della vita. La violenza genera sofferenza ed infelicità, e poiché produce esseri umani ancor più violenti continuerà a produrre infelicità. Di questo dobbiamo essere certi. Una bella frase, che è quasi un proverbio, dice: «La mia libertà finisce dove comincia quella di un altro». È la più bella definizione di libertà, ma è una definizione vuota se ogni essere umano non se ne fa carico e non cerca di porre limiti alla propria ed altrui libertà. Ma porre limiti è violenza? I dubbi sono legittimi, le costruzioni filosofiche e politiche sono comprensibili, bisogna stare, però, molto attenti che non siano giustificazioni per la violenza pura e semplice. Si dice: poiché alla violenza si deve opporre la violenza, poiché non è possibile sapere dove la libertà sfocia nell’arbitrio, accettiamo tutte le violenze e tutti gli arbitrii. Barrichiamoci in casa, oppure buttiamoci a violentare, a stuprare, a spaccare, a rendere più sgradevole possibile la vita a noi e agli altri. Queste sono due soluzioni profondamente negative. La terza soluzione sta nella consapevolezza del rifiuto della violenza, prima di tutto in noi, e poi negli altri: allora lentamente comincerà ad essere concreta la frase «la mia libertà finisce dove comincia quella di un altro».

Psicoanalisi contro n. 28 – “Amor ch’a nullo amato…”

giovedì, 1 gennaio 1987

Io penso che tutti gli esseri umani abbiano sempre solo fatto finta di credere che la matematica non sia un’opinione. La verità è saldamente situata al centro dell’essere, o meglio: la verità è l’essere nella sua più splendida ovvietà. Alcuni hanno confuso la verità con l’enunciazione della verità e l’hanno fatta coincidere con la tautologia.
«Il mare è il mare». Questa può sembrare una frase tautologica; ma è assolutamente evidente che la prima volta che si pronuncia la parola «mare» si fa riferimento ad un mare che non è lo stesso «mare» che si pronuncia la seconda volta. La copula «è» unisce come in un rapporto sessuale due entità tra loro diverse: due corpi, due mondi, due fantasie, due passati, due storie, due futuri. Il mare non è mai «il mare». Questa sembra essere una nuova tautologia; ma non è vero, è qualche cosa di più e di meno: è soltanto una affermazione.
La verità si beffa della tautologia e sta ben salda nel centro dell’essere. Se l’essere, però, fosse la verità, avrebbe ragione Platone; ma se avesse ragione non cambierebbe un bel niente né dell’essere, né del nulla e né della verità. Se non intervenisse la verità, l’essere e il nulla resterebbero immobili ed opachi. La verità è la verità: una nuova tautologia. La verità è verità per la verità. La prima volta che ho pronunciato oppure scritto la parola «verità» l’ho fatto una volta per tutte e così tutte le altre volte sono ugualmente l’unica volta. Proprio per questo la matematica è più che mai una opinione.

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Un bambino conta sulle dita: uno, due, tre, quattro, cinque… questa mano non ha più dita; l’altra: sei, sette; otto, nove, dieci… e poi? Perché dieci? Un bambino crede nelle sue dita, non nelle sue «dieci» dita. La luna guarda Talete che guarda la luna. Non si possono addizionare Talete e la luna, quindi non sono due: sono uno; ma, se sono uno, come fa Talete a guardare la luna? E come può la luna guardare Talete? Se la matematica non fosse una opinione, Talete non sarebbe mai esistito ed anche, questa notte, la luna non sarebbe né luna piena né luna nuova, semplicemente non esisterebbe, in quanto l’uno non può diventare due, perché Talete è caduto nella buca.

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L’infinito è un’entità matematica o metafisica che viene usata da studiosi così dissennati da osare muoversi ai limiti dell’umano pensiero. Se l’infinito è quello della metafisica i matematici non possono usarlo perché significa il tutto, comprende perciò anche la matematica e, comprendendola, comprende anche i matematici. Matematica e matematici sarebbero così strumenti di un tutto che va sempre un po’ oltre. I matematici però non usano l’infinito della metafisica: usano un altro infinito. Ciò vuol dire che gli infiniti possono essere due; ma, se sono due, non sono infiniti: frase, questa, assolutamente imbecille, o forse assolutamente vera. Forse gli infiniti sono infiniti: frase altrettanto imbecille e forse altrettanto vera. Poiché l’imbecillità non può coincidere con la verità, resta vero che non si possono sommare le pere con i canguri; ma è anche vero che se gli infiniti sono «infiniti», al plurale, non sono allora infiniti, perché il plurale è qualche cosa che è finito altrimenti non sarebbe plurale. L’infinito invece è uno e non sta con altri se non con se stesso. L’infinito è soltanto una fantasia dell’uomo, proprio per questo è possibile usarlo come se fosse una entità qualsiasi.
Le entità qualsiasi però non esistono: ogni entità ha le proprie caratteristiche. L’infinito matematico risulta allora essere diverso dall’infinito metafisico. Se è diverso gli infiniti sono, almeno, due. Che cosa ridicola, direbbe un bambino: due infiniti. L’infinito, quindi, metafisico o non, è ridicolo. O forse è solo qualche cosa di assolutamente frivolo come l’ombra della verità. La verità non è frivola, ma è profondamente situata nel centro dell’essere.
Torniamo all’infinito: un infinito o due infiniti? Tanti infiniti o infiniti infiniti? Nell’infinito metafisico, o matematico, nell’infinito degli infiniti, nell’infinito insieme infinito dell’insieme degli infiniti, dove sta un punto? Non è possibile saperlo. Quel punto si muove? Non è possibile saperlo. Poniamo un altro punto: potremo così dire che il primo punto si muove, o non si muove, in rapporto al secondo punto. Se anche il secondo punto, però, si muove, dobbiamo porre un terzo punto; se si muovono tutti e tre ne porremo un quarto, e poi un quinto, e così via fino a che dovremo dire che, nell’infinito, quei punti forse si muovono o forse sono immobili.
Bisogna, dunque, porre un punto, per definizione, immobile. Io dirò, allora, che quel punto non si muove, indicandolo con il dito. Qualcuno vorrà a sua volta sostenere che è immobile un punto diverso da quello che io ho additato, indicandolo con il suo dito.

