Psicoanalisi contro n. 28 – “Amor ch’a nullo amato…”

gennaio , 1987

Io penso che tutti gli esseri umani abbiano sempre solo fatto finta di credere che la matematica non sia un’opinione. La verità è saldamente situata al centro dell’essere, o meglio: la verità è l’essere nella sua più splendida ovvietà. Alcuni hanno confuso la verità con l’enunciazione della verità e l’hanno fatta coincidere con la tautologia.
«Il mare è il mare». Questa può sembrare una frase tautologica; ma è assolutamente evidente che la prima volta che si pronuncia la parola «mare» si fa riferimento ad un mare che non è lo stesso «mare» che si pronuncia la seconda volta. La copula «è» unisce come in un rapporto sessuale due entità tra loro diverse: due corpi, due mondi, due fantasie, due passati, due storie, due futuri. Il mare non è mai «il mare». Questa sembra essere una nuova tautologia; ma non è vero, è qualche cosa di più e di meno: è soltanto una affermazione.
La verità si beffa della tautologia e sta ben salda nel centro dell’essere. Se l’essere, però, fosse la verità, avrebbe ragione Platone; ma se avesse ragione non cambierebbe un bel niente né dell’essere, né del nulla e né della verità. Se non intervenisse la verità, l’essere e il nulla resterebbero immobili ed opachi. La verità è la verità: una nuova tautologia. La verità è verità per la verità. La prima volta che ho pronunciato oppure scritto la parola «verità» l’ho fatto una volta per tutte e così tutte le altre volte sono ugualmente l’unica volta. Proprio per questo la matematica è più che mai una opinione.

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Un bambino conta sulle dita: uno, due, tre, quattro, cinque… questa mano non ha più dita; l’altra: sei, sette; otto, nove, dieci… e poi? Perché dieci? Un bambino crede nelle sue dita, non nelle sue «dieci» dita. La luna guarda Talete che guarda la luna. Non si possono addizionare Talete e la luna, quindi non sono due: sono uno; ma, se sono uno, come fa Talete a guardare la luna? E come può la luna guardare Talete? Se la matematica non fosse una opinione, Talete non sarebbe mai esistito ed anche, questa notte, la luna non sarebbe né luna piena né luna nuova, semplicemente non esisterebbe, in quanto l’uno non può diventare due, perché Talete è caduto nella buca.

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L’infinito è un’entità matematica o metafisica che viene usata da studiosi così dissennati da osare muoversi ai limiti dell’umano pensiero. Se l’infinito è quello della metafisica i matematici non possono usarlo perché significa il tutto, comprende perciò anche la matematica e, comprendendola, comprende anche i matematici. Matematica e matematici sarebbero così strumenti di un tutto che va sempre un po’ oltre. I matematici però non usano l’infinito della metafisica: usano un altro infinito. Ciò vuol dire che gli infiniti possono essere due; ma, se sono due, non sono infiniti: frase, questa, assolutamente imbecille, o forse assolutamente vera. Forse gli infiniti sono infiniti: frase altrettanto imbecille e forse altrettanto vera. Poiché l’imbecillità non può coincidere con la verità, resta vero che non si possono sommare le pere con i canguri; ma è anche vero che se gli infiniti sono «infiniti», al plurale, non sono allora infiniti, perché il plurale è qualche cosa che è finito altrimenti non sarebbe plurale. L’infinito invece è uno e non sta con altri se non con se stesso. L’infinito è soltanto una fantasia dell’uomo, proprio per questo è possibile usarlo come se fosse una entità qualsiasi.
Le entità qualsiasi però non esistono: ogni entità ha le proprie caratteristiche. L’infinito matematico risulta allora essere diverso dall’infinito metafisico. Se è diverso gli infiniti sono, almeno, due. Che cosa ridicola, direbbe un bambino: due infiniti. L’infinito, quindi, metafisico o non, è ridicolo. O forse è solo qualche cosa di assolutamente frivolo come l’ombra della verità. La verità non è frivola, ma è profondamente situata nel centro dell’essere.
Torniamo all’infinito: un infinito o due infiniti? Tanti infiniti o infiniti infiniti? Nell’infinito metafisico, o matematico, nell’infinito degli infiniti, nell’infinito insieme infinito dell’insieme degli infiniti, dove sta un punto? Non è possibile saperlo. Quel punto si muove? Non è possibile saperlo. Poniamo un altro punto: potremo così dire che il primo punto si muove, o non si muove, in rapporto al secondo punto. Se anche il secondo punto, però, si muove, dobbiamo porre un terzo punto; se si muovono tutti e tre ne porremo un quarto, e poi un quinto, e così via fino a che dovremo dire che, nell’infinito, quei punti forse si muovono o forse sono immobili.
Bisogna, dunque, porre un punto, per definizione, immobile. Io dirò, allora, che quel punto non si muove, indicandolo con il dito. Qualcuno vorrà a sua volta sostenere che è immobile un punto diverso da quello che io ho additato, indicandolo con il suo dito.

