28 – Gennaio ‘87

gennaio , 1987

Il volume di Vittorio Gregotti, Questioni di architettura (Einaudi 1986, pp. 200; Lit. 24.000), raccoglie quarantanove editoriali scritti dal direttore del periodico Casabella tra il 1982 ed il 1986. Non è facile orientarsi, soprattutto nel nostro secolo, in una materia così intricata quale è l’architettura: vi sono coloro che guardano esclusivamente al passato e ne rimpiangono la (apparente) omogeneità e altri che, con arditi teleologismi, inventano teorie per tutti i futuri possibili. Ben giustamente, quindi, Gregotti mette in evidenza, nella sua prefazione-postfazione, la contradditorietà delle nostre idee sulla architettura e sulla cosa architettonica. Una enorme confusione regna già, a livello teorico, anche nell’operatività più spicciola. L’ottocentesco concetto di progresso è oggi in crisi anche in architettura.
Le tecniche sono realmente migliorate o la loro proliferazione non finisce spesso per appesantire il progetto e la sua realizzazione? La stessa quantità di costruzioni è spesso scambiata per qualità, mentre invece si inserisce in modo inattuale in realtà socio-economiche molto differenziate, avvezze ad altre coesioni ed abitudini interpersonali. Il concetto di valore stesso è andato in frantumi e l’architettura non riesce poi a trovare un significato collettivo. Secondo l’autore bisogna accettare questa contradditorietà: «Tornare a soffrire la realtà, a scontrarsi con la ricchezza dei temi da essa offerti, non tanto cercando di costruire una risposta ai problemi da essa posti per mezzo dell’architettura, quanto per utilizzare le sue offerte come materiali per l’architettura.» (pp. XXII, XXIII).
La cosa architettonica deve sapersi situare nel presente, anche quando il progetto-realizzazione si stende a lungo nel tempo: dovranno essere tanti frammenti che si concatenano. Solo così la cosa architettonica sarà in contatto con il vero. Indubbiamente la politica e l’economia la condizioneranno, ma l’architettura deve sapersi insinuare tra gli scarti lasciati liberi dal reale.
Tutte queste osservazioni ci sembrano, alla lettura, assai assennate: abbiamo persino il sospetto che siano un po’ troppo ovvie. Dovremmo quindi soltanto abbandonarci alla manipolazione del suolo e dello spazio che l’architettura ci impone qui ed ora? Se il passato è in frantumi e il futuro è invisibile, richiamarsi a questo tipo di presente non rischia semplicemente di giustificare il qualunquismo politico, estetico e morale?
Le nostre sono domande e non affermazioni e ciò significa che la somma degli scritti qui raccolti ha avuto in noi risonanze che non ci hanno lasciati indifferenti. Tanto aprire di problematiche ci pare però poi condensarsi in un atteggiamento che sembra chiaramente espresso dalla frase con cui si apre il saggio Il faut tuer la rue corridor. Dice testualmente il nostro architetto: «Quale è il mio ideale di città? Posso rispondere subito in negativo dicendo che certamente il mio ideale di città non è nessun tipo di città ideale (…) viene la tentazione di rispondere che (come per le città) i piatti buoni e le belle donne ti piacciono tutti.» (p. 128). Frase indubbiamente intelligente, ma con la quale Gregotti si propone come l’ennesimo Pilato dell’arte sua, ansioso solo di lavarsi le mani da ogni colpa. Comunque in tutto il libro le osservazioni interessanti su i vari argomenti trattati sono molte, anche se mancano le idee chiare, o meglio: è chiaro che non c’è nulla di chiaro.
Forse gli architetti sono solo fantasmi in rapporto privilegiato con quelli che sono i possibili «modi di costituzione del fantasma dell’architettura»?

Vittoria Corti, Ritratto di un giovane illuminista (RADAR/SEI, Bari 1985, pp 107).
Pervenuto senza prezzatura e quasi casualmente tra le nostre mani, ci ha attratto questo volumetto tutto giocato intorno alla impercettibile presenza di un epistolario, attraverso cui viene raccontata la storia di un giovane sufficientemente anonimo, vissuto nella prima metà del Settecento.
Figura gradevole, rispecchia nelle sue piccole quotidianità la grande società dei lumi: fantasie, sogni, personaggi importanti come Voltaire, totalmente sconosciuti come l’anonima sorella, si avvicendano e sono descritti con gusto garbato. Non si trovano certo in queste pagine neppure accenni delle possenti lotte filosofiche e politiche dell’Italia e dell’Europa del tempo, né la scrittura ha la sferzante potenza degli illuministi, ma è quieta, sottile, attenta agli odori ed alle atmosfere, come circoscritta per intero in un clima crepuscolare.
Un piccolo libro con cui passare gradevolmente un piccolo tempo.