Archivio di maggio 1986

Psicoanalisi contro n. 22 – Le parole malate

giovedì, 22 maggio 1986

La psicoanalisi ha sempre dato molta importanza alla parola. Alcuni dicono addirittura che questo è un tipo di cura che usa come farmaco esclusivamente la parola. La coscienza si articola e si struttura nelle parole. Vi è anche chi ha detto che l’inconscio stesso affonda le radici del proprio essere nel linguaggio parlato.
Io non credo né che la coscienza sia fatta di parole o di frasi chiare e distinte, né, tantomeno, che l’inconscio sia fatto di parole. La parola è importante, ma, oltre la parola, c’è il mondo, il quale si manifesta attraverso le parole e si nasconde, anche, talvolta, dietro di esse. Le parole sono veicolo e sono schermo al mondo, nello stesso tempo fanno parte del mondo: quindi le parole sono veicolo e schermo di loro medesime.

Lo strumento principale della terapia psicoanalitica non è – secondo me – il linguaggio parlato; ma è qualcosa di più antico e profondo, di cui non è il caso di parlare qui.
Ora voglio dire della parola. Terapeuta e paziente si incontrano sul terreno delle loro parole. La presa di coscienza passa attraverso frasi. Ciò che era oscuro diventa chiaro anche per mezzo di frasi articolate, che riescono a raggiungere ciò che sta nascosto dietro ai gesti, alle «razionalizzazioni», alle fantasie. Ognuno di noi è strutturato come una città, con un complesso di architetture e una struttura urbanistica, più o meno identificabili. Già gli antichi avevano visto il corpo umano come una città. A me piace riprendere questa vecchia immagine e penso proprio a quelle città italiane, che sono frutto di una storia, non di una pianificazione attuata in un preciso momento. Mura, campanili, strade, scalinate, logge, vicoli, archetti che si abbarbicano gli uni sugli altri, in stili diversissimi e spesso perfettamente armonici. Le costruzioni degli ultimi decenni, invece, non sono, per lo più, in grado di inserirsi organicamente e serenamente in quella congerie bizzarra di stili e di epoche: chissà perché! Spesso l’architettura contemporanea, fatta di condomini, case, casette, casupole, ville e villette con giardini e pratini «all’inglese», con acacie yulibrissim e cedri del Libano, rose senza profumo e statuette dei sette nani, che assediano la città antica, deturpandola, sono l’equivalente della nevrosi e della psicosi, riferite a quegli antichi organismi. Si tratta solo di speculazione edilizia e di crescente cattivo gusto? In ogni caso, questi bubboni di cemento armato, privi della sacralità della vita, sono segni patologici. Le nostre città non guariranno più. Il singolo uomo può, invece, guarire, perché, attraverso la parola e il gesto, la psicoanalisi può distruggere ciò che non è sacro, ciò che è soltanto segno di stupida viltà, di paura, depressione, violenza. Mentre l’abuso edilizio non tiene conto dell’armonia dell’ambiente e spesso non la rispetta deliberatamente, deturpando le nostre città e distruggendo la qualità della nostra vita, perché l’interesse di tutti è in contrasto clamoroso con gli interessi individuali, nel caso della psicoanalisi è possibile che il lavoro sui singoli dia il coraggio di lottare perché scompaia non solo il sintomo della nevrosi individuale, ma anche l’effetto distruttivo sull’individuo e sulla collettività. La psicoanalisi è indispensabile strumento di lavoro per chi si ponga l’obiettivo di una vita migliore per tutti, ma non è sufficiente se non è congiunta all’azione. Cosa voglio dire con questo? Sto parlando di un sogno.

2

Servendomi ancora della parola, pure, io voglio contestare che il primato le spetti di sicuro: non ritengo infatti che il pensiero coincida con le parole che servono ad esprimerlo. Penso inoltre che il linguaggio verbale sia da curare, come ogni forma di linguaggio anche non verbale. Tutto ciò che vive è linguaggio; tutto ciò che è percepito da un essere vivente divie-ne linguaggio. Ciascuno si mette in comunicazione con ciò che sta intorno sempre attraverso un linguaggio. Non esistono gesti del tutto inconsulti. La vecchia teoria per cui il bambino farebbe dapprima solo gesti scoordinati e che dopo lentamente imparerebbe ad indirizzarli ad un fine, è sempre più contraddetta dallo sviluppo della scienza. Sherrington fin dal 1906 sostiene che «il puro riflesso è un’astrazione», non solo negli uomini, ma anche negli animali. In altre parole ad esempio, in base a queste teorie, anche il movimento della coppia flessori-estensori della zampa di una rana è riconducibile, ad un’osservazione attenta, ad un comportamento finalizzato.

Se tutti i movimenti degli esseri viventi hanno un fine, significa che si articolano in un linguaggio, perché, se siamo stati in grado di identificare una finalità, vuol dire che abbiamo letto il loro movimento come un tendere verso qualcosa, che non solo è descrivibile soltanto usando un linguaggio, ma è esso stesso un linguaggio. Il linguaggio parlato non serve solo a comunicare con gli altri, ma serve anche alla autocomprensione di un gesto finalizzato, il quale, nel momento, stesso in cui si attua, si articola in una organizzazione dinamica, che può essere tradotta in altri linguaggi e descritta dalle parole. Tutto è traducibile, perché nessuna struttura dinamica dell’organizzazione vivente è autonoma. Forse, se andassimo ad ap-profondire, qui rispunterebbe Parmenide, ritornerebbero l’uno e la sua assoluta immobilità. Un punto senza parti, racchiuso in una sfera. Punto e sfera: sfera perché esiste, punto perché non ha parti. Immobile anche nel tempo. Tutto è già accaduto ed è, nel suo accadere, immobile. La realtà ha varie facce, se pure non infinite, che forse sono le espressioni di un unico linguaggio, che si esprime attraverso tante lingue, tutte traducibili perché espressioni di questa realtà. Guarendo il linguaggio parlato, acquisendo una organizzazione linguistica più articolata e ricca, imparando a giocare coi propri lapsus con allegria, invece di sentirsene oppressi; riuscendo ad essere chiari anche tenendo conto delle dimenticanze, ed avendo il coraggio di essere espliciti, ci si muoverà verso la propria salute. Questa è la via per la quale la salute della parola può divenire modello per la salute di altri linguaggi. Sarebbe possibile, per l’uomo, percorrere un’altra strada? Abbiamo sulle spalle millenni di cultura di parole. Dapprima soltanto parlate e poi anche scritte. Perché ribellarsi alla parola? È meglio guarirla.