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Talvolta si dice che una terapia analitica è giunta ad uno «stallo», cioè è immobile. Immobile rispetto a che cosa o a chi? Al paziente, all’analista, all’infinito, agli infiniti? È ferma perché non muove, non «diviene», non muta. Ma qual è lo sfondo immobile che può dimostrare che quell’analisi diviene, oppure non muta; quali sono i punti che cambiano posizione rispetto ad altri punti? I punti dell’analisi, dell’analista, del paziente, dello sfondo? Cosa vuoi dire che un’analisi è in un momento di stallo, cioè è ferma, perché non cambia? Ma cambiare è sinonimo di divenire. Non cambia rispetto a che? A qualcosa che è ritenuto immobile. E che cosa è l’immobilità? Gli infiniti insiemi di infiniti? Un pulviscolo, opaco e inerte come la nebbia. Un tempo, forse, dire che la matematica è un’opinione poteva provocare qualche turbamento, oggi più nessuno si turba. Turba però sentir dire che l’essere umano è un’opinione, perché c’è ancora chi non è sicuro di essere un uomo. Coloro che non sono sicuri di essere uomini, sono insicuri perché non hanno il coraggio di riconoscere l’umanità negli altri: non credono nella propria umanità perché non sanno credere negli altri uomini e allora si aggrappano alla scienza, pretendendo che almeno questa sia salda e solida, figlia dell’esperienza. L’esperienza si esprime in termini matematici, ma non scordiamo che la matematica è un’opinione, che non sa neppure dire se uno, due, tre, quattro, cinque punti sono realmente cinque o sono infiniti. Inoltre né i matematici né i fisici sanno dire se quei punti si muovano oppure no. Anche gli psicoanalisti non sanno dire perché l’analisi che stanno conducendo insieme con il loro paziente abbia raggiunto un punto di stallo, sia cioè ferma. Per farlo dovrebbero prendere loro stessi come punto saldo, fermo al centro dell’universo; questa è una bella presunzione, sia pure per un terapeuta. Come può un terapeuta così delirante arrogarsi il diritto di curare gli altri? «Medico cura te stesso».

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È realmente molto difficile capire quando l’analisi è ferma, proprio come è difficile capire se un punto si muove nello spazio, in mancanza di un punto fermo cui fare riferimento. È sempre indispensabile un punto di riferimento. I punti di riferimento nell’analisi sembrerebbero essere due: quello del paziente e quello dell’analista. Il punto di riferimento del paziente è la sua opinione su ciò che è, o dovrebbe essere, l’analisi; quali dovrebbero essere i suoi fini, quale la sua fine e quali dovrebbero essere gli effetti della cura. Proprio perché è «paziente» gli sono però oscure molte dinamiche dell’inconscio. Si fa avanti, allora, il punto di riferimento dell’analista, il quale sa che il fine dell’analisi è ben diverso da quello che il paziente crede consapevolmente di voler conseguire.
Chi si sottopone ad un trattamento terapeutico vuole certamente star meglio di come sta nel momento di inizio della cura; ma non è detto che dopo che l’analisi si sarà sviluppata non si saranno evidenziate nuove esigenze e sopraggiunti nuovi concetti di «meglio». Sapere cosa si vuole è difficile, ancor più difficile è saperlo e stabilirlo una volta per tutte. Ognuno può inventarsi qualcosa di sufficientemente credibile e, se ci riesce, può stare contento.
Falsa ed inaccettabile è poi quasi sempre l’affermazione: «Questa analisi la voglio interrompere perché non ha nessun effetto, la sento ferma da troppo tempo». Spesso il paziente dice questo proprio quando l’analisi sta facendo molto effetto e rischia di costringerlo a porsi il problema di affrontare grossi cambiamenti. Tutto ciò significa forse che solo l’analista può sapere dove si dirige l’analisi? Così non deve essere. Io non voglio questo e cerco, come psicoanalista di fare quello che so perché non sia così, insistendo nel proporre a tutti quelli che lavorano con me, pazienti ed analisti, di uscire dal loro spazio solipsistico per andare incontro all’altro in uno spazio comune. Il vecchio, banale, ma eroico spazio tridimensionale.

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Nell’analisi possono esserci momenti di stallo reale oppure fittizio. I momenti di reale stallo sono due, e vorrei far notare, sin da subito, che possono essere valutati entrambi solo osservando la situazione personale e specifica dello psicoanalista.
Lo stallo in analisi non è mai – e ribadisco: mai – uno stallo per l’analizzato, lo è esclusivamente per l’analista. Il primo caso di stallo si crea quando l’analista non capisce più il proprio paziente. Molto spesso questa situazione si verifica quando il paziente attraversa un periodo di rifiuto dell’analisi, di resistenza, di opposizione. Le dinamiche del paziente, però, in questa situazione sono quanto mai attive e addirittura divampanti e lampanti. L’ostinato silenzio, i ritardi, le associazioni faticose, le fughe, la restrizione del dialogo ad argomenti quotidiani sono momenti dell’analisi faticosi da reggere; ma finché il paziente rimane lì, seduto, sdraiato, o anche ritto in piedi e corrucciato come Napoleone a Sant’Elena, l’analisi continua.
Come ho già detto il lavoro analitico si blocca realmente solo se lo psicoanalista non capisce più: fino ad un certo punto era stato in grado di cogliere nessi, di trarre conclusioni, la struttura di quella psiche gli risultava leggibile nelle linee essenziali: una storia si stava ricostruendo anche con il suo aiuto. Il paziente, a sua volta, ritrovava brandelli di se stesso, aveva l’opportunità di cogliere significati e pur tra alti e bassi, era stato sempre possibile riprendere da capo. È vero però che in psicoanalisi non si ricomincia mai «da capo», ma si continua sempre. Ora più niente di tutto questo. Meno grave è se nella mente dell’analista c’è solo molta confusione, ma è tremendo se non c’è niente ed egli è come esaurito, stremato di fronte agli indecifrabili reperti archeologici che il paziente gli propone. Qui l’analisi è davvero ferma.

