22 – Maggio ‘86

maggio , 1986

La Herodiade di Jules Massenet è un’opera d’arte che stimola già molte perplessità di giudizio per le sue caratteristiche e l’allestimento che ne ha fatto l’Opera di Roma riesce ad aggiungere perplessità nuove. Il libretto costituisce un problema di per sé: non è troppo chiaro se sia da attribuire all’italiano Angelo Zanardini o ai francesi Paul Millet e Henri Grémont (Georges Hartmann) che l’avrebbero tratta da Gustave Flaubert. Chiaro è solo che si tratta di un pasticcio grottesco, di rara stupidità, anche se rapportato al non alto livello medio dei libretti per il teatro in musica, i quali non scherzano certo per assurdità delle situazioni e sghangheratezza dei versi. Qui abbiamo una indecente figura di Giovanni Battista il quale parla come un giacobino e una Salomé dalla psiche stravolta.

Le lunghe tirate sentimentali sono arie e duetti d’amore che proprio non hanno nulla da spartire con l’atmosfera biblica. Ed è bene che sia così, poiché la musica di Massenet è quella di una splendida operetta: melodie facili, spesso facilissime, armonie semplici, usate con astuzia magistrale. Si è rapiti dalla sapienza compositiva del musicista francese, estasiati dal suo modo di usare l’orchestra, dalla elementare semplicità, ma squisita cesellatura. È però, del tutto assente ogni emozione non solo mistica, ma anche appena vagamente religiosa; l’autore, forse ingenuamente, vi sostituisce lenti accordi sognanti, che sono splendide «barcarole». Il momento finale della vicenda è risolto in fretta, con una appena più nervosa accentuazione dei timpani, ma il dramma non c’è mai! Il Battista è un «conte Danilo» e Salomé una «vedova allegra». Erode – musicalmente parlando – è il sovrano balcanico perdutamente innamorato di una ballerina ed Erodiade una regina stizzita e vanitosa con un passato di ex-puttanella. Personaggi che, tutti insieme, decidono ogni tanto di andare a Parigi ad assistere a uno spettacolo delle Folies Bérgères dove si eseguono danze orientali. Anche in questo orientalismo da paravento déco Massenet è stupendo, gradevole nella semplicità degli intervalli, nelle scalette ascendenti e discendenti di prammatica, nelle sinuose melodie, nei tintinnar di triangolo ed arpa. Nulla sa mai di ciarpame: una sensualissima, sebbene filologicamente improbabile, musica d’oriente. Ottimo è poi nelle pagine dedicate allo sfogo d’amore, anche se si ritrovano nelle situazioni più deliranti. Un esempio per tutti: nell’ultimo atto, alla prima scena, si vede Giovanni Battista nel carcere, tormentato dalla tentazione che lo fa’ oscillare tra Dio e l’amore sensuale per Salorné, nei momenti che precedono l’esecuzione: il quadro si apre con un lungo brano orchestrale, grandiosamente frivolo, appena segnato dalla malinconia, con melodie quasi di canzonetta e infine, nell’oscurità tetra della sua prigione, il Profeta canta il proprio tormento, ma è una splendida romanza da café-chantant quella che gli esce dal petto. Sulla scena romana si sono poi aggiunte stranezze a stranezze: anzitutto Salomé: la signora Montserrat Caballé. Chi ha detto che il teatro è finzione? Il teatro è teatro e non finge che se stesso; è vita e crea vita; perciò è stupido credere che basti che un cantante d’opera sappia cantare – questo lo può pensare solo chi non capisce niente di teatro e di opera lirica -. Un veliero non può impersonare Salomé, o almeno «questa» Salomé. L’immensità fisica della Caballé, gonfiata e quasi rallentata dagli immensi drappeggi, veleggiava infatti sulla scena, rendendo grottesco, assurdo e anche un po’ squallido il tutto! Immota come una divinità assira, emetteva dalla gola una voce bella, ma anch’essa statica, malgrado la precisione e il timbro che le riconosciamo perfetto, come ha saputo dimostrare nel terzo atto, nella scena del tempio, prima del naufragio tra le braccia di Erode.
Del tutto inadeguata l’Erodiade di Anna Plagianos, che quella sera sostituiva la titolare del ruolo; forse impreparata, ha esibito una voce tremolante ed inespressiva, dall’estensione limitata e con una presenza scenica assolutamente al di sotto del personaggio.
Ottimo ci è parso il basso Ferruccio Furlanetto, un Fanuele corretto anche scenicamente, dalla voce calda e piena. Ridicolo il personaggio di Giovanni Battista di José Carreras, non solo per l’incongruità del ruolo, ma perché sembrava troppo compiaciuto della sua bella voce, senza cercare di dare minimamente espressione, anche musicale, a quello che andava cantando – non sappiamo se attribuire a servilismo del pubblico romano o all’efficacia della claque l’applauso eccessivamente prolungato all’insignificante esibizione nell’aria del quarto atto -. Siamo rimasti assolutamente estasiati, invece, da Juan Pons, una voce di baritono profonda e smagliante, dall’intonazione perfetta, capace di trovare accenti sempre diversi e di rendere al meglio le melodie del suo personaggio, un Erode dalla grande intelligenza scenica, capace persino di reggere sopportabilmente l’accostamento a Salomé.

Abbastanza corretto il coro, diretto da Ine Meisters, la quale ci pare nel tempo andar facendo un lavoro di tutto rispetto. Non c’è invece modo di salvare il corpo di ballo: mentre le prestazioni dei solisti riescono ad essere, di volta in volta variamente accettabili, l’insieme continua ad essere disastroso. Quelle danze di fanciulle, dentro e fuori palazzi e templi, erano soltanto scoordinato agitarsi di ragazzotte impacciate, senza grazia, nerbo o sensualità, che cancellava il lavoro del coreografo William Earter. La regìa di Antonio Calenda è stata così rispettosa da risultare intimidita e scene di Rubertelli e Di Pace e i costumi li Maurizio Monteverde ci sono parsi di corretta routine.
Resta da dire della direzione del Maestro Gianluigi Gelmetti: spigliato e preciso ha svolto un lavoro da artigiano della musica, che sa tornire bene ed amalgamare quello che deve essere amalgamato, facendo anche risultare distinto ciò che deve essere chiaro; ma ha rivelato grossi limiti alle prese con una musica che ha bisogno di grandi doti di raffinatezza per sprigionare tutto il suo potenziale. I suoi colpi di bacchetta parevano avere più la precisione che si richiede a un lavoro di bottega, che non la virtuosità quasi ossessiva e qui indispensabile del cesellatore. Una cosa è scalcare senza errori e altra cosa valorizzare gemme con incastonature preziose. Stranieri e romani hanno applaudito e noi ci siamo divertiti.