3

Una delle situazioni patologiche più gravi è quella in cui il malato si rifiuta di guarire. Questo è un evento che potrebbe sembrare eccezionale, mentre invece è quanto mai frequente. Talvolta penso che nessun ammalato abbia voglia di guarire; anche se so che questa è una affermazione che estremizza. Resta il fatto che persone con gravi disturbi fisici e psichici si ostinano, più spesso di quanto non si creda, a non voler guarire. Mettono in atto trucchi in-genui e abbastanza scoperti per ribellarsi alla possibile guarigione: cambiano terapeuta, gestiscono loro i farmaci in modo da renderli meno efficaci, dimenticano le prescrizioni; ma, soprattutto, si tradiscono con uno sguardo deluso e accorato, che si ritrova nei loro occhi ogni volta che avviene un miglioramento del quadro clinico. In questo caso, scuotono la testa di-cendo: «Mi piacerebbe che fosse vero, ma..». Quando poi non hanno atteggiamenti così espliciti, ci vuole poco sforzo a intuire, sotto i desideri dichiarati una ben più decisa volontà di non guarire. Già da tempo si è parlato di «vantaggio secondario» della malattia, per la possi-bilità che ha il malato, attraverso di essa, di controllare, dominare e tiranneggiare. Persone che si sentivano emarginate hanno visto amici e parenti occuparsi nuovamente di loro, proprio a motivo di una malattia, nella quale si sono poi assestati, in una sorta di equilibrio, nel quale hanno trovato posto anche i momenti di sofferenza. Il vantaggio è molto grande anche se il potere acquistato lo si paga duramente, e non vi si vuole più rinunciare, neanche in cambio della guarigione: non si vuole più correre il rischio di tornare nell’ombra.
La malattia permette di non prendere decisioni, di non assumersi responsabilità, di gestire solo ciò che torna comodo, permettendo di delegare il resto agli altri in un atteggiamento di pigrizia e di sottile sadomasochismo.

Il malato conosce il potere di ricatto e di violenza che gli dà la sua sofferenza. Se tutto questo meccanismo è molto evidente nelle malattie organiche, pure è anche rilevabile nei casi di disagio psichico; benché le persone che circondano questo genere di malati siano meno disponibili alla tolleranza dei rituali, delle fobie, a subire aggressioni, ad assistere alle scene di delirio. Pure, lentamente, anche qui si ingenera nel gruppo una certa abitudine ad accettare almeno parte dei ricatti imposti e la vita di tutti finisce così per ruotare intorno alle angosce e alle fobie di uno solo. Il caso più clamoroso è quello che si viene a determinare sotto la minaccia di un suicidio: i componenti del gruppo, terrorizzati all’idea di doversi portare per sempre sulle spalle il senso di colpa per quella morte annunciata, quasi rimangono paralizzati. E, poiché, sotto sotto, questo folle terrore nasconde anche un pochino di desiderio, il senso di colpa si ingigantisce, esponendo, senza più condizioni, alla brutalità di quella minaccia.

4

Incontrando persone dalla vita squallida, dall’intelligenza molto limitata, incapaci di farsi apprezzare e di avere amici, gente inerte nella propria noia, nell’insensibilità radicata in troppo forti difese narcisistiche, non stupisce come certi sintomi, che sono apparentemente così bizzarri e dolorosi, acquistino però la funzione di liberare dal senso di mediocrità quotidiana. Queste persone acquisiscono così la sicurezza di una loro sensibilità grazie alla sofferenza. Ne parlano con tanto compiacimento che a volte se ne accorgono e allora, smarrite, tacciono, preferiscono rifugiarsi nuovamente, per un po’ nel loro anonimato, per timore che venga scoperto il loro gioco, che gli altri si accorgano dell’interna esaltazione che li anima. Cosa fare allora? Si deve avere il coraggio di tentare la ristrutturazione di tutta una vita. I terapeuti non possono essere vili, e anche chi inizia una psicoterapia deve avere – o aver avuto – almeno un po’ di coraggio.
Una delle frasi tipiche che dicono quelli che non vogliono guarire è: «Lo sapevo già». Quando, dopo un lungo e attento lavoro di analisi, finalmente, insieme al paziente vengono chiarite alcune cose e l’analista riesce a smontare le razionalizzazioni, a capire il significato di alcuni sintomi, questo tipo di paziente non ascolta più e sbotta col suo: «Lo sapevo già!». Lo dirà con rabbia, o con aggressività, con stanchezza o con finta delusione: «Che effetto può farmi, sapere una cosa che sapevo già?». Molto spesso non è vero che lo sapeva già e proprio il colorito emotivo eccessivo con cui pronuncia la sua frase permette di capire, che forse si è trovato qualcosa di importante. Questa frase dispettosa permette al paziente di mettere una barriera tra le parole del terapeuta e la loro possibile efficacia; serve a distrarsi anziché impegnarsi su un cammino che, con fatica, potrebbe portare al superamento della situazione malata. Può allora diventare inutile cercare di sospingerlo in quella direzione: si ostinerà nel voler parlare d’altro; in questo caso è meglio lasciargli la briglia sciolta e vedere dove andrà, dove sceglierà di dirigersi, ora che la strada, comunque, è stata indicata. Ora conviene permettere una deviazione, una breve vacanza, ben attenti però a non perdere mai di vista l’obiettivo.

5

Un altro modo per rendere inefficace la terapia psicoanalitica è quello di assorbire ciò che viene detto dal terapeuta e «riciclarlo» attraverso un linguaggio tecnico, per lo più usando un frasario di formulette desunte dalla teoria freudiana. Questi pazienti non sono così rari come si potrebbe pensare e, sebbene non siano la maggioranza, capitano piuttosto spesso. In genere, sono già reduci da qualche psicoterapia dalla quale sono usciti abbastanza indenni. Non è il caso di indagare se ciò sia avvenuto per la loro ostinata astuzia o per l’incapacità del terapeuta. Costoro hanno acquisito da quelle esperienze un cumulo di termini tecnici che usano indi-scriminatamente.
C’e anche chi, pur non avendo mai iniziato un lavoro di analisi, ha però letto molti libri di teoria psicoanalitica, acquisendo un linguaggio infarcito di termini tecnici.
In ogni caso, i racconti, all’inizio, sono grotteschi; costoro parlano della loro vita dei loro sintomi come se leggessero manuali di psicoanalisi: non accenneranno mai ai genitori senza parlare di rapporto o triangolo «edipico», la loro infanzia è una serie di «fasi», non avranno mai dubbi o incertezze, specie in campo affettivo, ma solo «ambivalenze»; anziché imparare hanno «introiettato», tutto è «dinamica», «complesso di castrazione», «lavoro onirico», «spostamento», «resistenza», «rimozione». Alcuni poi arricchiscono il loro vocabolario, pescando qua e là, da altre teorie, si parlerà di «seno buono» e «seno cattivo», e poi fiori e perle come: «insight», «acting out» etc. Sanno già tutto, ma non nel modo ingenuo e rozzo di quelli che «sapevano già». Questi non solo sanno tutto, ma hanno già tutto interpretato prima e lo hanno ben confezionato in un raccontino coi fiocchi, di cui beneficeranno più volte il terapeuta, nel corso del lavoro. Questi mi divertono più degli altri, perché il loro delirio difensivo è più facilmente aggredibile.

6

Tutte queste forme di ostinazione nel conservare il vantaggio derivante dalla malattia sono però forme molto gravi e queste persone passano la loro vita trascorrendola tra cure di tipo psicodinamico, ma di indirizzo diverso, passando poi ad altre terapie, e finendo quasi sempre col perdersi in pratiche mistiche o parapsicologiche e solo la demenza senile li fermerà prima che abbiano esaurito i loro pellegrinaggi in cerca della taumaturgia capace di consolarli senza obbligarli a guarire.

