28 – Gennaio ‘87

gennaio , 1987

Mettere in scena il Faust di J.W. Goethe volendo in uno stesso spettacolo unire il primo e il secondo Faust è impresa assolutamente sconsiderata. Ovviamente bisogna operare tagli su tagli per rispetto della pura e semplice sopravvivenza fisica del pubblico e degli interpreti, ma proprio per questo l’impresa è ancor più difficile. Il primo e il secondo Faust sono affreschi immensi dove si esprime non soltanto la grandezza di un uomo, ma anche le fantasie, gli orrori ei sogni di due epoche. Nel primo Faust un romanticismo intenso, intriso di Sturm und Drang ma reso drammatico e realistico dall’ancora vicina cultura barocco-illuminista; nel secondo c’è invece il dispiegarsi della fantasia del vecchio Goethe, che ricerca la classicità e la frantuma in un romanticismo intriso di suggestioni che prendono i miti e i personaggi dell’antichità inserendoli nelle aspirazioni, politiche, sociali e religiose del tempo. Ci siamo seduti in poltrona al Teatro Valle l’altra sera per vedere che cosa avrebbe saputo fare Glauco Mauri di uno dei capolavori dell’arte mondiale. Siamo rimasti letteralmente ammirati della geniale ed erculea fatica che egli ha saputo affrontare. Nonostante i tagli, rimaneggiamenti, ammodernamenti (discretissimi), almeno una buona parte della grandezza dell’opera di Goethe non è andata perduta. Intenso, drammatico e accorato il primo tempo: Faust, filosofo, giurista, medico e teologo, sentendo arido tutto il suo sapere e considerando inutile la sua vita, stringe un patto col diavolo per ottenere giovinezza e amore capaci di ridargli il piacere di vivere, tutto ciò a prezzo di delitti e del sacrificio di Margherita, giovane vittima innamorata. L’atmosfera del secondo tempo è invece assolutamente fantasmagorica: Faust chiede sempre di più, sempre più insoddisfatto: imperatori, buffoni, dèi e semidei di tutte le mitologie gli danzano intorno facendo cornice alla sua vicenda d’amore con la bella Elena di Troia. Ancora insoddisfatto Faust sceglie il potere ed è quasi padrone del mondo quando pronuncia la frase che tronca la sua vita. Mefistofele e i suoi diavoli vorrebbero la sua anima, ma sono gli angeli a vincere. Abbiamo malamente sintetizzato ciò che già era stato bene sintetizzato sulla scena. La prima e la seconda parte, ben differenziate dal punto di vista interpretativo, non erano tra loro né slegate né incoerenti. La cifra shakespeariana della prima parte presentava personaggi possenti; inseriti in chiaroscuro di sentimenti ampiamente tratteggiati; nella seconda parte la scelta è stata di presentare tutti i personaggi come stralunate marionette metafisiche, simbolicamente efficaci ad eccezione dei due protagonisti: Faust e Mefistofele sempre immersi nel loro incontro scontro tra due individui pienamente umani (e umano, umanissimo era anche il diavolo).

Glauco Mauri è stato davvero impareggiabile, sia quando vestiva i panni del vecchio Faust, sia quando impersonava Mefistofele. Anzitutto i due caratteri erano ben differenziati. Per differenziarli avrebbe anche potuto fare la scelta più facile: cioè optare per due moduli interpretativi fissi, che, per quanto diversi tra loro restassero però immobili al loro interno; invece no: in un’estrema coerenza psicologica sia Mefistofele, sia Faust avevano continui cambiamenti di modi, di gesti e mimica. Ci ha assolutamente strabiliati l’uso della voce fatto dall’attore: strumento reso capace di tonalità sempre nuove, talvolta ardite, da grande virtuoso. Collaboratore efficacissimo e interprete non secondario Roberto Sturno alternantesi anch’egli nei panni del filosofo e del diavolo. Qui il talento registico ha permesso che si creasse un perfetto gioco contrappuntistico tra i due attori e i due personaggi. Il più giovane Sturno non è mai stato da meno dello smaliziato Mauri. Siamo rimasti rapiti dalla bravura di Angela Di Nardo: nella prima parte è stata una giovane ed appassionata Margherita, che ha saputo percorrere tutte le strade di un amore pudico, tenero, appassionato e disperato. La scena nel carcere è stata un vero capolavoro; sebbene qua e là potesse far venire in mente Ofelia, la sua intensità drammatica è riuscita a coinvolgere e a toccare mandando in frantumi ogni schema pre-costituito. Brava è stata anche nel ruolo di Elena, sebbene la parte stessa sia meno incisiva. Gianna Giachetti nei molti ruoli femminili è stata duttile, varia, aggressiva e sapientemente umoristica. Felice Leveratto, Rinaldo Porta, Claudio Marchione, Francesco Marino, Luca Dei Bei e Massimo Albanese hanno saputo dare ciascuno voce e corpo a più personaggi con una grande dimostrazione di versatilità e di preparazione professionale di ottimo livello. I costumi di Odette Nicoletti hanno risolto con intelligenza i problemi di stili ed epoche riuscendo ad essere sempre divertenti e fiabeschi. Le scene di Mauro Carosi erano ridotte a pochi elementi su cui dominava la macchina di piani inclinati semoventi, sempre in grande evidenza. Glauco Mauri è stato un regista intelligente ed ha collaborato anche alla riduzione insieme con il traduttore dei testi di Goethe Dario Del Corno. Le musiche di Arturo Annecchino non ci hanno convinto: un imperversante glockenspiel registrato e anche presente in scena, coi suoi scampanellii un po’ troppo dolciastri ed anche i cori un po’ fantasmeschi non sottolineavano con efficacia situazioni ed atmosfere, ed anche gli altri interventi sonori sono stati al di sotto del respiro dello spettacolo nel suo insieme.

