Psicoanalisi contro n. 22 – Le parole malate

maggio , 1986

La psicoanalisi ha sempre dato molta importanza alla parola. Alcuni dicono addirittura che questo è un tipo di cura che usa come farmaco esclusivamente la parola. La coscienza si articola e si struttura nelle parole. Vi è anche chi ha detto che l’inconscio stesso affonda le radici del proprio essere nel linguaggio parlato.
Io non credo né che la coscienza sia fatta di parole o di frasi chiare e distinte, né, tantomeno, che l’inconscio sia fatto di parole. La parola è importante, ma, oltre la parola, c’è il mondo, il quale si manifesta attraverso le parole e si nasconde, anche, talvolta, dietro di esse. Le parole sono veicolo e sono schermo al mondo, nello stesso tempo fanno parte del mondo: quindi le parole sono veicolo e schermo di loro medesime.

Lo strumento principale della terapia psicoanalitica non è – secondo me – il linguaggio parlato; ma è qualcosa di più antico e profondo, di cui non è il caso di parlare qui.
Ora voglio dire della parola. Terapeuta e paziente si incontrano sul terreno delle loro parole. La presa di coscienza passa attraverso frasi. Ciò che era oscuro diventa chiaro anche per mezzo di frasi articolate, che riescono a raggiungere ciò che sta nascosto dietro ai gesti, alle «razionalizzazioni», alle fantasie. Ognuno di noi è strutturato come una città, con un complesso di architetture e una struttura urbanistica, più o meno identificabili. Già gli antichi avevano visto il corpo umano come una città. A me piace riprendere questa vecchia immagine e penso proprio a quelle città italiane, che sono frutto di una storia, non di una pianificazione attuata in un preciso momento. Mura, campanili, strade, scalinate, logge, vicoli, archetti che si abbarbicano gli uni sugli altri, in stili diversissimi e spesso perfettamente armonici. Le costruzioni degli ultimi decenni, invece, non sono, per lo più, in grado di inserirsi organicamente e serenamente in quella congerie bizzarra di stili e di epoche: chissà perché! Spesso l’architettura contemporanea, fatta di condomini, case, casette, casupole, ville e villette con giardini e pratini «all’inglese», con acacie yulibrissim e cedri del Libano, rose senza profumo e statuette dei sette nani, che assediano la città antica, deturpandola, sono l’equivalente della nevrosi e della psicosi, riferite a quegli antichi organismi. Si tratta solo di speculazione edilizia e di crescente cattivo gusto? In ogni caso, questi bubboni di cemento armato, privi della sacralità della vita, sono segni patologici. Le nostre città non guariranno più. Il singolo uomo può, invece, guarire, perché, attraverso la parola e il gesto, la psicoanalisi può distruggere ciò che non è sacro, ciò che è soltanto segno di stupida viltà, di paura, depressione, violenza. Mentre l’abuso edilizio non tiene conto dell’armonia dell’ambiente e spesso non la rispetta deliberatamente, deturpando le nostre città e distruggendo la qualità della nostra vita, perché l’interesse di tutti è in contrasto clamoroso con gli interessi individuali, nel caso della psicoanalisi è possibile che il lavoro sui singoli dia il coraggio di lottare perché scompaia non solo il sintomo della nevrosi individuale, ma anche l’effetto distruttivo sull’individuo e sulla collettività. La psicoanalisi è indispensabile strumento di lavoro per chi si ponga l’obiettivo di una vita migliore per tutti, ma non è sufficiente se non è congiunta all’azione. Cosa voglio dire con questo? Sto parlando di un sogno.

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Servendomi ancora della parola, pure, io voglio contestare che il primato le spetti di sicuro: non ritengo infatti che il pensiero coincida con le parole che servono ad esprimerlo. Penso inoltre che il linguaggio verbale sia da curare, come ogni forma di linguaggio anche non verbale. Tutto ciò che vive è linguaggio; tutto ciò che è percepito da un essere vivente divie-ne linguaggio. Ciascuno si mette in comunicazione con ciò che sta intorno sempre attraverso un linguaggio. Non esistono gesti del tutto inconsulti. La vecchia teoria per cui il bambino farebbe dapprima solo gesti scoordinati e che dopo lentamente imparerebbe ad indirizzarli ad un fine, è sempre più contraddetta dallo sviluppo della scienza. Sherrington fin dal 1906 sostiene che «il puro riflesso è un’astrazione», non solo negli uomini, ma anche negli animali. In altre parole ad esempio, in base a queste teorie, anche il movimento della coppia flessori-estensori della zampa di una rana è riconducibile, ad un’osservazione attenta, ad un comportamento finalizzato.