Il disagio è presente con tutta la sua evidenza, la sofferenza spesso traspare da quei cumuli di parole stereotipe. Se l’analista, ad un certo punto, ingenuamente, prova a parlare, a dare la sua interpretazione, vede il paziente assumere espressioni di stupore, di beatitudine o di indifferenza assoluta. Il suo paziente ripeterà appresso a lui: «Già, è proprio così». Cercando, nella ripetizione di ciò che avrà appena sentito, di attutire l’urto. Se l’analista insisterà, si ripeteranno situazioni sempre uguali. Le parole cadranno inefficaci, immediatamente ingoiate da quel freddo meccanismo di frasi fatte e termini convenzionali.

Una volta, una persona che parlava appunto in questo modo, al primo colloquio mi disse: «Io mi ero ormai disamorato della psicoanalisi, la ritenevo una scienza del tutto inefficace, perché, dopo aver fatto tre analisi, e dopo aver letto moltissimi libri, credevo di aver capito tutto. Ed in effetti ho capito tutto: di me non ho più ricordi da ritrovare, tutti i miei sintomi sono stati interpretati in modo corretto, so dare un senso psicoanalitico a tutto ciò che mi accade e a ciò che accade intorno a me; ma nulla in me finora è mai cambiato. I sintomi sono rimasti, la sofferenza è la stessa. Un giorno capitai, per caso, a una sua conferenza, sentii che diceva che la presa di coscienza non basta, che le interpretazioni non vanno calate dall’alto, sul paziente, così come vengono in mente all’analista, ma debbono essere poste al momento opportuno. Sapevo anche questo, perché lo avevo letto, ma non mi ci ero mai soffermato a sufficienza». Poi proseguì, con le sue parole forbite, a parlarmi di «transfert» e «controtrasfert». Io lo interruppi e lo corressi: «Dell’innamoramento in analisi. Il «transfert» e il «controtransfert» sono un’altra cosa». Rimase disorientato per un istante, poi soggiunse: «Già, innamoramento..». Continuò ancora, parlando delle ragioni per cui quella sera era venuto a sentirmi, finché ripeté: «..allora lei, parlando del «transfert» e «controtransfert»…» Capii che sarebbe stato un lavoro molto difficile.

7

È abbastanza facile capire quanto sia pericoloso, per il terapeuta, cadere nella rete del paziente, che non aspetta altro che interpretazioni, o comunque, parole, per poterle ingoiare e renderle inefficaci, inserendole nel suo universo linguistico malato. Sono molte le patologie dei vari linguaggi. Il linguaggio parlato, prigioniero delle formule e dei termini tecnici propri di una scienza o di un’arte, è uno degli esempi più clamorosi di questo tipo di patologie. Forse appena meno grave del linguaggio disorientato e affollato di neologismi del delirio, o dell’assoluto mutismo della depressione profonda. Un linguaggio troppo tecnico uccide la scienza e l’arte, anche quando lo si usi correttamente; inoltre c’è l’aggravante che per lo più è usato in modo scorretto o perlomeno approssimativo o improprio. Solo quando l’uso dei termini e delle frasi «tecniche» si allenta, la scienza e l’arte cui si riferiscono recuperano la loro efficacia e le persone coinvolte la loro dimensione reale.
C’è anche un pericolo di segno opposto: che cioè, superato un certo limite, il linguaggio diventi troppo impreciso e prolisso; talvolta un termine tecnico o una frase non equivocabile bastano ad evitare lunghi giri di parole. Anche per la parola, la salute sta nell’armonia.

Come ho già detto, non bisogna cascare nella trappola che questi pazienti tendono al loro psicoanalista, per cui diventano in grado di vanificare ogni tentativo di chiarimento, annullando ogni possibile effetto delle parole.
Se si dice esplicitamente al paziente che si è capito il suo gioco, che il suo linguaggio è funzionale a qualcosa che va in un’altra direzione da quella dell’analisi, si casca nella trappola delle interpretazioni, che non distrarrà il paziente, magari indignato o sorpreso, dal continuare nel suo atteggiamento vanificatorio. Egli sarà anche disposto ad aiutare l’analista ad interpretare il suo bisogno di interpretare, usando tutte le parole stereotipe della tecnica psicoanalitica. Se lo psicoanalista insisterà nel tentare spiegazioni di questo gioco interpreta-tivo, gli esiti possibili, quasi sempre, saranno tre; tutti e tre esiti non sani. La prima risposta sarà il silenzio, o almeno una estrema difficoltà a continuare a parlare; la seconda eventualità sarà una disorganizzazione del linguaggio che diverrà ancor più malato, mancando al paziente infuriato la capacità di costruirsene uno diverso; nel terzo caso il paziente interromperà l’analisi.
C’e anche una quarta possibilità, quella che, dopo il silenzio, dopo una breve interruzione dell’analisi, seguita da un ritorno con un linguaggio particolarmente disgregato, il paziente, lentamente, prenderà a parlare in modo più organizzato e vitale, permettendo così la prosecuzione del dialogo e la ripresa del cammino verso la salute. Ma quest’ultima è una possibilità remota.

8

Un altro espediente molto efficace, ma da usarsi solo quando il legame affettivo-terapeuta-paziente sia sufficientemente intenso (ben s’intenda: non il transfert, ma l’affetto vero) è di imporre, secondo quella che si potrebbe definire una tecnica comportamentista, un modo diverso di parlare. Si chiederà al paziente di non usare mai termini tecnici, di fare piuttosto giri di frase, di rimanere magari in silenzio, ma, come in un rituale ossessivo, di non usare assolutamente mai quelle parole e quelle frasi-formula, astenendosi inoltre dal dare qualunque interpretazione personale. Parlare, all’inizio, sarà ancor più pesante che sopportare la prigionia degli schemi precedenti; ma questa nuova fatica non è più prigionia, non è più rattrappimento; è lotta. Certo, sia la fatica, sia la lotta comportano sofferenza e necessitano di controllo su di sé; ma come è possibile guarire senza lottare? Io credo nel valore della lotta e della fatica, purché non si cada nel puro gioco sadomasochistico. Forse è poco appropriato usare il termine «valore», sarebbe stato forse più giusto dire: «utilità». La lotta e lo sforzo sono utili. Certo, se il divino Eros fosse il solo signore dell’universo, potrebbero non essere necessari, ma gli esseri umani, nella loro lunga e brevissima vita, hanno incontrato tali e tanti ostacoli che non possono non essersi deformati un po’. La malattia non può non essere entrata dentro di loro. Per scacciarla, non bastano quindi eufemismi ed esorcismi: bisogna lottare.