È molto giusto che un attore prenda un copione e se lo ricucia addosso. Noi sosteniamo che un testo teatrale appartiene non tanto alla storia del teatro vero e proprio quanto alla storia della letteratura: il teatro vive infatti delle realizzazioni del testo, ognuna delle quali è sempre nuova e diversa. Troppo spesso è successo, però, che attori e registi si siano identificati con le sartine di una volta, convincendosi di dover lavorare soprattutto per le varie famiglie De Tappetti; così che è invalso il costume di prendere un testo scritto da un autore di teatro, più o meno indifferenti al fatto che si trattasse di Shakespeare o di Nicodemi, di rivoltarlo di qui, accorciarlo di là, aggiungere un finalino, come fosse un collo di falpalà, tanto che alla fine il vestito non solo è completamente diverso da ciò che era in origine, ma acquista un che di grottesco, come un abito da sera indossato da uno spaventapasseri; e ciò accade soprattutto quando il lavoro di riadattamento è fatto senza la compartecipazione dell’autore. L’attore mira troppo spesso alla battuta facile, all’applauso e cerca perciò di ripresentare ossessivamente le situazioni note, i vecchi effetti, le gags più risapute della propria storia teatrale: la famiglia De Tappetti ride, tutta in ghingheri nei suoi abitini rifatti dalla sartina del piano di sotto, e si pavoneggia nel foyer. E’ giusto che l’attore reciti anche per questa gente, ma non deve limitarsi al ruolo di ovvio intrattenitore, di manichino per abiti rivoltati. Certo non deve tradire le proprie conquiste, ma deve cercare anche qualcosa di sempre nuovo: ha il dovere morale, artistico e culturale di non darsi mai tregua e di non indulgere al desiderio di parere sempre uguale, malgrado il tempo che passa. L’età non conta.
Franca Valeri è una attrice di talento, ma ha sempre avuto il difetto di tuffarsi, seppur con grande abilità, nella coazione a ripetere. Quasi sempre lo ha fatto con maestria e i suoi personaggi, ripetuti in continuazione, hanno talvolta ritrovato accenti nuovi. Questa volta crediamo che l’attrice abbia cercato l’occasione di cimentarsi e di mettersi alla prova scegliendo di rappresentare al Piccolo Eliseo un testo non scritto appositamente per lei: Ho due parole da dirvi di Jean Pierre Delage. L’autore è un attore francese poco noto al di qua delle Alpi, che da qualche anno ha tentato sortite anche nella regia teatrale e televisiva; questa è la sua prima opera teatrale e Franca Valeri se l’è ricucita addosso, aggiungendovi vere e proprie applicazioni del suo personale repertorio. I due atti hanno a mala pena il respiro di un atto unico e risultano un po’ ripetitivi. L’unico interlocutore in scena è il telefono, fin troppo famigliare all’attrice, che ne approfitta largamente. Il testo avrebbe anche la bella idea di far dialogare la protagonista con il pubblico, ma si è preferito rivolgersi ad un pubblico inesistente anziché a quello realmente presente in sala. Perché, ci domandiamo, adattamento per adattamento, l’attrice non ha usato la grande torcia elettrica che impugnava per cercare davvero i volti delle persone presenti in sala, osando parlare con il suo pubblico presente, disponibile ed intenerito?
Qualcosa di nuovo comunque si è potuto notare, sebbene quasi di nascosto: ed erano momenti di umorismo astratto, ancora più evidenziati dall’accostamento coi brani già noti, così corposi e realistici; ed altri momenti di ondeggiante disorientamento, come se l’autore non sapesse ancora padroneggiare bene la scrittura teatrale.
Non c’è una vera e propria trama, ma piuttosto viene rappresentata la situazione di una non più giovane star dello spettacolo che, al rientro da un soggiorno in clinica per malattie nervose, parla di sé, mentre il mondo esterno irrompe a tratti attraverso lo squillo del telefono, e che finisce col parlare direttamente al Padreterno, in un apoteosi di metafisico delirio. Nonostante le riserve, non si può non rimanere ammirati dalla bravura di Franca Valeri, in alcuni momenti proprio irresistibile, come nella scena della voltapagine e nel finto collegamento con la trasmissione radiofonica in diretta. Molto piacevoli gli inserimenti musicali di Fiorenzo Carpi, con due belle canzoni che alleggerivano la ininterrotta chiacchiera (sebbene la Valeri le abbia più dette che cantate).
La scena di Francesco Zito citava un po’ ironicamente uno jugend stil ad uso delle signore bene della Avenue Foch, e l’abito di Roberto Capucci era un giusto compromesso tra un vestito e un costume di scena.