28 – Gennaio ‘87

gennaio , 1987

Dopo aver salito il magnifico scalone a colonne doriche binate del Bernini e dopo aver contemplato il bellissimo leone di pietra di epoca romana, siamo entrati nel salone al primo piano di Palazzo Barberini, la cui volta è ornata da quel capolavoro che è il trionfo della Divina Provvidenza di Pietro da Cortona, dove è allestita, forse con eccessiva modestia, la mostra di Caravaggio nei musei romani: un gruppo di preziosi gioielli artistici provenienti da diversi musei cittadini e da alcune chiese di Roma e dintorni. Accanto alle opere di dubbia attribuzione, pure splendide a vedersi, vi sono quelle di accertata autenticità.

È possibile anche tentare confronti e fare riflessioni come davanti alle due versioni del San Francesco in meditazione, una proveniente dalla Chiesa di Carpineto Romano e l’altra da quella dei Cappuccini di via Veneto; o davanti al San Giovanni Battista della Galleria Corsini che vede il Longhi tra i sostenitori dell’attribuzione al Caravaggio. Oltre a ciò non si può non provare un’intensa emozione vedendo uno dopo l’altro capolavori come il Bacchino malato, San Gerolamo scrivente o la Madonna dei palafrenieri. Opere di cui non riteniamo sia necessario da parte nostra tentare una esegesi, tanto ciascuno le ha da sempre collocate in un suo spazio emotivo. Ci si può magari rammaricare dell’assenza di alcune opere restate nelle chiese di Roma o nella pinacoteca del Vaticano, vale però la pena per i romani di cogliere al volo quest’ottima occasione visto che la mostra rimarrà aperta sino alla fine di febbraio.
Chi si prenderà la pena di arrivare fino lì non potrà fare a meno di considerare quanto sia vero che il Caravaggio è un pittore barocco e quanto sia riduttivo definire barocco solo un piccolo aspetto dell’arte seicentesca. Chiaro-schuri possenti e gesti assolutamente realistici passano in intima continuità dalle tele caravaggesche agli scaloni berniniani, allo splendido soffitto di Pietro da Cortona, in un accordo perfetto, malgrado la povertà dell’allestimento di questa mostra ben lontano dai fasti «assiro-babilonesi» che si dispiegano intorno a certe occasioni estemporanee di consumismo artistico. Oppure pensiamo, ed è ben più grave, in questo momento ai milioni di visitatori per lo più inconsapevoli o beoti che fanno la fila per ore davanti al parigino Musée d’Orsay dove la brutalità necrofila di Gae Aulentí ha costretto intere collezioni d’arte.

Siamo convinti che le opere d’arte debbano essere sistemate, quando sono per qualche ragione raccolte in grandi quantità in modo da operare una specie di contrappunto con l’ambiente che lo accoglie. Se però non è possibile avvicinarsi a questa ideale perfezione è meglio allora optare per chilometri dì anonime pareti, lungo le quali saranno la forza propria dell’opera e la capacità d’attenzione e di volontà del visitatore in grado di ricavare appropriati spazi scenici ed emozionali. Niente ci è parso peggiore dell’intervento sgangherato nella bella stazione di Laloux tutta di vetro e di ferro, ora così mortificata dall’inserimento di tanti materiali estranei e laidi, che ne alterano luci e spazi, con distruttiva violenza. Tanto che pare una visita al cimitero quel cercare i loculi in cui sono compresse le opere dì Courbet, Manet, Degas e Rodín! Ci resta forte il disgusto per lo strombazzato clamore intorno all’autrice di tanto scempio, come pungente sentiamo la malinconia per la sordità culturale che rischia di far passare inosservata una occasione come questa di vedere tanto Caravaggio radunato in un ambiente che così vivamente si mostra capace di dialogare con la sua arte.