22 – Maggio ‘86

maggio , 1986

Il contrabbasso, in scena al teatro in Trastevere dal 18 aprile, è un ampio atto unico, prima opera teatrale di Patrick Süskind, autore bavarese di trentasette anni, che ha da poco pubblicato in Italia il suo primo romanzo, apparso a puntate, l’anno scorso sul Corriere della Sera e intitolato Il Profumo. Il testo, tradotto da Annabella Cerliani e Maurizio Micheli, rivela grandi capacità teatrali e ottima conoscenza dei meccanismi che in scena possono far scattare l’effetto irresistibile dell’umorismo. La storia è di per sé molto semplice: un suonatore di contrabbasso nell’orchestra di stato, la cui esistenza è triste e solitaria, racconta a un ragazzo, col pretesto di una lezione, la sua vita di amore e di odio per l’ingombrante ed ineliminabile strumento, che l’inchioda ad un anonimato mediocre cui non riuscirà a sfuggire neppure per amore di una graziosa mezzo soprano di cui si è invaghito e per destare l’attenzione della quale si ripromette di lanciare un urlo nell’istante di silenzio che precede l’inizio di un’importante prima all’Opera. I personaggi in scena sono due, o meglio: sono tre, infatti il contrabbasso è personaggio non meno del contrabbassista, che parla in continuazione, o del ragazzo, che non parla quasi mai, salvo che per sottolineare le parole di costui. Tanto personaggio che è la divinità matronale antagonista capace di minacciosi pronunciamenti, sollecitati dalle carezze dell’archetto sulla enorme pancia vuota. Una delle astuzie del testo sta nel suo non essere un puro e semplice monologo, riuscendo a dare ai tre personaggi sulla scena un posto e un significato emozionale e teatrale. La qualità dell’umorismo è ottima, con momenti anche raffinati accanto ad altri che, pur più prevedibili, risultano di buona fattura e si tengono sempre nei limiti del buon gusto. Persino il finale, con l’urlo che non esce dalla strozza (come era prevedibile), è stato costruito con una prevedibilità che non fa’ scemare l’attenzione, anzi: il contrabbassista in frac, solo col suo strumento… i passi di Abbado che si avvicina al podio… l’ultimo colpo di tosse… la bacchetta che batte sul leggìo… l’istante di silenzio che segue, sono cose che fanno venire il brivido nella schiena, finché l’orchestra esplode trionfale e possente abbattendosi sull’omino, ripiegato su se stesso e ancora una volta sconfitto.
Pur non avendo letto l’originale tedesco, siamo certi che il regista e Maurizio Micheli abbiano messo molto del loro nel costruire questa splendida prova di teatro e siamo anche certi che l’operazione ha avuto il senso soprattutto di valorizzare le possibilità intrinseche del testo. Maurizio Micheli è un attore irresistibile: un ottimo mestiere, una capacità quasi musicale di ritmare i suoni e le pause, con un susseguirsi calibratissimo di crescendo, diminuendo e accelerando. Ha sempre presente il pubblico che gli sta davanti e lo dimostra percependone l’umore e stimolandolo e provocando, con passi, gesti, sussulti, ammiccamenti non volgari, punte di grottesca drammaticità che non è di peso e non lo fa’ strafare. Certo, Micheli ha in mano uno strumento che potrebbe essere anche la sua rovina: se stesso. Gli è troppo facile capire le possibilità di una battuta, rendere tutto comunque accettabile, pungendo, coinvolgendo anche solo con un gesto, con una smorfia. I mass media dello spettacolo potrebbero distruggerlo. Lo sappiamo che il successo popolare fa’ gola a tutti: dà sentimenti di onnipotenza essere apprezzati dalle masse di coloro che hanno come tutta attività culturale lo spettacolo televisivo dopo gli spaghetti della sera; ma noi lo esortiamo, anche egoisticamente, a continuare a mostrare la sua bravura in teatro e in piccoli capolavori come questo. La presenza registica di Marco Risi è stata quanto mai efficace e ben percepibile: ha orchestrato il tutto in modo ottimo.
Alessandro Cavalieri, nei panni, a lui congeniali, del ragazzo, ha saputo cogliere l’importanza del personaggio, recitando col corpo e con la testa, giovinetto un po’ stralunato, ingenuo e tenero, con un sottofondo di ironia.. La consulenza musicale di Paolo Terni è stata utile. Le scene e i costumi di Piero Dotti ci sono parsi ben calibrati. Abbiamo avuto l’impressione di non essere stati i soli del pubblico a divertirci moltissimo e ci ha fatto un gran piacere.

