22 – Maggio ‘86

maggio , 1986

Sergio Scatizzi presenta alla Gradiva una cinquantina di opere dell’ultimo periodo, tutte a olio, su tela, tavola o masonite. Lo introduce nel catalogo Carlo L. Ragghianti e ne traccia un profilo biografico Raffaele Monti. Il pittore, originario della zona di Lucca, è più o meno inserito nella cultura toscana, con importanti incontri romani e con remote ascendenze parigine. Nume lontano della sua pittura egli indica Manet, la critica ha fatto anche i nomi di Mafai, Rosai e persino De Pisis.

A tutti fa’ piacere che si guardi di più al risultato concreto del proprio operare e gli ascendenti finiscono per lasciare il tempo che trovano, per cui noi cercheremo di dire cosa abbiamo trovato in questi ultimi quadri di Scatizzi. Sulle superfici dei suoi quadri d’oggi, per lo più di grandi dimensioni, il colore è sparso a grumi densi, prolungati in spessi filamenti, tanto che la pittura sembra non aderire al supporto, ma quasi essere sul punto di cascare. Ad un primo sguardo, da lontano, si intravedono paesaggi, marine e alcune nature morte, che però, all’osservazione più attenta e ravvicinata, sembrano disfarsi. Tutto è puntato sul colore, ma sono colori violenti senza essere robusti, volgari senza essere provocatori. Indeciso sulla scelta da fare, il pittore ripropone brandelli di un passato figurativo in una sorta di libera associazione; retorica e senza nerbo. Perduta la visione coerente della realtà egli sembra incapace di ricreare un suo mondo. Tutto è gridato su queste superfici, ma dietro al colore non c’è niente e la ripetizione è un limite che colpisce. Né impressionano le immagini variate di uno stesso soggetto, presentate insieme e allo stesso tempo separate: la Laguna al tramonto e notturno o le Due spiagge, che sembrano più che altro un artificio per impressionare i borghesi, i cui salotti sono il destino finale di questa pittura, che si ostina a ripetere ciò che è anche meglio non dire: la soddisfazione della mediocrità.