9

Vorrei ancora menzionare due dei modi possibili di spezzare la patologia di questo tipo di linguaggio. Sono entrambi estremamente difficili, perché l’abilità istrionica del terapeuta deve essere tanta, tantissima, almeno pari all’amore per il paziente. Guai se il terapeuta si lascia andare alla sua stantìa tecnica! Bisogna essere imprevedibili, anche se è molto difficile con una persona che si è trincerata nel suo linguaggio malato proprio per non essere mai colta di sorpresa. Bisogna approfittare dei momenti di distrazione e mettersi d’improvviso a parlare di tutt’altro dall’argomento che si stava trattando, senza usare neppure l’ombra di un termine tecnico. Il paziente, per un pò, rimarrà disorientato, poi cercherà di buttare addosso al suo analista la consueta rete del suo linguaggio e, rinfrancato, cercherà di riprendere il cammino abituale, col carico delle sue catene linguistiche. Solo nel momento in cui tornerà ad essere distratto, lo psicoanalista dovrà di nuovo sorprenderlo con frasi inaspettate, con un linguaggio ricco e fiorito, esibendo la fisicità del proprio corpo, ostentando la propria vicinanza fisica, evitando però ogni riferimento alle parole del paziente. Dovrà parlare in continuazione, esibirsi e insistere, tanto da obbligarlo a cercare di distrarsi, dal momento che non gli è riuscito di di-strarre l’analista.
Questo spettacolino dovrà necessariamente essere ripetuto più volte.
Una persona con cui avevo usato questa tecnica e con la quale ottenni risultati veramente soddisfacenti, parlando con me molto tempo dopo, quando ormai l’analisi stava avviandosi a conclusione, mi disse che, allora, quando mi aveva visto e sentito mettere in atto quelle mie esibizioni, aveva pensato che fossi diventato matto. Non aveva mai avuto il coraggio di dir-melo, aveva sperato che io gli dicessi che lui mi credeva matto: per fortuna, io non ero cascato nel tranello.

10

L’altro espediente che vorrei suggerire ai terapeuti è quello di incontrare il paziente fuori della seduta, magari invitandolo a prendere qualcosa al bar, o andando insieme a teatro. Se non è già del tutto morto internamente, il paziente cui sarà rivolto questo tipo di invito, avrà la curiosità di vedere il proprio terapeuta nelle situazioni non canoniche; vorrà carpire i suoi segreti, conoscere i misteri della sua vita, i suoi gusti. Fantasticherà di poter vedere il corpo dell’analista senza vestiti, tutti desideri che sarà anche in grado di confessare a se stesso e di autointerpretarsi. Qualche volta sarà stato il paziente stesso ad esprimere il desiderio di incontrare l’analista fuori dello studio. La prima sorpresa, in questo caso, sarà l’accettazione dell’invito. Bisognerà essere ben sicuri, prima di farlo, che il paziente sia abbastanza preparato, per evitare che venga preso dal panico. Se l’invito del terapeuta è accettato al momento giusto, con la stessa accurata preparazione di un’ardita modulazione musicale, il paziente non dirà di no. Si sentirà in gabbia, cercherà di sottrarsi, si farà venire una malattia, ma finirà con l’accettare quell’invito che metterà entrambi uno di fronte all’altro, fuori dalla doppia protezione del setting terapeutico e del suo peculiare linguaggio. Il paziente cercherà subito la supremazia della sua verbalità, parlando del mondo e delle cose intorno con lo stesso piglio e gli stessi trucchi della seduta. Toccherà al terapeuta parlargli con tenerezza e con affetto, anche di argomenti insignificanti. Sarà necessario parlare di questo incontro anche dopo il ritorno nella stanza dell’analisi, ormai intrisa di altre atmosfere. Si potrà allora canzonare quel vecchio linguaggio, stando attenti a non fare errori di armonia, evitando troppo ardue con-trapposizioni, le note stonate, errori nel contrappunto.

22 – Maggio ‘86

giovedì, 22 maggio 1986

Il concerto numero 24 della stagione sinfonica dell’Accademia di S. Cecilia si è aperto con una vera e propria leccornia, uno spettacolino quanto mai gradevole. Karl Heinz Stockhausen ha un bellissimo figlio: il ventinovenne Markus, il quale, oltre che saper suonare ottimamente la tromba, sa stare bene sulla scena; il che non è male per un musicista: noi, infatti, pensiamo che si suoni con tutto il corpo e non solo con le parti strettamente impegnate dallo strumento. Il padre di Markus ha costruito per il figlio, traendolo dal suo «Samstag aus Licht» un breve divertimento per tromba, trombone, quattro corni e percussioni. Una volta tanto, non si è lanciato in tronfie sgradevolezze, limitandosi a comporre undici minuti di musica piacevole, spigliata e assolutamente salottiera.

Markus Stockhausen, in maglione bianco e calzoni di velluto, è entrato sul palcoscenico seguito da un occhio di bue, come chi si appronta a uno spogliarello, e dobbiamo sinceramente riconoscere che proprio questo effetto è riuscito ad ottenere. L’esecuzione è stata, dal punto di vista strettamente musicale, quanto mai corretta: il suono della sua tromba era fluido, caldo ed espressivo, dal bel fraseggio, con smorzature ammiccanti e pause dosate con astuzia teatrale, per tenere gli «spettatori» col fiato sospeso. Sopportabili anche certe ingenuità, come quella di imitare la partenza di un treno con il soffio articolato della tromba. Ha iniziato l’esecuzione stando in piedi, poi si è accosciato sui talloni, fino a distendersi al suolo, tenendo però la tromba ben «eretta» verso il cielo; è balzato poi di nuovo in piedi e sempre suonando, da solo, è uscito di scena seguito dalla luce del riflettore, provocatorio e sensuale. Basilio Sanfilippo al trombone, Salvatore Accardi, Agostino Vacchiano, Biagio Frascella e Giulio Gianelli ai corni, Franco Bugarini e Fabio Marconcini alle percussioni sono stati ottimi e adeguati alla strana situazione.

Dopo è salito sul podio Luciano Berio, per dirigere la Sinfonia n. 1 in re maggiore di F.J. Haydn. L’esecuzione è risultata un po’ pesante e forse non troppo attenta; giusta la dinamica e anche il fraseggio, ma c’era qualcosa che non convinceva nell’interpretazione.
Il concerto per tromba e orchestra in mi bemolle maggiore. che concludeva la prima molle maggiore, che concludeva la prima parte del programma, ha visto ancora Markus Stockhausen come solista, alle prese con Haydn, vestito questa volta dei sacri parametri del rito. La direzione di Berio qui si è illuminata: più vivace, attenta e ricca di sfumature. Bravo davvero il giovane solista: nell’allegro la sua tromba aveva un bel suono, ritmicamente impeccabile, accattivante, con appena alcuni indugi esibizionistici nella cadenza. L’andante risultava morbido, ma non sdolcinato, con una piccola incertezza della tromba nell’attacco dell’ultima frase. Nell’allegro conclusivo il dialogare tra lo strumento e l’orchestra risultava piacevole e fluido, appena increspato da alcuni ammiccamenti ostentati e dall’intonazione che, almeno in due punti, non era sicura.

