Psicoanalisi contro n. 28 – Il passero in gabbia

gennaio , 1987

Una giovane donna, disorientata e spaurita, si recò da uno psicoterapeuta per chiedergli aiuto. Era sempre stata molto nervosa, chiusa ed introversa sin da quando era bambina, ma pochi giorni prima le era accaduto un fatto che l’aveva buttata letteralmente nel panico. La notte aveva incubi, si svegliava di soprassalto con il cuore in gola. Fino a pochi giorni prima la sua vita era trascorsa abbastanza quietamente accanto ad un uomo pacifico, tranquillo, forse un po’ troppo indifferente e casalingo. Avrebbe voluto uscire, avere amici, andare a teatro, al cinema, ma il marito la sera stanco si addormentava davanti alla televisione e solo qualche volta uscivano: la domenica. Avevano una figlia di otto anni: bella, bionda, con grandi occhi verdi, teneramente amata da tutti e due. La bambina era un po’ pigra, silenziosa e non particolarmente emotiva; anzi, la madre, spesso, era irritata da questa sua apparente imperturbabilità; spesso la aggrediva perché faceva lentamente i compiti, perché aveva maldestramente versato un bicchiere, e la sgridava, la sgridava fino a che la bambina si metteva a piangere. Allora la madre le chiedeva scusa. Non era contenta di questo suo comportamento, detestava questo suo essere così nervosa, ma tutto sommato si credeva normale. Invece, qualche giorno prima… domenica, erano a tavola tutti e tre, la madre il marito e la figlia. Quando venne in tavola il secondo, un succulento piatto di carne, la bambina disse: «Io non mangio, non ho più fame». Poi rimase zitta ed imperturbabile. La madre cominciò ad alterarsi, cercò di ordinarle di mangiare; ma, la bambina tranquilla scuoteva il capo. Improvvisamente senza sapere perché la donna prese il proprio piatto e lo scaraventò contro la figlia, che ebbe appena il tempo di abbassare la testa ed il piatto si frantumò contro il muro che era alle sue spalle, lasciando una grande chiazza di unto. Quel giorno non ebbe nemmeno il coraggio di chiedere scusa a sua figlia; corse in camera sua a piangere, a piangere, a piangere, esterrefatta e terrorizzata. L’appartamento era nel silenzio più assoluto: senti la porta sbattere, padre e figlia erano usciti. Andò nella camera da pranzo, con orrore vide quella chiazza sul muro, esattamente
dietro il luogo dove era la bionda testa della figlia. Inorridì, «sono pazza, sono una assassina», disse a se stessa, e corse da uno psicoterapeuta consigliatele da un’amica. Aveva voglia di dire molto di sé. Quasi subito raccontò questo: «Mio padre amava molto gli uccelli, aveva gabbie di canarini, di pappagalli, e di altri pennuti più strani, variopinti e canori. Raccoglieva anche quelli caduti dal nido, quelli feriti. Mi raccontava sempre che da bambino, un giorno, non era così piccolo da non ricordarsene, aveva stretto tra le mani un pettirosso che aveva catturato non si sa più perché, e sentiva il piccolo cuore pulsare tra le mani. Improvvisamente lo scaraventò per terra, e quell’esserino rimase lì, spiaccicato ed inerte. Ero un bambino violento diceva di sé mio padre, ora curo gli uccelli perché debbo farmi perdonare di quell’assassinio terribile. Ancora me lo sogno la notte; ero un bambino violento diceva scuotendo la testa. Un giorno raccolse un passerotto, con una zampa ferita, lo curò, legò attorno all’arto dell’animale uno stecchino con una benda; gli dava da mangiare e da bere ogni giorno. Il passero guarì, saltellava nella gabbia». Lei, bambina, lo guardava. Quel passero, però, era triste, non cinguettava. Un mattino fu trovato morto: il padre apri la gabbietta e lo prese in mano con aria tristissima, la bambina, guardandolo, gli disse: «Gli hai guarito la zampa, ma gli hai fatto una grande violenza. I passeri non debbono stare prigionieri, quel poverino ha preferito morire»; suo padre si voltò e le affibbiò un ceffone terribile. Violenza, violenza ed ancora violenza, sottile, crudele, familiare.