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Talvolta si dice che una terapia analitica è giunta ad uno «stallo», cioè è immobile. Immobile rispetto a che cosa o a chi? Al paziente, all’analista, all’infinito, agli infiniti? È ferma perché non muove, non «diviene», non muta. Ma qual è lo sfondo immobile che può dimostrare che quell’analisi diviene, oppure non muta; quali sono i punti che cambiano posizione rispetto ad altri punti? I punti dell’analisi, dell’analista, del paziente, dello sfondo? Cosa vuoi dire che un’analisi è in un momento di stallo, cioè è ferma, perché non cambia? Ma cambiare è sinonimo di divenire. Non cambia rispetto a che? A qualcosa che è ritenuto immobile. E che cosa è l’immobilità? Gli infiniti insiemi di infiniti? Un pulviscolo, opaco e inerte come la nebbia. Un tempo, forse, dire che la matematica è un’opinione poteva provocare qualche turbamento, oggi più nessuno si turba. Turba però sentir dire che l’essere umano è un’opinione, perché c’è ancora chi non è sicuro di essere un uomo. Coloro che non sono sicuri di essere uomini, sono insicuri perché non hanno il coraggio di riconoscere l’umanità negli altri: non credono nella propria umanità perché non sanno credere negli altri uomini e allora si aggrappano alla scienza, pretendendo che almeno questa sia salda e solida, figlia dell’esperienza. L’esperienza si esprime in termini matematici, ma non scordiamo che la matematica è un’opinione, che non sa neppure dire se uno, due, tre, quattro, cinque punti sono realmente cinque o sono infiniti. Inoltre né i matematici né i fisici sanno dire se quei punti si muovano oppure no. Anche gli psicoanalisti non sanno dire perché l’analisi che stanno conducendo insieme con il loro paziente abbia raggiunto un punto di stallo, sia cioè ferma. Per farlo dovrebbero prendere loro stessi come punto saldo, fermo al centro dell’universo; questa è una bella presunzione, sia pure per un terapeuta. Come può un terapeuta così delirante arrogarsi il diritto di curare gli altri? «Medico cura te stesso».

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È realmente molto difficile capire quando l’analisi è ferma, proprio come è difficile capire se un punto si muove nello spazio, in mancanza di un punto fermo cui fare riferimento. È sempre indispensabile un punto di riferimento. I punti di riferimento nell’analisi sembrerebbero essere due: quello del paziente e quello dell’analista. Il punto di riferimento del paziente è la sua opinione su ciò che è, o dovrebbe essere, l’analisi; quali dovrebbero essere i suoi fini, quale la sua fine e quali dovrebbero essere gli effetti della cura. Proprio perché è «paziente» gli sono però oscure molte dinamiche dell’inconscio. Si fa avanti, allora, il punto di riferimento dell’analista, il quale sa che il fine dell’analisi è ben diverso da quello che il paziente crede consapevolmente di voler conseguire.
Chi si sottopone ad un trattamento terapeutico vuole certamente star meglio di come sta nel momento di inizio della cura; ma non è detto che dopo che l’analisi si sarà sviluppata non si saranno evidenziate nuove esigenze e sopraggiunti nuovi concetti di «meglio». Sapere cosa si vuole è difficile, ancor più difficile è saperlo e stabilirlo una volta per tutte. Ognuno può inventarsi qualcosa di sufficientemente credibile e, se ci riesce, può stare contento.
Falsa ed inaccettabile è poi quasi sempre l’affermazione: «Questa analisi la voglio interrompere perché non ha nessun effetto, la sento ferma da troppo tempo». Spesso il paziente dice questo proprio quando l’analisi sta facendo molto effetto e rischia di costringerlo a porsi il problema di affrontare grossi cambiamenti. Tutto ciò significa forse che solo l’analista può sapere dove si dirige l’analisi? Così non deve essere. Io non voglio questo e cerco, come psicoanalista di fare quello che so perché non sia così, insistendo nel proporre a tutti quelli che lavorano con me, pazienti ed analisti, di uscire dal loro spazio solipsistico per andare incontro all’altro in uno spazio comune. Il vecchio, banale, ma eroico spazio tridimensionale.

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Nell’analisi possono esserci momenti di stallo reale oppure fittizio. I momenti di reale stallo sono due, e vorrei far notare, sin da subito, che possono essere valutati entrambi solo osservando la situazione personale e specifica dello psicoanalista.
Lo stallo in analisi non è mai – e ribadisco: mai – uno stallo per l’analizzato, lo è esclusivamente per l’analista. Il primo caso di stallo si crea quando l’analista non capisce più il proprio paziente. Molto spesso questa situazione si verifica quando il paziente attraversa un periodo di rifiuto dell’analisi, di resistenza, di opposizione. Le dinamiche del paziente, però, in questa situazione sono quanto mai attive e addirittura divampanti e lampanti. L’ostinato silenzio, i ritardi, le associazioni faticose, le fughe, la restrizione del dialogo ad argomenti quotidiani sono momenti dell’analisi faticosi da reggere; ma finché il paziente rimane lì, seduto, sdraiato, o anche ritto in piedi e corrucciato come Napoleone a Sant’Elena, l’analisi continua.
Come ho già detto il lavoro analitico si blocca realmente solo se lo psicoanalista non capisce più: fino ad un certo punto era stato in grado di cogliere nessi, di trarre conclusioni, la struttura di quella psiche gli risultava leggibile nelle linee essenziali: una storia si stava ricostruendo anche con il suo aiuto. Il paziente, a sua volta, ritrovava brandelli di se stesso, aveva l’opportunità di cogliere significati e pur tra alti e bassi, era stato sempre possibile riprendere da capo. È vero però che in psicoanalisi non si ricomincia mai «da capo», ma si continua sempre. Ora più niente di tutto questo. Meno grave è se nella mente dell’analista c’è solo molta confusione, ma è tremendo se non c’è niente ed egli è come esaurito, stremato di fronte agli indecifrabili reperti archeologici che il paziente gli propone. Qui l’analisi è davvero ferma.