Per la seconda parte del concerto, Berio ha diretto in «versione concertante» e (in questa veste) in prima esecuzione assoluta, la sua opera «Un re in ascolto». Bisogna premettere che il libretto di Italo Calvino non ha praticamente senso: un tale vuole mettere in scena «La tempesta» di W. Shakespeare, il suo regista è troppo esigente e ambizioso, per cui il progetto stenta a realizzarsi, nel frattempo si va avanti con le audizioni per alcuni possibili interpreti. Ad un certo punto arriva una tipa che sgrida moltissimo e il tale muore, forse per lo spavento. La musica è di una noia indescrivibile: note lunghe, esasperanti, accordi sgraziati che pretendono però di essere fini. Davvero, la nostra pazienza di spettatori è stata messa a dura prova; tanto che durante la lunga predica della protagonista, che fa’ il rimbrotto, abbiamo sentito l’impulso di strozzare il soprano perché tacesse. Gli esecutori probabilmente cantavano e suonavano le note che dovevano, l’orchestra, in particolare, pareva addormentata e straccamente si trascinava. I soprani erano Mariana Nicolesco e Rebecca Littig, il mezzosoprano Rohangiz Yachmi, il tenore Peter Haage, il basso baritono Heinz Jùrge Demitz la voce recitante era di Sergio Tedesco, il pianista Stevhen

22 – Maggio ‘86

giovedì, 1 maggio 1986

Di stupidaggini intorno al McDonald’s di piazza di Spagna ne sono state dette tante, anche troppe, e a ciò non deve essere stata estranea una astuta campagna promozionale della stessa gestione del locale. Tra le stupidaggini più clamorose vi sono le affermazioni per cui alcuni trovano che deturpi il centro storico, degradi l’ambiente e insulti la tradizione nazionale. In questo stesso posto, fino a non molto tempo fa, c’era un drugstore, drogheria e tavola calda altrettanto poco romanesco, eccetto che per il nome, uguale per altro a tutti gli altri negozi più o meno lussuosi che proliferano nella zona, con vetrine, banconi, insegne luminose che sfregiano e deturpano, con tralicci ingombranti e orripilanti colori, la sacralità di meravigliose facciate di storici palazzi, già avvilite dalla ressa di automobili tutt’intorno e dallo smog. L’aspetto un po’ ridicolo di questo spaccio di panini ultramoderno non può quindi peggiorare di tanto la situazione. Volerlo far chiudere in nome di un troppo corporativistico appello alla tradizione ci pare poi segno di grande ottusità: cosa ne direbbero certi televisivi paladini di casa nostra se a Parigi, Londra o Berlino si reclamasse a gran voce la chiusura di pizzerie e gelaterie italiane imperversanti? Non è neppure detto che la tradizione ristoratrice romana sia poi così nobile; noi saremmo contenti se certi romanissimi postacci, in cui vengono servite a caro prezzo cose immangiabili, a turisti e indigeni, fossero davvero costretti a chiudere. Una matriciana o una pizza in certi posti non hanno neppure bisogno di essere annaffiate dal metanolo per risultare tossiche! Certo, al Mc Donald’s non si mangia meglio e nell’ora di punta l’affollamento è indescrivibile, ma almeno c’è il cartello «vietato fumare»!
Una sola è quindi la colpa di questo hangar gastronomico: che si mangi così male! Si tratti del famossissimo Big Mac a tre stati, o del Cheesburger al formaggio, o del Filet O Fish di pesce o del più semplice Hamburger di manzo, o siano invece le coppe dolci dei Sundaes oppure una delle composizioni del Salad Bar; sempre si ha l’impressione che siano puri nomi di fantasia, dietro ai quali si nasconde un disgustoso nulla composto d’aria gommosa da cui colano certe bave bianco-giallastre che gonfia e riempie come le gasatissime bevande. Anche la birra non si sottrae a questa condanna gasata e sintetica. Tra colorati pennacchi, dietro i banconi e tra i tavolini, si muovono giovanotti e ragazze gentili, che sono la sola consolazione dell’avventore non ancora del tutto rassegnato al disumano andazzo.

Che si possa mangiare però malissimo, pur restando nel segno della più schietta tradizione e avendo a favore anche il fascino di un ambiente suggestivo ce lo ha provato l’Osteria Margutta, nell’omonima via, la quale può essere considera un monumento all’occasione perduta. Tutto nel locale parla di Roma e dell’arte, e nell’aria sembra di percepire segrete vibrazioni che neppure la banalità di certe dame gracchianti e commendatori col sigaro riescono a soffocare. Però, fin da subito, c’è qualcosa che gela, nell’accoglienza sbadata, nel servizio frettoloso e sommario, nell’esposizione disadorna dei vassoi d’antipasti.
Stando poi seduti a tavola ci si rende conto che la cucina è un vero disastro. Da un’osteria che pretende di essere nella tradizione più ruspante non ci si aspetta certo l’estenuato estetismo della «nouvelle cuisine», né la sontuosità di barocche e ricciolute preparazioni, ma almeno la consolazione colorita della cucina già invitante allo sguardo. Invece gli antipasti sono miseri e scialbi, le trenette scotte immerse in un pomodoro pallido e dolciastro, la pasta e ceci ha il colore ed il sapore che ricordano la sciacquatura di piatti, i rigatoni con panna, vodka e speck sono un pasticciaccio insulso. La trippa alla romana ha cattivo odore, il goulash è una poltiglia color mattone appena piccante, l’arrosto triste come il lesso di una mensa aziendale e il sugo alla vaccinara dello spezzatino è solo brodo di verdura I vini proposti sono pochi, banali e mal tenuti; abbiamo evitato i dessert e ci siamo precipitati, dopo aver pagato il conto non alto, a consolarci con la vista della vicina scalinata di Trinità dei Monti

22 – Maggio ‘86

giovedì, 1 maggio 1986

«Era un romanzetto fastidioso, autobiografico e vanesio…»; così Francesco Petrarca, alias Gaspare Barbiellini Amidei, protagonista della Storia di lei definisce il manoscritto di uno scrittorello, nella vicenda, suo probabile rivale in amore. In realtà, questa frase si attaglia alla perfezione al romanzo dello stesso Barbiellini, che Rizzoli pubblica con bella veste. Fastidioso perché noiosissimo, pieno di situazioni trite e ritrite, con una tramuccia insulsa, stipata di personaggi tutti improbabili e con la caratteristica comune di essere assolutamente antipatici. Autobiografico: infatti assilla il lettore con brandelli, peraltro insinceri, di vita dell’autore, di cui non può importare molto al lettore, e il disinteresse è, secondo noi, la condanna più grave e il sentimento peggiore verso un’opera letteraria. Vanesio per due ragioni: prima di tutto perché l’autore ha una ecessiva voglia che tutti operino l’identificazione: autore-protagonista. Usando i paraventi di un giornale illustre, di una stantia autoironia e di una tartufesca finta modestia, G.B.A. popola la vita di F.P. dei nomi più orecchiati e impegnati della vita mondana, culturale e politica degli ultimi decenni, tanto che giunge persino a scomodare nientemeno che il Presidente della Repubblica, cui nega una conversazione al telefono, perché già impegnato sull’altra linea col grande amore. Ancor più vanesio per l’eccesso di citazioni buttate qua e là, dissennatamente, in più lingue, mischiando crusca e farina e facendo un pastone. Vera ciliegina sulla torta così cucinata è stata per noi l’invocazione di quella bibbia italiana della stupidità che è l’opera su amore e amicizia di quel sociologo da rotocalco che con il personaggio protagonista ha in comune anche il nome. Non sono molte 16.500 lire per un libro, ma queste sono del tutto sprecate.