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L’altro caso di stallo in psicoanalisi si verifica quando il terapeuta diviene totalmente disinteressato al proprio paziente e alle sue problematiche. Quando non prova il minimo interesse per quello che si sente dire, per i sentimenti che l’altro prova. Quando, con fastidio, si accorge che è giunta l’ora in cui il tale o la tale stanno per entrare nello studio. Molto meglio la rabbia, l’odio, la condanna: se il terapeuta li sa gestire possono anche giovare al lavoro analitico.
La noia e il disinteresse, invece, bloccano l’analisi, indipendentemente dal materiale che il paziente può produrre, dalle sue capacità di elaborarlo o dalla scomparsa degli stessi sintomi. Spesso il terapeuta, per pietà o per viltà, non osa esplicitare al paziente tutto questo, perché dovrebbe analizzare anche se stesso, mettere in gioco le proprie dinamiche; preferisce perciò tacere, magari limitandosi a qualche interpretazione stantia che simuli la prosecuzione dell’analisi.

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Come si concilia tutto questo con la teoria che io sostengo in base alla quale l’analisi si fa sempre in due, insieme con un paziente attivo che lotta e contribuisce con il suo impegno alla riuscita del lavoro comune? Tutto parrebbe invece dipendere dalla salute mentale e dalla buona volontà dello psicoanalista, mentre non resterebbe al paziente che sperare di riuscire a fare innamorare di sé il proprio terapeuta, al fine di ottenere da lui il massimo interessamento e impegno. Non è certamente cosa da poco riuscire a fare innamorare di sé qualcuno, tentando di sedurlo con ogni mezzo. Tanto attivo è qui il ruolo del paziente, neppure ostacolato da qualunque moralismo che possa limitarlo: ogni colpo è lecito, anche i più bassi e disonesti, purché si accendano amore ed interesse. Questa impresa è una fatica non lieve. Uno dei più belli e noti versi danteschi: «Amor ch’a nullo amato amar perdona» condanna irrimediabilmente quel paziente che non riesce a fare innamorare di sé il proprio psicoanalista (per quanto in questa mia affermazione ci sia un eccesso di paradosso). È comunque importante che il paziente non permetta che l’analisi vada alla deriva, senza che anch’egli contribuisca a determinarne la rotta. Bisogna lavorare e lottare, non per soddisfare un solitario bisogno, ma per contribuire alla riuscita di una impresa che vede impegnate due persone per uno scopo comune. Il paziente può e deve far sentire all’analista che anch’egli è vigile e attento, ansioso di capire i misteri del proprio passato e del presente.

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Ci sono due momenti di arresto del lavoro analitico che, a prima vista, sembrerebbero dipendere dal paziente e non dall’analista; ma sono due casi di stallo apparente. Il primo è il caso del paziente che afferma di non farcela più a reggere il processo di destrutturazione, di non voler più proseguire. I periodi di destrutturazione, in realtà, non sono momenti di distruzione e tanto meno di regressione (intendendo per regressione il riassestarsi del paziente su posizioni e atteggiamenti del passato, con un’effettiva perdita delle conquiste del lavoro analitico). Il disorientamento che comunemente viene chiamato «destrutturazione» è invece un momento spesso proficuo: finalmente si sono abbattuti patologici punti di riferimento, attorno ai quali si erano formati alcuni sintomi della malattia. Se questo disorientamento non fosse accompagnato dalla sofferenza dovrebbe essere addirittura vissuto con entusiasmo, perché soltanto a questo prezzo l’analisi può davvero procedere. È quindi quanto mai legittimo che il paziente domandi di poter riprendere fiato. L’altra forma di stallo apparentemente causato dal paziente si verifica quando, per varie ragioni, egli decide di sospendere per un po’ di tempo l’analisi. Se la riprenderà, anche la pausa entrerà a far parte del processo terapeutico. Se il lavoro riprende, pur con avversione e conflitti, l’analisi non è in situazione di stallo; caso mai si è allontanata un po’ la meta della guarigione. È difficile dare un nome a questi momenti di stanchezza e di ritardo; ma non sono momenti di stallo.
È più faticoso essere pazienti o terapeuti?