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L’altro caso di stallo in psicoanalisi si verifica quando il terapeuta diviene totalmente disinteressato al proprio paziente e alle sue problematiche. Quando non prova il minimo interesse per quello che si sente dire, per i sentimenti che l’altro prova. Quando, con fastidio, si accorge che è giunta l’ora in cui il tale o la tale stanno per entrare nello studio. Molto meglio la rabbia, l’odio, la condanna: se il terapeuta li sa gestire possono anche giovare al lavoro analitico.
La noia e il disinteresse, invece, bloccano l’analisi, indipendentemente dal materiale che il paziente può produrre, dalle sue capacità di elaborarlo o dalla scomparsa degli stessi sintomi. Spesso il terapeuta, per pietà o per viltà, non osa esplicitare al paziente tutto questo, perché dovrebbe analizzare anche se stesso, mettere in gioco le proprie dinamiche; preferisce perciò tacere, magari limitandosi a qualche interpretazione stantia che simuli la prosecuzione dell’analisi.

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Come si concilia tutto questo con la teoria che io sostengo in base alla quale l’analisi si fa sempre in due, insieme con un paziente attivo che lotta e contribuisce con il suo impegno alla riuscita del lavoro comune? Tutto parrebbe invece dipendere dalla salute mentale e dalla buona volontà dello psicoanalista, mentre non resterebbe al paziente che sperare di riuscire a fare innamorare di sé il proprio terapeuta, al fine di ottenere da lui il massimo interessamento e impegno. Non è certamente cosa da poco riuscire a fare innamorare di sé qualcuno, tentando di sedurlo con ogni mezzo. Tanto attivo è qui il ruolo del paziente, neppure ostacolato da qualunque moralismo che possa limitarlo: ogni colpo è lecito, anche i più bassi e disonesti, purché si accendano amore ed interesse. Questa impresa è una fatica non lieve. Uno dei più belli e noti versi danteschi: «Amor ch’a nullo amato amar perdona» condanna irrimediabilmente quel paziente che non riesce a fare innamorare di sé il proprio psicoanalista (per quanto in questa mia affermazione ci sia un eccesso di paradosso). È comunque importante che il paziente non permetta che l’analisi vada alla deriva, senza che anch’egli contribuisca a determinarne la rotta. Bisogna lavorare e lottare, non per soddisfare un solitario bisogno, ma per contribuire alla riuscita di una impresa che vede impegnate due persone per uno scopo comune. Il paziente può e deve far sentire all’analista che anch’egli è vigile e attento, ansioso di capire i misteri del proprio passato e del presente.

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Ci sono due momenti di arresto del lavoro analitico che, a prima vista, sembrerebbero dipendere dal paziente e non dall’analista; ma sono due casi di stallo apparente. Il primo è il caso del paziente che afferma di non farcela più a reggere il processo di destrutturazione, di non voler più proseguire. I periodi di destrutturazione, in realtà, non sono momenti di distruzione e tanto meno di regressione (intendendo per regressione il riassestarsi del paziente su posizioni e atteggiamenti del passato, con un’effettiva perdita delle conquiste del lavoro analitico). Il disorientamento che comunemente viene chiamato «destrutturazione» è invece un momento spesso proficuo: finalmente si sono abbattuti patologici punti di riferimento, attorno ai quali si erano formati alcuni sintomi della malattia. Se questo disorientamento non fosse accompagnato dalla sofferenza dovrebbe essere addirittura vissuto con entusiasmo, perché soltanto a questo prezzo l’analisi può davvero procedere. È quindi quanto mai legittimo che il paziente domandi di poter riprendere fiato. L’altra forma di stallo apparentemente causato dal paziente si verifica quando, per varie ragioni, egli decide di sospendere per un po’ di tempo l’analisi. Se la riprenderà, anche la pausa entrerà a far parte del processo terapeutico. Se il lavoro riprende, pur con avversione e conflitti, l’analisi non è in situazione di stallo; caso mai si è allontanata un po’ la meta della guarigione. È difficile dare un nome a questi momenti di stanchezza e di ritardo; ma non sono momenti di stallo.
È più faticoso essere pazienti o terapeuti?

28 – Gennaio ‘87

giovedì, 1 gennaio 1987

Il ristorante Relais Le Jardin dell’ Hotel Lord Byron in via De Notaris 5, ai Parioli, appaga tutte le esigenze snobistiche di una borghesia volgare, ignorante e senza palato, contenta di ritrovare intorno a sé il cattivo gusto dell’arredamento delle proprie case: il kitsch impera nei grandi camini di ceramica e nelle colonne pretenziosamente in stile ed eccessive in quei piccoli spazi che troppi specchi tentano di ingrandire. Un grande apparato esibizionistico che però crolla subito se si analizza il dettaglio: così sulle tovaglie di fiandra, tra una miriade di posate e vetri non proprio di squisita fattura, trionfano l’orrendo coltello da pesce e il posacenere. Lo spreco del personale addetto al servizio di tavola contrasta con la scarsa preparazione di quei camerieri in guanti bianchi che assetano i commensali e sgoccialano il poco vino sulle persone e sugli abiti (per tacere del fatto che disinvoltamente riempiono uno stesso bicchiere col vino di due diverse bottiglie). Prima di proseguire con l’analisi dei piatti precisiamo di prendere in esame una situazione speciale di un grande banchetto per una clientela particolarmente scelta e competente.
Dopo un miserevole aperitivo nel salotto-bar, allietato dalla musica eseguita da un ottimo pianista, per anguste scalette abbiamo preso il nostro posto a tavola e subito ci ha interessato la prima proposta del menù: una terrina calda di piccione su crostone di painbrioche alle olive. In realtà una striminzita porzione di paté dolciastro, acquoso e freddo su di un canapé che scompariva nel grande piatto circondato da uvetta passa e tre mezze olive. Seguivano i tagliolini con julienne di carni bianche: una pasta molto scotta in un rosso sugo lento con scipiti pezzettini di verdure e striscioline inconsistenti di carni poco identificabili (che avevano per di più la disgrazia di non andare assolutamente d’accordo col vino) e anche un po’ repellenti. Il terzo piatto si annunciava essere una delizia di salmone su letto di spinaci allo zabaione e burro rosso, orribile anche a vedersi: il salmone, di ottima qualità, era bruttato da una salsa giallastra e bavosa, orrido compromesso tra una salsa olandese e lo zabaglione del mattino; il burro rosso tale non era, bensì una diluita salsetta al vino; rara combinazione di pessimi incontri tra uova, pesce e vino rosso. Su tutti e tre i piatti veniva servito un ottimo vino bianco: il Ronco delle Acacie dell’Abbazia di Rosazzo, del 1985, ottimo in sé, che però era troppo aromatico e pesante con il piccione; che risultava un vero disastro sui tagliolini, abbinato ai quali acquistava un violentissimo gusto metallico; mentre appariva disperatamente inadeguata l’impresa di associarlo ad almeno uno dei contrastanti ingredienti del salmone. A tradimento arrivava a questo punto un sorbetto di limone, fuori posto, troppo acido e troppo freddo. Dallo shock avrebbe avuto il compito di farci riprendere il successivo controfiletto al dragoncello e mandarino: una fetta di carne piccola e fredda, sommersa da spicchi di mandarino bolliti, con a fianco una bouchée ai carciofi e un insipido addobbo di foglioline verdi, forse di dragoncello, ma chissà; attorno uno schizzetto di purée grumosa di speck e di patata cruda. Anche con questo piatto il buon rosso Tignanello dei Marchesi Antinori, del 1981, aveva il compito ingrato di sposarsi contemporaneamente al carciofo, agli agrumi e all’affumicato speck; ma questo matrimonio non s’aveva da fare. Il millefoglie di pera con mousse di cioccolato in cialda e salsa Williams era solo una pera cotta! Il Verduzzo di Ramandolo di G.Dri chiudeva in bellezza una sfilata di ottimi vini e si univa bene alla non sgradevole pasticceria mignon.
Chi viene in posti come questo non può anche permettersi il lusso di domandarsi quale possa essere il conto: noblesse oblige!