Marianna la pazza (Aelia Laelia edizioni, pagg. 118, Lit. 12.000) è un breve romanzo di Roberto Parpaglioni, giovane scrittore e autore di teatro, che ha il carattere di un apologo, cioè di narrazione con finalità morali – ma, sia ben chiaro, non moralistiche -. Parpaglioni disegna con tratti intensi alcuni personaggi e articola la storia in tre sezioni.
Nella prima parte, quella più consistente e conchiusa in se stessa, Il racconto di Vittorio, dalla voce del ragazzo innamorato di lei, si apprende come Marianna sia fuggita di casa e attraverso quali vicende sia giunta alla decisione di uccidere il padre, per salvarlo dalla disumanizzazione procurata dalla lotta per il denaro. La seconda testimonianza è quella che ci viene dalla lettura de Il diario del padre, il quale, uomo abbastanza qualunque, teso solo a fare soldi, pure rivela profondità inattese nel suo amore per la figlia e in una sorta di religiosità, spaventato di fronte alla malattia, commosso davanti al mare; un uomo come tanti, irripetibile come tutti. Conclude il libro L’intervista con Marianna, resa nota dopo che la ragazza è stata trovata morta in cella. Nell’intervista Marianna riesce a dire il suo perché di un comportamento che sotto la dichiarata rigida coerenza è poi tanto incoerente da arrivare al suicido, quando, per lei, coerenza forse, sarebbe stato continuare ad uccidere per assolvere la missione, cui si sentiva chiamata, di salvare il mondo. Ma, uccidendo o uccidendosi, non si salva nulla e nessuno. La sua comunque non è una risposta, ma è la possibilità di una risposta. Abbiamo detto che lo scritto è un apologo, ora aggiungiamo che è anche una fiaba: una ragazza, magica nella sua follia e nei suoi stracci, sensuale e misteriosa come una fata, vera e irreale allo stesso tempo, lascia un segno lacerante del suo passaggio. C’è in queste pagine una soffusa aura di mistero quasi sacrale, che coesiste col crudo realismo di certi momenti in cui l’autore affronta temi come la violenza e la sessualità, senza mai essere compiaciuto né volgare. Come per una favola, si corre lungo la storia, col fiato sospeso, senza che l’interesse si allenti e la fine giunge inattesa.

22 – Maggio ‘86

giovedì, 1 maggio 1986

La Herodiade di Jules Massenet è un’opera d’arte che stimola già molte perplessità di giudizio per le sue caratteristiche e l’allestimento che ne ha fatto l’Opera di Roma riesce ad aggiungere perplessità nuove. Il libretto costituisce un problema di per sé: non è troppo chiaro se sia da attribuire all’italiano Angelo Zanardini o ai francesi Paul Millet e Henri Grémont (Georges Hartmann) che l’avrebbero tratta da Gustave Flaubert. Chiaro è solo che si tratta di un pasticcio grottesco, di rara stupidità, anche se rapportato al non alto livello medio dei libretti per il teatro in musica, i quali non scherzano certo per assurdità delle situazioni e sghangheratezza dei versi. Qui abbiamo una indecente figura di Giovanni Battista il quale parla come un giacobino e una Salomé dalla psiche stravolta.

Le lunghe tirate sentimentali sono arie e duetti d’amore che proprio non hanno nulla da spartire con l’atmosfera biblica. Ed è bene che sia così, poiché la musica di Massenet è quella di una splendida operetta: melodie facili, spesso facilissime, armonie semplici, usate con astuzia magistrale. Si è rapiti dalla sapienza compositiva del musicista francese, estasiati dal suo modo di usare l’orchestra, dalla elementare semplicità, ma squisita cesellatura. È però, del tutto assente ogni emozione non solo mistica, ma anche appena vagamente religiosa; l’autore, forse ingenuamente, vi sostituisce lenti accordi sognanti, che sono splendide «barcarole». Il momento finale della vicenda è risolto in fretta, con una appena più nervosa accentuazione dei timpani, ma il dramma non c’è mai! Il Battista è un «conte Danilo» e Salomé una «vedova allegra». Erode – musicalmente parlando – è il sovrano balcanico perdutamente innamorato di una ballerina ed Erodiade una regina stizzita e vanitosa con un passato di ex-puttanella. Personaggi che, tutti insieme, decidono ogni tanto di andare a Parigi ad assistere a uno spettacolo delle Folies Bérgères dove si eseguono danze orientali. Anche in questo orientalismo da paravento déco Massenet è stupendo, gradevole nella semplicità degli intervalli, nelle scalette ascendenti e discendenti di prammatica, nelle sinuose melodie, nei tintinnar di triangolo ed arpa. Nulla sa mai di ciarpame: una sensualissima, sebbene filologicamente improbabile, musica d’oriente. Ottimo è poi nelle pagine dedicate allo sfogo d’amore, anche se si ritrovano nelle situazioni più deliranti. Un esempio per tutti: nell’ultimo atto, alla prima scena, si vede Giovanni Battista nel carcere, tormentato dalla tentazione che lo fa’ oscillare tra Dio e l’amore sensuale per Salorné, nei momenti che precedono l’esecuzione: il quadro si apre con un lungo brano orchestrale, grandiosamente frivolo, appena segnato dalla malinconia, con melodie quasi di canzonetta e infine, nell’oscurità tetra della sua prigione, il Profeta canta il proprio tormento, ma è una splendida romanza da café-chantant quella che gli esce dal petto. Sulla scena romana si sono poi aggiunte stranezze a stranezze: anzitutto Salomé: la signora Montserrat Caballé. Chi ha detto che il teatro è finzione? Il teatro è teatro e non finge che se stesso; è vita e crea vita; perciò è stupido credere che basti che un cantante d’opera sappia cantare – questo lo può pensare solo chi non capisce niente di teatro e di opera lirica -. Un veliero non può impersonare Salomé, o almeno «questa» Salomé. L’immensità fisica della Caballé, gonfiata e quasi rallentata dagli immensi drappeggi, veleggiava infatti sulla scena, rendendo grottesco, assurdo e anche un po’ squallido il tutto! Immota come una divinità assira, emetteva dalla gola una voce bella, ma anch’essa statica, malgrado la precisione e il timbro che le riconosciamo perfetto, come ha saputo dimostrare nel terzo atto, nella scena del tempio, prima del naufragio tra le braccia di Erode.
Del tutto inadeguata l’Erodiade di Anna Plagianos, che quella sera sostituiva la titolare del ruolo; forse impreparata, ha esibito una voce tremolante ed inespressiva, dall’estensione limitata e con una presenza scenica assolutamente al di sotto del personaggio.
Ottimo ci è parso il basso Ferruccio Furlanetto, un Fanuele corretto anche scenicamente, dalla voce calda e piena. Ridicolo il personaggio di Giovanni Battista di José Carreras, non solo per l’incongruità del ruolo, ma perché sembrava troppo compiaciuto della sua bella voce, senza cercare di dare minimamente espressione, anche musicale, a quello che andava cantando – non sappiamo se attribuire a servilismo del pubblico romano o all’efficacia della claque l’applauso eccessivamente prolungato all’insignificante esibizione nell’aria del quarto atto -. Siamo rimasti assolutamente estasiati, invece, da Juan Pons, una voce di baritono profonda e smagliante, dall’intonazione perfetta, capace di trovare accenti sempre diversi e di rendere al meglio le melodie del suo personaggio, un Erode dalla grande intelligenza scenica, capace persino di reggere sopportabilmente l’accostamento a Salomé.