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La violenza è sempre un problema individuale? Risale sempre a situazioni o a traumi infantili? La violenza è una malattia? Se così fosse ogni gesto di violenza sarebbe sintomo di una situazione patologica personale, e bisognerebbe affrontarla caso per caso con una terapia adeguata. Ma la violenza non si perpetra soltanto nel chiuso delle famiglie, la violenza esce dalle case, va nelle strade, nelle scuole, nei cinema, persino nelle chiese. Esplode nei campi sportivi e nelle autostrade. La violenza è un problema che riguarda tutti, perché tutti siamo violenti figli di violenti. La violenza è un problema sociale quanto individuale. Lo psicoterapeuta spesso la chiama aggressività, quasi per non spaventare il suo paziente, e analizza con lui violenze agite e subite. Ma il paziente è un essere umano che vive nel mondo; tutti gli esseri umani vivono nel mondo e si trovano di fronte al problema della violenza.
Qualcuno può desiderare di curare la propria aggressività, ma la violenza è una presenza continua e costante dentro e fuori di noi. Il più debole è sopraffatto dal più forte, e spesso quando un essere umano è stato costantemente sopraffatto, appena acquisisce un po’ di potere nei confronti di uno più debole di lui diviene terribilmente violento.
Il rituale della violenza si perpetra ogni giorno, ostinatamente, dovunque.
I violenti sono sempre vigliacchi, altrimenti non sarebbero violenti, sarebbero persone semplicemente forti, che hanno la capacità di resistere all’aggressione degli altri, ma anche la capacità di reggere al proprio desiderio di sopraffare. Coloro che non reagiscono alla violenza sono a loro volta vili, perché accettano che questo rituale, macabro e terribile, si perpetui, perciò violenza e viltà coincidono. Bisogna avere il coraggio di opporsi alla violenza, cercando in ogni modo di non propagarla. Questo è difficile, ma gli esseri umani non dovrebbero fermarsi di fronte alle difficoltà. Vi possono essere cause sociali, economiche, culturali, individuali, che generano e producono i gesti di violenza. Ci deve indubbiamente essere una volontà collettiva che tenti di mutare le condizioni sociali che possono produrre violenza, ma l’atteggiamento di ognuno non deve essere quello di delega. Non sono soltanto i potenti, i ricchi, coloro che guidano le società, ad essere violenti. È altrettanto violento l’insofferente impiegato dietro uno sportello, l’usciere di un ministero, o la madre che scarica le proprie insoddisfazioni torturando il figlio con inutili punizioni.
La violenza mina la qualità della vita, e non si può aspettare che cambino i governi o si sovvertano i rapporti di produzione. Se non cambiano gli esseri umani, possono cambiare i governi, i rapporti di lavoro e la distribuzione della ricchezza: l’uomo, sempre quello, ripeterà quotidianamente il rituale della sopraffazione. Non sono sufficienti le terapie individuali, o forse tutti dovrebbero sottoporsi ad una psicoterapia; ma, questo sarebbe allora un intervento di massa, cioè sarebbe una terapia di gruppo estremamente allargata. Far prendere coscienza al gruppo che la violenza rende penosa la vita a tutti, che la sopraffazione distrugge la buona qualità della vita e che non serve ad altro che a propagare altra violenza è importante quanto, e forse di più, che combattere una epidemia virale. Non è soltanto un problema pedagogico, non si può partire da adesso; dai bambini di oggi per formare, forse, adulti meno violenti nel futuro. Bisogna aggredire la violenza di oggi, la sopraffazione quotidiana.
Però la violenza talvolta è ribellione ad una violenza ancor più forte. Ma allora questa non è violenza, come ho già detto è forza di resistere e di opporsi.

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È difficile riuscire a capire quando la violenza sia pura sopraffazione o quando sia legittima difesa, o meglio legittima ribellione. È difficile però soprattutto teoricamente, concretamente è molto più facile. Le elucubrazioni sofistiche tentano di disorientare per giustificare sempre e comunque la violenza come reazione a violenze subite in passato dall’individuo, dal gruppo o dalla classe. Bisogna avere il coraggio di sporcarsi le mani nel combattere la violenza; bisogna avere il coraggio di lottare per una vita più felice per il maggior numero di persone qui ed ora. La violenza, quindi, deve essere allontanata. Ma come la si allontana se non con altra violenza? Questo parrebbe un problema insolubile se non ci fosse la concretezza della vita. La violenza genera sofferenza ed infelicità, e poiché produce esseri umani ancor più violenti continuerà a produrre infelicità. Di questo dobbiamo essere certi. Una bella frase, che è quasi un proverbio, dice: «La mia libertà finisce dove comincia quella di un altro». È la più bella definizione di libertà, ma è una definizione vuota se ogni essere umano non se ne fa carico e non cerca di porre limiti alla propria ed altrui libertà. Ma porre limiti è violenza? I dubbi sono legittimi, le costruzioni filosofiche e politiche sono comprensibili, bisogna stare, però, molto attenti che non siano giustificazioni per la violenza pura e semplice. Si dice: poiché alla violenza si deve opporre la violenza, poiché non è possibile sapere dove la libertà sfocia nell’arbitrio, accettiamo tutte le violenze e tutti gli arbitrii. Barrichiamoci in casa, oppure buttiamoci a violentare, a stuprare, a spaccare, a rendere più sgradevole possibile la vita a noi e agli altri. Queste sono due soluzioni profondamente negative. La terza soluzione sta nella consapevolezza del rifiuto della violenza, prima di tutto in noi, e poi negli altri: allora lentamente comincerà ad essere concreta la frase «la mia libertà finisce dove comincia quella di un altro».