La Taverna dei Quaranta, in via Caudia 24, è uno di quei posti romani che potrebbero avere una intensa atmosfera, tra le mura di Claudio ed il vicino Colosseo; anche le altissime volte contribuiscono a dare un tocco non banale con il gioco dei soppalchi e l’articolazione degli ambienti. Il pubblico è un po’ consueto e prevedibile, reduce da tanti movimenti presenti e passati, con l’aggiunta di alcuni stranieri, tutti allietati dal suono di una fisarmonica. Non speravamo di certo in piatti di alta cucina, ma ci aspettavamo almeno quella sapida genuinità propagandata anche sui menù. Invece ci siamo trovati di fronte al peggiore dei tentativi di mistificazione culinaria che ci ha provocato due sole emozioni: la nausea ed il ribrezzo.
Gli spaghetti alla puttanesca, scotti, erano una assurda accozzaglia di ingredienti, tra cui spiccava il carciofo, mal cotto e barbuto le cui aspre punte si conficcavano in gola; le pappardelle alla giudìa alludevano, forse ironicamente, all’avarizia, vista la quasi totale mancanza di ingredienti e di sapori: erano solo piccanti. La fornara con patate era una carne molliccia, annegata in abbondante risciacquatura di piatti, su cui navigavano alcune patate fritte ed ammollate. Per contrasto l’abbacchio era così rinsecchito che più non si sarebbe potuto immaginare, le polpette di spinaci erano bruciate, unte ed amare, la coratelle con i carciofi consisteva nel recupero degli scarti dei carciofi precedenti tra cui, mimetizzati, si nascondevano minuscoli pezzettini di frattaglie senza sapore. La torta di ricotta era un abisso di sgradevolezza, gessosa e nauseabonda per un intenso odore di acido fenico, la torta di frutta presentava un po’ di triste frutta su di una base di sfoglia asciutta e sfatta, sbriciolata.
Abbiamo bevuto un cattivo Bianco di Custoza, appena un po’ profumato (Arvedi d’Emilei 1985), ed un Primizio, vino novello della Fattoria Montesanto, soltanto bevibile.
Siamo perplessi nel giudicare il conto: avremmo avuto diritto ad un risarcimento danni; presa in sé la cifra non era davvero alta, ma che senso ha pagare per questo?

Come abbiamo detto Roma è affollata di posticini, localetti, mescite, messi in angoli suggestivi, sotto volte possenti, arredati anche con gradevole fantasia e qualche bel pezzo d’antiquariato, che sarebbero estremamente piacevoli da frequentare, se l’atmosfera non risultasse rovinata da una strana protervia dei gestori e da un ancor più strano masochismo degli avventori, che li trasformano in spazi fumosi e maleodoranti in cui si è male accolti e frettolosamente serviti. Tale è il caso dell’enoteca Il Piccolo, in via del Governo Vecchio 74/75: una vineriuccia con pochi bei tavolini ed un vecchio bancone, in cui siamo entrati più volte, sempre irresistibilmente attratti dal posto e successivamente irritati per ciò che vi abbiamo trovato: si può infatti bere qualche bicchiere di buon vino e magari anche di champagne, tenuti come si deve, ma tra sgomitate, malagrazia e fumo, a prezzi che non sono da meno di quelli di via Veneto, e, inoltre, fanno piangere il cuore solo a vederle certe tartine di gamberetti e sparute fette di crostate messe lì sotto vetro in triste desolazione!

Poco più in là, in Piazza di Pasquino, c’è invece un ristorantino astrologico e vegetariano,
I tre maghi, che è quanto mai gradevole ed accogliente, con le sue ampie e luminose sale, pulite e aerate, dai colori chiari, e ben riscaldate. Il servizio è sorridente e garbato e dimostra come si possa offrire il comfort anche sotto il segno della «alternativa». Noi non ci sentiamo particolarmente coinvolti nei problemi zodiacali, però non ci ha dato fastidio questo aleggiare di Vergini e Acquari tutto intorno a noi. Il menù è diviso tra piatti di Fuoco, di Terra, di Aria e di Acqua, con un’appendice di piatti del mese non caratterizzata astrologicamente. Tra i piatti di Fuoco abbiamo provato un’Insalata di crescione, rughetta, sedano e spinaci, fresca e croccante che abbiamo potuto condire con un profumato olio d’oliva; ed un Tortino di crescione e lattuga, con farina integrale, morbido e caldo. Tra i piatti di Acqua, le Verdure miste al vapore erano tutte al giusto punto di cottura, abbondanti e varie; mentre dal menù del mese abbiamo scelto una gustosa Pasta al forno con broccoli, ricoperta di lieve besciamella. Forse meno riusciti i dessert: una Torta provenzale e una Torta di crema e mandorle, un po’ soffocanti e non molto saporite. Un piccolo inconveniente ci è capitato con il vino: un Bianco di San Gimignano Poggio alle Rocche di buona qualità, il cui aroma era pregiudicato dall’invadenza di un profumo di sughero proveniente dal tappo, forse anch’esso troppo integrale. Il conto resta, tutto sommato, accettabile e la lista è piuttosto varia e muta spesso.