Abbastanza corretto il coro, diretto da Ine Meisters, la quale ci pare nel tempo andar facendo un lavoro di tutto rispetto. Non c’è invece modo di salvare il corpo di ballo: mentre le prestazioni dei solisti riescono ad essere, di volta in volta variamente accettabili, l’insieme continua ad essere disastroso. Quelle danze di fanciulle, dentro e fuori palazzi e templi, erano soltanto scoordinato agitarsi di ragazzotte impacciate, senza grazia, nerbo o sensualità, che cancellava il lavoro del coreografo William Earter. La regìa di Antonio Calenda è stata così rispettosa da risultare intimidita e scene di Rubertelli e Di Pace e i costumi li Maurizio Monteverde ci sono parsi di corretta routine.
Resta da dire della direzione del Maestro Gianluigi Gelmetti: spigliato e preciso ha svolto un lavoro da artigiano della musica, che sa tornire bene ed amalgamare quello che deve essere amalgamato, facendo anche risultare distinto ciò che deve essere chiaro; ma ha rivelato grossi limiti alle prese con una musica che ha bisogno di grandi doti di raffinatezza per sprigionare tutto il suo potenziale. I suoi colpi di bacchetta parevano avere più la precisione che si richiede a un lavoro di bottega, che non la virtuosità quasi ossessiva e qui indispensabile del cesellatore. Una cosa è scalcare senza errori e altra cosa valorizzare gemme con incastonature preziose. Stranieri e romani hanno applaudito e noi ci siamo divertiti.

22 – Maggio ‘86

giovedì, 1 maggio 1986

Il contrabbasso, in scena al teatro in Trastevere dal 18 aprile, è un ampio atto unico, prima opera teatrale di Patrick Süskind, autore bavarese di trentasette anni, che ha da poco pubblicato in Italia il suo primo romanzo, apparso a puntate, l’anno scorso sul Corriere della Sera e intitolato Il Profumo. Il testo, tradotto da Annabella Cerliani e Maurizio Micheli, rivela grandi capacità teatrali e ottima conoscenza dei meccanismi che in scena possono far scattare l’effetto irresistibile dell’umorismo. La storia è di per sé molto semplice: un suonatore di contrabbasso nell’orchestra di stato, la cui esistenza è triste e solitaria, racconta a un ragazzo, col pretesto di una lezione, la sua vita di amore e di odio per l’ingombrante ed ineliminabile strumento, che l’inchioda ad un anonimato mediocre cui non riuscirà a sfuggire neppure per amore di una graziosa mezzo soprano di cui si è invaghito e per destare l’attenzione della quale si ripromette di lanciare un urlo nell’istante di silenzio che precede l’inizio di un’importante prima all’Opera. I personaggi in scena sono due, o meglio: sono tre, infatti il contrabbasso è personaggio non meno del contrabbassista, che parla in continuazione, o del ragazzo, che non parla quasi mai, salvo che per sottolineare le parole di costui. Tanto personaggio che è la divinità matronale antagonista capace di minacciosi pronunciamenti, sollecitati dalle carezze dell’archetto sulla enorme pancia vuota. Una delle astuzie del testo sta nel suo non essere un puro e semplice monologo, riuscendo a dare ai tre personaggi sulla scena un posto e un significato emozionale e teatrale. La qualità dell’umorismo è ottima, con momenti anche raffinati accanto ad altri che, pur più prevedibili, risultano di buona fattura e si tengono sempre nei limiti del buon gusto. Persino il finale, con l’urlo che non esce dalla strozza (come era prevedibile), è stato costruito con una prevedibilità che non fa’ scemare l’attenzione, anzi: il contrabbassista in frac, solo col suo strumento… i passi di Abbado che si avvicina al podio… l’ultimo colpo di tosse… la bacchetta che batte sul leggìo… l’istante di silenzio che segue, sono cose che fanno venire il brivido nella schiena, finché l’orchestra esplode trionfale e possente abbattendosi sull’omino, ripiegato su se stesso e ancora una volta sconfitto.
Pur non avendo letto l’originale tedesco, siamo certi che il regista e Maurizio Micheli abbiano messo molto del loro nel costruire questa splendida prova di teatro e siamo anche certi che l’operazione ha avuto il senso soprattutto di valorizzare le possibilità intrinseche del testo. Maurizio Micheli è un attore irresistibile: un ottimo mestiere, una capacità quasi musicale di ritmare i suoni e le pause, con un susseguirsi calibratissimo di crescendo, diminuendo e accelerando. Ha sempre presente il pubblico che gli sta davanti e lo dimostra percependone l’umore e stimolandolo e provocando, con passi, gesti, sussulti, ammiccamenti non volgari, punte di grottesca drammaticità che non è di peso e non lo fa’ strafare. Certo, Micheli ha in mano uno strumento che potrebbe essere anche la sua rovina: se stesso. Gli è troppo facile capire le possibilità di una battuta, rendere tutto comunque accettabile, pungendo, coinvolgendo anche solo con un gesto, con una smorfia. I mass media dello spettacolo potrebbero distruggerlo. Lo sappiamo che il successo popolare fa’ gola a tutti: dà sentimenti di onnipotenza essere apprezzati dalle masse di coloro che hanno come tutta attività culturale lo spettacolo televisivo dopo gli spaghetti della sera; ma noi lo esortiamo, anche egoisticamente, a continuare a mostrare la sua bravura in teatro e in piccoli capolavori come questo. La presenza registica di Marco Risi è stata quanto mai efficace e ben percepibile: ha orchestrato il tutto in modo ottimo.
Alessandro Cavalieri, nei panni, a lui congeniali, del ragazzo, ha saputo cogliere l’importanza del personaggio, recitando col corpo e con la testa, giovinetto un po’ stralunato, ingenuo e tenero, con un sottofondo di ironia.. La consulenza musicale di Paolo Terni è stata utile. Le scene e i costumi di Piero Dotti ci sono parsi ben calibrati. Abbiamo avuto l’impressione di non essere stati i soli del pubblico a divertirci moltissimo e ci ha fatto un gran piacere.