Al teatro Politecnico di via Tiepolo è stato di scena, negli ultimi giorni di aprile, l’autore inglese Arnold Wesker, con un trittico dal titolo Annie Wobbler. Si tratta di tre monologhi femminili che fanno parte di una più ampia raccolta di ritratti di donne, noti come i Plays for Women.
Wesker, nato a Londra nel 1932, appartiene alla generazione degli inglesi «arrabbiati» e il suo teatro, come quello di John Osborne ha significato molto per una generazione in rivolta contro tutto e contro tutti. Anche a Wesker le elucubrazioni morali e filosofiche sono però le cose che riescono peggio: risulta infatti prolisso e convenzionale in maniera disarmante; esprime invece il meglio di se stesso in uno schietto umorismo, quasi cabarettistico e in brevi momenti di intensa drammaticità.
Annie Wobbler è la prima delle tre donne: una vecchia serva, miserevole, che passa dal compianto di sé alla rassegnazione, oscillante tra la disperazione e un assurdo grido di «evviva», mentre sfaccenda nella cucina di una casa di ricchi ed avari ebrei.
La seconda donna è Anna: una ragazzotta intelligente e bruttina che, appena laureata in letteratura francese, si prepara a un incontro galante con un accademico che è anche la sua rampa di lancio sociale e culturale.
La terza è la scrittrice Annabella Wharton, autrice di romanzi di successo, famosa, forse solo nella fantasia, colta mentre si prepara, bevendo super-alcolici, ad una ipotetica intervista. Diverse sono le vite che immagina di raccontare all’intervistatore, con lontani punti di contatto tra loro e la verità è difficile capire quale sia, o forse è contenuta in una canzone che la donna udiva da bambina suonare sullo sfasciato grammofono di casa: «Oh sweet mistery of life…». Il primo e il secondo bozzetto sono letterariamente efficacissimi: l’uno tragico e desolato, di secca brevità; il secondo irresistibilmente umoristico e intelligente. Il terzo quadro è un po’ troppo pretenzioso e filosofeggiante, con momenti di stanchezza che annoiano lo spettatore il quale si vede riproporre troppo lungamente la stessa situazione. La protagonista e unica interprete era Elisabetta Pozzi, eccellente attrice, dalla grande sapienza teatrale, vera volpe scaltra della scena, capace di astuzie, ma anche di grandezze. L’accorata disperazione della vecchia trovava accenti forti e sfumature delicatissime, tra lo struggimento e il delirio; la decisione (che pensiamo sua) di tradurre quello che nel testo originale è probabilmente un linguaggio londinese popolare, o cockney, con un milanese ben tornito, è stata, a nostro avviso, un’operazione non arbitraria e quanto mai efficace, poeticamente e scenicamente.
Brava anche nel dare corpo e anima al personaggio della giovane aspirante seduttrice, nel momento di intimità in cui tra umorismo, speranza e autodistruttività predispone, con rapidi alternarsi di fiducia e sfiducia, i lacci della seduzione: spiritosa, grottesca, amara, l’attrice sostiene il personaggio con rara maestria. Anche i momenti di stanchezza del terzo episodio sono resi accettabili dalla sempre cangiante interprete che porta gli spettatori senza sbavature e coinvolgendoli emotivamente alla commossa conclusione. I costumi di Flaminia Petrucci erano quasi sempre giusti (forse dickensianamente troppo marcato l’abbigliamento di Annie Wobbler). La messa in scena ci è parsa discreta e il merito è di Ennio De Dominicis. Le scene erano di Marcello Cesena e la versione italiana di Guido Almansi.