28 – Gennaio ‘87

giovedì, 1 gennaio 1987

Il volume di Vittorio Gregotti, Questioni di architettura (Einaudi 1986, pp. 200; Lit. 24.000), raccoglie quarantanove editoriali scritti dal direttore del periodico Casabella tra il 1982 ed il 1986. Non è facile orientarsi, soprattutto nel nostro secolo, in una materia così intricata quale è l’architettura: vi sono coloro che guardano esclusivamente al passato e ne rimpiangono la (apparente) omogeneità e altri che, con arditi teleologismi, inventano teorie per tutti i futuri possibili. Ben giustamente, quindi, Gregotti mette in evidenza, nella sua prefazione-postfazione, la contradditorietà delle nostre idee sulla architettura e sulla cosa architettonica. Una enorme confusione regna già, a livello teorico, anche nell’operatività più spicciola. L’ottocentesco concetto di progresso è oggi in crisi anche in architettura.
Le tecniche sono realmente migliorate o la loro proliferazione non finisce spesso per appesantire il progetto e la sua realizzazione? La stessa quantità di costruzioni è spesso scambiata per qualità, mentre invece si inserisce in modo inattuale in realtà socio-economiche molto differenziate, avvezze ad altre coesioni ed abitudini interpersonali. Il concetto di valore stesso è andato in frantumi e l’architettura non riesce poi a trovare un significato collettivo. Secondo l’autore bisogna accettare questa contradditorietà: «Tornare a soffrire la realtà, a scontrarsi con la ricchezza dei temi da essa offerti, non tanto cercando di costruire una risposta ai problemi da essa posti per mezzo dell’architettura, quanto per utilizzare le sue offerte come materiali per l’architettura.» (pp. XXII, XXIII).
La cosa architettonica deve sapersi situare nel presente, anche quando il progetto-realizzazione si stende a lungo nel tempo: dovranno essere tanti frammenti che si concatenano. Solo così la cosa architettonica sarà in contatto con il vero. Indubbiamente la politica e l’economia la condizioneranno, ma l’architettura deve sapersi insinuare tra gli scarti lasciati liberi dal reale.
Tutte queste osservazioni ci sembrano, alla lettura, assai assennate: abbiamo persino il sospetto che siano un po’ troppo ovvie. Dovremmo quindi soltanto abbandonarci alla manipolazione del suolo e dello spazio che l’architettura ci impone qui ed ora? Se il passato è in frantumi e il futuro è invisibile, richiamarsi a questo tipo di presente non rischia semplicemente di giustificare il qualunquismo politico, estetico e morale?
Le nostre sono domande e non affermazioni e ciò significa che la somma degli scritti qui raccolti ha avuto in noi risonanze che non ci hanno lasciati indifferenti. Tanto aprire di problematiche ci pare però poi condensarsi in un atteggiamento che sembra chiaramente espresso dalla frase con cui si apre il saggio Il faut tuer la rue corridor. Dice testualmente il nostro architetto: «Quale è il mio ideale di città? Posso rispondere subito in negativo dicendo che certamente il mio ideale di città non è nessun tipo di città ideale (…) viene la tentazione di rispondere che (come per le città) i piatti buoni e le belle donne ti piacciono tutti.» (p. 128). Frase indubbiamente intelligente, ma con la quale Gregotti si propone come l’ennesimo Pilato dell’arte sua, ansioso solo di lavarsi le mani da ogni colpa. Comunque in tutto il libro le osservazioni interessanti su i vari argomenti trattati sono molte, anche se mancano le idee chiare, o meglio: è chiaro che non c’è nulla di chiaro.
Forse gli architetti sono solo fantasmi in rapporto privilegiato con quelli che sono i possibili «modi di costituzione del fantasma dell’architettura»?

Vittoria Corti, Ritratto di un giovane illuminista (RADAR/SEI, Bari 1985, pp 107).
Pervenuto senza prezzatura e quasi casualmente tra le nostre mani, ci ha attratto questo volumetto tutto giocato intorno alla impercettibile presenza di un epistolario, attraverso cui viene raccontata la storia di un giovane sufficientemente anonimo, vissuto nella prima metà del Settecento.
Figura gradevole, rispecchia nelle sue piccole quotidianità la grande società dei lumi: fantasie, sogni, personaggi importanti come Voltaire, totalmente sconosciuti come l’anonima sorella, si avvicendano e sono descritti con gusto garbato. Non si trovano certo in queste pagine neppure accenni delle possenti lotte filosofiche e politiche dell’Italia e dell’Europa del tempo, né la scrittura ha la sferzante potenza degli illuministi, ma è quieta, sottile, attenta agli odori ed alle atmosfere, come circoscritta per intero in un clima crepuscolare.
Un piccolo libro con cui passare gradevolmente un piccolo tempo.