Al teatro Politecnico di via Tiepolo è stato di scena, negli ultimi giorni di aprile, l’autore inglese Arnold Wesker, con un trittico dal titolo Annie Wobbler. Si tratta di tre monologhi femminili che fanno parte di una più ampia raccolta di ritratti di donne, noti come i Plays for Women.
Wesker, nato a Londra nel 1932, appartiene alla generazione degli inglesi «arrabbiati» e il suo teatro, come quello di John Osborne ha significato molto per una generazione in rivolta contro tutto e contro tutti. Anche a Wesker le elucubrazioni morali e filosofiche sono però le cose che riescono peggio: risulta infatti prolisso e convenzionale in maniera disarmante; esprime invece il meglio di se stesso in uno schietto umorismo, quasi cabarettistico e in brevi momenti di intensa drammaticità.
Annie Wobbler è la prima delle tre donne: una vecchia serva, miserevole, che passa dal compianto di sé alla rassegnazione, oscillante tra la disperazione e un assurdo grido di «evviva», mentre sfaccenda nella cucina di una casa di ricchi ed avari ebrei.
La seconda donna è Anna: una ragazzotta intelligente e bruttina che, appena laureata in letteratura francese, si prepara a un incontro galante con un accademico che è anche la sua rampa di lancio sociale e culturale.
La terza è la scrittrice Annabella Wharton, autrice di romanzi di successo, famosa, forse solo nella fantasia, colta mentre si prepara, bevendo super-alcolici, ad una ipotetica intervista. Diverse sono le vite che immagina di raccontare all’intervistatore, con lontani punti di contatto tra loro e la verità è difficile capire quale sia, o forse è contenuta in una canzone che la donna udiva da bambina suonare sullo sfasciato grammofono di casa: «Oh sweet mistery of life…». Il primo e il secondo bozzetto sono letterariamente efficacissimi: l’uno tragico e desolato, di secca brevità; il secondo irresistibilmente umoristico e intelligente. Il terzo quadro è un po’ troppo pretenzioso e filosofeggiante, con momenti di stanchezza che annoiano lo spettatore il quale si vede riproporre troppo lungamente la stessa situazione. La protagonista e unica interprete era Elisabetta Pozzi, eccellente attrice, dalla grande sapienza teatrale, vera volpe scaltra della scena, capace di astuzie, ma anche di grandezze. L’accorata disperazione della vecchia trovava accenti forti e sfumature delicatissime, tra lo struggimento e il delirio; la decisione (che pensiamo sua) di tradurre quello che nel testo originale è probabilmente un linguaggio londinese popolare, o cockney, con un milanese ben tornito, è stata, a nostro avviso, un’operazione non arbitraria e quanto mai efficace, poeticamente e scenicamente.
Brava anche nel dare corpo e anima al personaggio della giovane aspirante seduttrice, nel momento di intimità in cui tra umorismo, speranza e autodistruttività predispone, con rapidi alternarsi di fiducia e sfiducia, i lacci della seduzione: spiritosa, grottesca, amara, l’attrice sostiene il personaggio con rara maestria. Anche i momenti di stanchezza del terzo episodio sono resi accettabili dalla sempre cangiante interprete che porta gli spettatori senza sbavature e coinvolgendoli emotivamente alla commossa conclusione. I costumi di Flaminia Petrucci erano quasi sempre giusti (forse dickensianamente troppo marcato l’abbigliamento di Annie Wobbler). La messa in scena ci è parsa discreta e il merito è di Ennio De Dominicis. Le scene erano di Marcello Cesena e la versione italiana di Guido Almansi.

22 – Maggio ‘86

giovedì, 1 maggio 1986

L’oro

Giunti al termine del ciclo di seminari su «L’oro della psicoanalisi» i più sono rimasti interdetti: quale è stato il significato scientifico del lavoro di tanti mesi? Non è forse successo che Sandro Gindro abbia tradito la sua missione di scienziato, per compiacere il trascinatore di folle, il demagogo che cova in lui? Cosa aveva a che fare tanto spreco emozionale con un discorso – scientifico, vivaddio – sulla psicoanalisi? Può un teorico continuare a parlare sempre di ciò che è giusto o ingiusto?
Con quale diritto di commuoversi o di indignarsi sulle cose dei mondo, come farebbe un bambino o un poeta?
Riso, scandalo, commozione non sono linguaggi praticabili per la scienza, si sente ancora dire in giro. Una tecnica terapeutica deve reggersi indipendentemente da chi la esercita e il linguaggio che la descrive deve essere oggettivo.
Come dire che lo psicoanalista è un essere al di sopra di piccoli accidenti come il bombardamento su Tripoli o il disastro di Chernobyl. Che influenza possono infatti avere questi piccoli aneddoti di case rase al suolo o di raccolti perduti perché contaminati, sulla sua missione di guaritore delle nevrosi?
Tutti erano preparati a un discorso che avrebbe trasformato tutto l’oro della psicoanalisi del passato in cacca e che avrebbe additato nella nuova psicoanalisi gindriana l’oro destinato a risplendere nel futuro. Invece è successo che il conferenziere ha espresso le sue paure e le sue speranze, si è indignato per le offese all’umanità che si compiono giorno per giorno, ha rivelato le proprie debolezze ed ha additato le meschinità che rendono l’esistenza degli uomini insopportabile ad altri uomini e poi ha soggiunto: «Io ho la mia cura».
Deludendo gli amanti della scienza, in attesa dei documenti di garanzia che, quella fosse finalmente la TERAPIA; deludendo anche i mistici, convinti che avrebbero trovato la SALVEZZA.
Che significato può avere nei confronti della SCIENZA il discorso un po’ svagato e magari poetico, di un uomo, più svagato e più poeta di altri, che crede che la cultura e lo studio debbano dare metodi di intervento utili in realtà così incerte; un uomo che crede che, alle spalle, ci sia tutto quello che ci ha costruito e, davanti, un disperato bisogno di essere felici?
Non c’è teorema per chi sia convinto di ciò, come non c’è illusione: solo la possibilità di piccoli patti, tra gli uomini, tra essi e il dolore, tra questo e il piacere. La scienza preferisce forse altri linguaggi, scevri di inutile emotività, immuni persino da eccessi di umanità. Toccherà forse a un codice che ancora non conosciamo il grato compito di trascrivere su di un video-terminale, senza coinvolgimento emotivo, la parola FINE.

22 – Maggio ‘86

giovedì, 1 maggio 1986

Sergio Scatizzi presenta alla Gradiva una cinquantina di opere dell’ultimo periodo, tutte a olio, su tela, tavola o masonite. Lo introduce nel catalogo Carlo L. Ragghianti e ne traccia un profilo biografico Raffaele Monti. Il pittore, originario della zona di Lucca, è più o meno inserito nella cultura toscana, con importanti incontri romani e con remote ascendenze parigine. Nume lontano della sua pittura egli indica Manet, la critica ha fatto anche i nomi di Mafai, Rosai e persino De Pisis.

A tutti fa’ piacere che si guardi di più al risultato concreto del proprio operare e gli ascendenti finiscono per lasciare il tempo che trovano, per cui noi cercheremo di dire cosa abbiamo trovato in questi ultimi quadri di Scatizzi. Sulle superfici dei suoi quadri d’oggi, per lo più di grandi dimensioni, il colore è sparso a grumi densi, prolungati in spessi filamenti, tanto che la pittura sembra non aderire al supporto, ma quasi essere sul punto di cascare. Ad un primo sguardo, da lontano, si intravedono paesaggi, marine e alcune nature morte, che però, all’osservazione più attenta e ravvicinata, sembrano disfarsi. Tutto è puntato sul colore, ma sono colori violenti senza essere robusti, volgari senza essere provocatori. Indeciso sulla scelta da fare, il pittore ripropone brandelli di un passato figurativo in una sorta di libera associazione; retorica e senza nerbo. Perduta la visione coerente della realtà egli sembra incapace di ricreare un suo mondo. Tutto è gridato su queste superfici, ma dietro al colore non c’è niente e la ripetizione è un limite che colpisce. Né impressionano le immagini variate di uno stesso soggetto, presentate insieme e allo stesso tempo separate: la Laguna al tramonto e notturno o le Due spiagge, che sembrano più che altro un artificio per impressionare i borghesi, i cui salotti sono il destino finale di questa pittura, che si ostina a ripetere ciò che è anche meglio non dire: la soddisfazione della mediocrità.