28 – Gennaio ‘87

giovedì, 1 gennaio 1987

Mettere in scena il Faust di J.W. Goethe volendo in uno stesso spettacolo unire il primo e il secondo Faust è impresa assolutamente sconsiderata. Ovviamente bisogna operare tagli su tagli per rispetto della pura e semplice sopravvivenza fisica del pubblico e degli interpreti, ma proprio per questo l’impresa è ancor più difficile. Il primo e il secondo Faust sono affreschi immensi dove si esprime non soltanto la grandezza di un uomo, ma anche le fantasie, gli orrori ei sogni di due epoche. Nel primo Faust un romanticismo intenso, intriso di Sturm und Drang ma reso drammatico e realistico dall’ancora vicina cultura barocco-illuminista; nel secondo c’è invece il dispiegarsi della fantasia del vecchio Goethe, che ricerca la classicità e la frantuma in un romanticismo intriso di suggestioni che prendono i miti e i personaggi dell’antichità inserendoli nelle aspirazioni, politiche, sociali e religiose del tempo. Ci siamo seduti in poltrona al Teatro Valle l’altra sera per vedere che cosa avrebbe saputo fare Glauco Mauri di uno dei capolavori dell’arte mondiale. Siamo rimasti letteralmente ammirati della geniale ed erculea fatica che egli ha saputo affrontare. Nonostante i tagli, rimaneggiamenti, ammodernamenti (discretissimi), almeno una buona parte della grandezza dell’opera di Goethe non è andata perduta. Intenso, drammatico e accorato il primo tempo: Faust, filosofo, giurista, medico e teologo, sentendo arido tutto il suo sapere e considerando inutile la sua vita, stringe un patto col diavolo per ottenere giovinezza e amore capaci di ridargli il piacere di vivere, tutto ciò a prezzo di delitti e del sacrificio di Margherita, giovane vittima innamorata. L’atmosfera del secondo tempo è invece assolutamente fantasmagorica: Faust chiede sempre di più, sempre più insoddisfatto: imperatori, buffoni, dèi e semidei di tutte le mitologie gli danzano intorno facendo cornice alla sua vicenda d’amore con la bella Elena di Troia. Ancora insoddisfatto Faust sceglie il potere ed è quasi padrone del mondo quando pronuncia la frase che tronca la sua vita. Mefistofele e i suoi diavoli vorrebbero la sua anima, ma sono gli angeli a vincere. Abbiamo malamente sintetizzato ciò che già era stato bene sintetizzato sulla scena. La prima e la seconda parte, ben differenziate dal punto di vista interpretativo, non erano tra loro né slegate né incoerenti. La cifra shakespeariana della prima parte presentava personaggi possenti; inseriti in chiaroscuro di sentimenti ampiamente tratteggiati; nella seconda parte la scelta è stata di presentare tutti i personaggi come stralunate marionette metafisiche, simbolicamente efficaci ad eccezione dei due protagonisti: Faust e Mefistofele sempre immersi nel loro incontro scontro tra due individui pienamente umani (e umano, umanissimo era anche il diavolo).

Glauco Mauri è stato davvero impareggiabile, sia quando vestiva i panni del vecchio Faust, sia quando impersonava Mefistofele. Anzitutto i due caratteri erano ben differenziati. Per differenziarli avrebbe anche potuto fare la scelta più facile: cioè optare per due moduli interpretativi fissi, che, per quanto diversi tra loro restassero però immobili al loro interno; invece no: in un’estrema coerenza psicologica sia Mefistofele, sia Faust avevano continui cambiamenti di modi, di gesti e mimica. Ci ha assolutamente strabiliati l’uso della voce fatto dall’attore: strumento reso capace di tonalità sempre nuove, talvolta ardite, da grande virtuoso. Collaboratore efficacissimo e interprete non secondario Roberto Sturno alternantesi anch’egli nei panni del filosofo e del diavolo. Qui il talento registico ha permesso che si creasse un perfetto gioco contrappuntistico tra i due attori e i due personaggi. Il più giovane Sturno non è mai stato da meno dello smaliziato Mauri. Siamo rimasti rapiti dalla bravura di Angela Di Nardo: nella prima parte è stata una giovane ed appassionata Margherita, che ha saputo percorrere tutte le strade di un amore pudico, tenero, appassionato e disperato. La scena nel carcere è stata un vero capolavoro; sebbene qua e là potesse far venire in mente Ofelia, la sua intensità drammatica è riuscita a coinvolgere e a toccare mandando in frantumi ogni schema pre-costituito. Brava è stata anche nel ruolo di Elena, sebbene la parte stessa sia meno incisiva. Gianna Giachetti nei molti ruoli femminili è stata duttile, varia, aggressiva e sapientemente umoristica. Felice Leveratto, Rinaldo Porta, Claudio Marchione, Francesco Marino, Luca Dei Bei e Massimo Albanese hanno saputo dare ciascuno voce e corpo a più personaggi con una grande dimostrazione di versatilità e di preparazione professionale di ottimo livello. I costumi di Odette Nicoletti hanno risolto con intelligenza i problemi di stili ed epoche riuscendo ad essere sempre divertenti e fiabeschi. Le scene di Mauro Carosi erano ridotte a pochi elementi su cui dominava la macchina di piani inclinati semoventi, sempre in grande evidenza. Glauco Mauri è stato un regista intelligente ed ha collaborato anche alla riduzione insieme con il traduttore dei testi di Goethe Dario Del Corno. Le musiche di Arturo Annecchino non ci hanno convinto: un imperversante glockenspiel registrato e anche presente in scena, coi suoi scampanellii un po’ troppo dolciastri ed anche i cori un po’ fantasmeschi non sottolineavano con efficacia situazioni ed atmosfere, ed anche gli altri interventi sonori sono stati al di sotto del respiro dello spettacolo nel suo insieme.

È molto giusto che un attore prenda un copione e se lo ricucia addosso. Noi sosteniamo che un testo teatrale appartiene non tanto alla storia del teatro vero e proprio quanto alla storia della letteratura: il teatro vive infatti delle realizzazioni del testo, ognuna delle quali è sempre nuova e diversa. Troppo spesso è successo, però, che attori e registi si siano identificati con le sartine di una volta, convincendosi di dover lavorare soprattutto per le varie famiglie De Tappetti; così che è invalso il costume di prendere un testo scritto da un autore di teatro, più o meno indifferenti al fatto che si trattasse di Shakespeare o di Nicodemi, di rivoltarlo di qui, accorciarlo di là, aggiungere un finalino, come fosse un collo di falpalà, tanto che alla fine il vestito non solo è completamente diverso da ciò che era in origine, ma acquista un che di grottesco, come un abito da sera indossato da uno spaventapasseri; e ciò accade soprattutto quando il lavoro di riadattamento è fatto senza la compartecipazione dell’autore. L’attore mira troppo spesso alla battuta facile, all’applauso e cerca perciò di ripresentare ossessivamente le situazioni note, i vecchi effetti, le gags più risapute della propria storia teatrale: la famiglia De Tappetti ride, tutta in ghingheri nei suoi abitini rifatti dalla sartina del piano di sotto, e si pavoneggia nel foyer. E’ giusto che l’attore reciti anche per questa gente, ma non deve limitarsi al ruolo di ovvio intrattenitore, di manichino per abiti rivoltati. Certo non deve tradire le proprie conquiste, ma deve cercare anche qualcosa di sempre nuovo: ha il dovere morale, artistico e culturale di non darsi mai tregua e di non indulgere al desiderio di parere sempre uguale, malgrado il tempo che passa. L’età non conta.
Franca Valeri è una attrice di talento, ma ha sempre avuto il difetto di tuffarsi, seppur con grande abilità, nella coazione a ripetere. Quasi sempre lo ha fatto con maestria e i suoi personaggi, ripetuti in continuazione, hanno talvolta ritrovato accenti nuovi. Questa volta crediamo che l’attrice abbia cercato l’occasione di cimentarsi e di mettersi alla prova scegliendo di rappresentare al Piccolo Eliseo un testo non scritto appositamente per lei: Ho due parole da dirvi di Jean Pierre Delage. L’autore è un attore francese poco noto al di qua delle Alpi, che da qualche anno ha tentato sortite anche nella regia teatrale e televisiva; questa è la sua prima opera teatrale e Franca Valeri se l’è ricucita addosso, aggiungendovi vere e proprie applicazioni del suo personale repertorio. I due atti hanno a mala pena il respiro di un atto unico e risultano un po’ ripetitivi. L’unico interlocutore in scena è il telefono, fin troppo famigliare all’attrice, che ne approfitta largamente. Il testo avrebbe anche la bella idea di far dialogare la protagonista con il pubblico, ma si è preferito rivolgersi ad un pubblico inesistente anziché a quello realmente presente in sala. Perché, ci domandiamo, adattamento per adattamento, l’attrice non ha usato la grande torcia elettrica che impugnava per cercare davvero i volti delle persone presenti in sala, osando parlare con il suo pubblico presente, disponibile ed intenerito?
Qualcosa di nuovo comunque si è potuto notare, sebbene quasi di nascosto: ed erano momenti di umorismo astratto, ancora più evidenziati dall’accostamento coi brani già noti, così corposi e realistici; ed altri momenti di ondeggiante disorientamento, come se l’autore non sapesse ancora padroneggiare bene la scrittura teatrale.
Non c’è una vera e propria trama, ma piuttosto viene rappresentata la situazione di una non più giovane star dello spettacolo che, al rientro da un soggiorno in clinica per malattie nervose, parla di sé, mentre il mondo esterno irrompe a tratti attraverso lo squillo del telefono, e che finisce col parlare direttamente al Padreterno, in un apoteosi di metafisico delirio. Nonostante le riserve, non si può non rimanere ammirati dalla bravura di Franca Valeri, in alcuni momenti proprio irresistibile, come nella scena della voltapagine e nel finto collegamento con la trasmissione radiofonica in diretta. Molto piacevoli gli inserimenti musicali di Fiorenzo Carpi, con due belle canzoni che alleggerivano la ininterrotta chiacchiera (sebbene la Valeri le abbia più dette che cantate).
La scena di Francesco Zito citava un po’ ironicamente uno jugend stil ad uso delle signore bene della Avenue Foch, e l’abito di Roberto Capucci era un giusto compromesso tra un vestito e un costume di scena.

28 – Gennaio ‘87

giovedì, 1 gennaio 1987

La voce della Poesia

«In tutta la mia vita non ho mai esercitato un atto di violenza né fisica né morale. Non perché io sia fanaticamente per la non violenza. La quale, se è una forma di auto-costrizione ideologica, è anch’essa violenza. Non ho mai esercitato nella mia vita alcuna violenza né fisica né morale semplicemente perché mi sono affidato alla mia natura cioè alla mia cultura.» (Pier Paolo Pasolini)

La voce della Poesia è forse la sola che abbia saputo parlare con efficacia contro la violenza.
Agli altri che non sono Poeti restano a disposizione alcuni strumenti e più poveri linguaggi per tentare di capire ed arginare un fenomeno che coinvolge tutti gli esseri umani, ad un tempo vittime ed artefici di una violenza globale che molti sono indotti a credere connaturata all’uomo da sempre.
I fenomeni di violenza turbano non tanto questo o quell’ordine costituito, ma i più elementari diritti di sopravvivenza ed i più intimi bisogni di libertà, chi se ne occupa deve però essere abbastanza consapevole dei propri limiti, da imporsi il più rigoroso metodo di indagine anche per il raggiungimento di minimi obiettivi.
La psicoanalisi, scienza «umana» per eccellenza, si preoccupa di indagare non solo ciò che l’uomo appare o crede di essere, ma anche ciò che non sa di essere. Socrate, filosofo forse, grande creazione poetica certamente, poneva in questa ignoranza la causa, e lo stesso essere del male. Il male è sempre violenza, e la violenza è sempre male, anche quando è agita per la «giusta causa», in tal caso potrebbe tutt’al più essere un «male minore».
Una gerarchia dei valori potrebbe considerare variamente i concetti di «maggiore» o «minore», ma tutte le gerarchie di valore sono elaborate da uomini e la violenza è sempre agita contro l’uomo.
Ragionamenti eccessivamente sintetici e magari semplicistici come questi non possono certo rendere conto di un problema dibattuto da quando l’essere vivente ha cominciato a dibattere; per questo chi non può contare sul meraviglioso privilegio di essere voce di Poesia, ma è più impersonale e collettiva realtà deve combattere (triste destino delle parole: si può solo fare guerra alla guerra!) perché ogni particolare possa essere analizzato lì dove si realizza, senza la pretesa onnipotente di analizzare l’universale.
Anche per queste ragioni, e per un bisogno di esplicitare convinzioni profonde su di una così vexata quaestio, non può che far piacere che il primo argomento di cui l’Istituto Psicoanalitico per le Ricerche Sociali si occuperà, usando anche alcuni spazi di questa stessa rivista, sia proprio la violenza ed il vandalismo.

28 – Gennaio ‘87

giovedì, 1 gennaio 1987

Dopo aver salito il magnifico scalone a colonne doriche binate del Bernini e dopo aver contemplato il bellissimo leone di pietra di epoca romana, siamo entrati nel salone al primo piano di Palazzo Barberini, la cui volta è ornata da quel capolavoro che è il trionfo della Divina Provvidenza di Pietro da Cortona, dove è allestita, forse con eccessiva modestia, la mostra di Caravaggio nei musei romani: un gruppo di preziosi gioielli artistici provenienti da diversi musei cittadini e da alcune chiese di Roma e dintorni. Accanto alle opere di dubbia attribuzione, pure splendide a vedersi, vi sono quelle di accertata autenticità.

È possibile anche tentare confronti e fare riflessioni come davanti alle due versioni del San Francesco in meditazione, una proveniente dalla Chiesa di Carpineto Romano e l’altra da quella dei Cappuccini di via Veneto; o davanti al San Giovanni Battista della Galleria Corsini che vede il Longhi tra i sostenitori dell’attribuzione al Caravaggio. Oltre a ciò non si può non provare un’intensa emozione vedendo uno dopo l’altro capolavori come il Bacchino malato, San Gerolamo scrivente o la Madonna dei palafrenieri. Opere di cui non riteniamo sia necessario da parte nostra tentare una esegesi, tanto ciascuno le ha da sempre collocate in un suo spazio emotivo. Ci si può magari rammaricare dell’assenza di alcune opere restate nelle chiese di Roma o nella pinacoteca del Vaticano, vale però la pena per i romani di cogliere al volo quest’ottima occasione visto che la mostra rimarrà aperta sino alla fine di febbraio.
Chi si prenderà la pena di arrivare fino lì non potrà fare a meno di considerare quanto sia vero che il Caravaggio è un pittore barocco e quanto sia riduttivo definire barocco solo un piccolo aspetto dell’arte seicentesca. Chiaro-schuri possenti e gesti assolutamente realistici passano in intima continuità dalle tele caravaggesche agli scaloni berniniani, allo splendido soffitto di Pietro da Cortona, in un accordo perfetto, malgrado la povertà dell’allestimento di questa mostra ben lontano dai fasti «assiro-babilonesi» che si dispiegano intorno a certe occasioni estemporanee di consumismo artistico. Oppure pensiamo, ed è ben più grave, in questo momento ai milioni di visitatori per lo più inconsapevoli o beoti che fanno la fila per ore davanti al parigino Musée d’Orsay dove la brutalità necrofila di Gae Aulentí ha costretto intere collezioni d’arte.

Siamo convinti che le opere d’arte debbano essere sistemate, quando sono per qualche ragione raccolte in grandi quantità in modo da operare una specie di contrappunto con l’ambiente che lo accoglie. Se però non è possibile avvicinarsi a questa ideale perfezione è meglio allora optare per chilometri dì anonime pareti, lungo le quali saranno la forza propria dell’opera e la capacità d’attenzione e di volontà del visitatore in grado di ricavare appropriati spazi scenici ed emozionali. Niente ci è parso peggiore dell’intervento sgangherato nella bella stazione di Laloux tutta di vetro e di ferro, ora così mortificata dall’inserimento di tanti materiali estranei e laidi, che ne alterano luci e spazi, con distruttiva violenza. Tanto che pare una visita al cimitero quel cercare i loculi in cui sono compresse le opere dì Courbet, Manet, Degas e Rodín! Ci resta forte il disgusto per lo strombazzato clamore intorno all’autrice di tanto scempio, come pungente sentiamo la malinconia per la sordità culturale che rischia di far passare inosservata una occasione come questa di vedere tanto Caravaggio radunato in un ambiente che così vivamente si mostra capace di dialogare con la sua arte.

28 – Gennaio ‘87

giovedì, 1 gennaio 1987

Il rock ‘n roll è una musica sorta negli anni cinquanta come reazione alla musica di consumo sdolcinata e snervata dell’epoca; ha avuto grandi interpreti e si è articolato in diversi filoni. L’originario rock a terzine, ritmicamente ossessivo, ma spesso fluido e addirittura raffinato in certe esecuzioni, si è venuta sviluppando negli anni sessanta e settanta fino a cadere in una musicalità sempre più imborghesita che ha finito per ridursi ad imbecille formula per urlatori in stivaletti dalla punta aguzza, per lo più assolutamente stonati, accompagnati da strumentisti melensi, privi del senso del ritmo, all’insegna di «alziamo gli amplificatori» e via. Parallelamente c’è stata però anche una linea di ricerca più incisiva ed aggressiva, una linea dura che si è mescolata con il country e il beat riconquistando l’originaria energia del primo rock, anche se inquinata qua e là da suggestioni punk. La musica dei Circus Joy che abbiamo ascoltato all’Asphalt Jungle di via Alba 42 è molto ingenua, un cantante e quattro strumentisti si danno da fare a produrre un ritmo ossessivo e armonie iper-ripetitive, spesso opache, con facili effetti sonori, stridori, boati e giochetti spettacolari come quello del cantante a torso nudo che intraprende, con un martello in mano, la simbolica demolizione di un vecchio frigidaire. Tutto sommato, però, il gruppo riesce ugualmente a raggiungere un effetto musicale abbastanza incisivo; non ci sono grosse slabbrature; il richiamo della musica africana è abbastanza evidente, anche un po’ di maniera, ma con esplosioni ritmico-recitative di sicuro effetto. Certo, la batteria, soprattutto, dovrebbe stare più attenta a non scadere in ritmicità che riecheggiano troppo da vicino tanghi e bolero.

Anche qui meritano un discorso a parte il locale ed il pubblico. In un vecchio night-club di periferia, tutto nero e ormai fatiscente abbiamo visto fervere un genere di vita che difficilmente si può giudicare. Aggressività di bellicose divise di cuoio nero e torbidi make-up da regine della notte sono portati in giro da ragazze e ragazzi di semplicità disarmante; nei loro discorsi continuano ad affiorare vecchi punti di riferimento cui il consumismo, anche musicale, li ha avvezzati. L’aria da «sballo» regna e certo c’è anche chi sballa, ma al bar siamo stati tra i pochissimi a bere un cocktail di super-alcolici e i modelli di comportamento non erano poi diversi da quelli della banda di Fonzie e di quei lontani Happy days televisivi! Ciò ha permesso a noi longevi di fingerci, per poche ore, maledettamente disincantati.