Se tutti i movimenti degli esseri viventi hanno un fine, significa che si articolano in un linguaggio, perché, se siamo stati in grado di identificare una finalità, vuol dire che abbiamo letto il loro movimento come un tendere verso qualcosa, che non solo è descrivibile soltanto usando un linguaggio, ma è esso stesso un linguaggio. Il linguaggio parlato non serve solo a comunicare con gli altri, ma serve anche alla autocomprensione di un gesto finalizzato, il quale, nel momento, stesso in cui si attua, si articola in una organizzazione dinamica, che può essere tradotta in altri linguaggi e descritta dalle parole. Tutto è traducibile, perché nessuna struttura dinamica dell’organizzazione vivente è autonoma. Forse, se andassimo ad ap-profondire, qui rispunterebbe Parmenide, ritornerebbero l’uno e la sua assoluta immobilità. Un punto senza parti, racchiuso in una sfera. Punto e sfera: sfera perché esiste, punto perché non ha parti. Immobile anche nel tempo. Tutto è già accaduto ed è, nel suo accadere, immobile. La realtà ha varie facce, se pure non infinite, che forse sono le espressioni di un unico linguaggio, che si esprime attraverso tante lingue, tutte traducibili perché espressioni di questa realtà. Guarendo il linguaggio parlato, acquisendo una organizzazione linguistica più articolata e ricca, imparando a giocare coi propri lapsus con allegria, invece di sentirsene oppressi; riuscendo ad essere chiari anche tenendo conto delle dimenticanze, ed avendo il coraggio di essere espliciti, ci si muoverà verso la propria salute. Questa è la via per la quale la salute della parola può divenire modello per la salute di altri linguaggi. Sarebbe possibile, per l’uomo, percorrere un’altra strada? Abbiamo sulle spalle millenni di cultura di parole. Dapprima soltanto parlate e poi anche scritte. Perché ribellarsi alla parola? È meglio guarirla.

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Una delle situazioni patologiche più gravi è quella in cui il malato si rifiuta di guarire. Questo è un evento che potrebbe sembrare eccezionale, mentre invece è quanto mai frequente. Talvolta penso che nessun ammalato abbia voglia di guarire; anche se so che questa è una affermazione che estremizza. Resta il fatto che persone con gravi disturbi fisici e psichici si ostinano, più spesso di quanto non si creda, a non voler guarire. Mettono in atto trucchi in-genui e abbastanza scoperti per ribellarsi alla possibile guarigione: cambiano terapeuta, gestiscono loro i farmaci in modo da renderli meno efficaci, dimenticano le prescrizioni; ma, soprattutto, si tradiscono con uno sguardo deluso e accorato, che si ritrova nei loro occhi ogni volta che avviene un miglioramento del quadro clinico. In questo caso, scuotono la testa di-cendo: «Mi piacerebbe che fosse vero, ma..». Quando poi non hanno atteggiamenti così espliciti, ci vuole poco sforzo a intuire, sotto i desideri dichiarati una ben più decisa volontà di non guarire. Già da tempo si è parlato di «vantaggio secondario» della malattia, per la possi-bilità che ha il malato, attraverso di essa, di controllare, dominare e tiranneggiare. Persone che si sentivano emarginate hanno visto amici e parenti occuparsi nuovamente di loro, proprio a motivo di una malattia, nella quale si sono poi assestati, in una sorta di equilibrio, nel quale hanno trovato posto anche i momenti di sofferenza. Il vantaggio è molto grande anche se il potere acquistato lo si paga duramente, e non vi si vuole più rinunciare, neanche in cambio della guarigione: non si vuole più correre il rischio di tornare nell’ombra.
La malattia permette di non prendere decisioni, di non assumersi responsabilità, di gestire solo ciò che torna comodo, permettendo di delegare il resto agli altri in un atteggiamento di pigrizia e di sottile sadomasochismo.

Il malato conosce il potere di ricatto e di violenza che gli dà la sua sofferenza. Se tutto questo meccanismo è molto evidente nelle malattie organiche, pure è anche rilevabile nei casi di disagio psichico; benché le persone che circondano questo genere di malati siano meno disponibili alla tolleranza dei rituali, delle fobie, a subire aggressioni, ad assistere alle scene di delirio. Pure, lentamente, anche qui si ingenera nel gruppo una certa abitudine ad accettare almeno parte dei ricatti imposti e la vita di tutti finisce così per ruotare intorno alle angosce e alle fobie di uno solo. Il caso più clamoroso è quello che si viene a determinare sotto la minaccia di un suicidio: i componenti del gruppo, terrorizzati all’idea di doversi portare per sempre sulle spalle il senso di colpa per quella morte annunciata, quasi rimangono paralizzati. E, poiché, sotto sotto, questo folle terrore nasconde anche un pochino di desiderio, il senso di colpa si ingigantisce, esponendo, senza più condizioni, alla brutalità di quella minaccia.

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Incontrando persone dalla vita squallida, dall’intelligenza molto limitata, incapaci di farsi apprezzare e di avere amici, gente inerte nella propria noia, nell’insensibilità radicata in troppo forti difese narcisistiche, non stupisce come certi sintomi, che sono apparentemente così bizzarri e dolorosi, acquistino però la funzione di liberare dal senso di mediocrità quotidiana. Queste persone acquisiscono così la sicurezza di una loro sensibilità grazie alla sofferenza. Ne parlano con tanto compiacimento che a volte se ne accorgono e allora, smarrite, tacciono, preferiscono rifugiarsi nuovamente, per un po’ nel loro anonimato, per timore che venga scoperto il loro gioco, che gli altri si accorgano dell’interna esaltazione che li anima. Cosa fare allora? Si deve avere il coraggio di tentare la ristrutturazione di tutta una vita. I terapeuti non possono essere vili, e anche chi inizia una psicoterapia deve avere – o aver avuto – almeno un po’ di coraggio.
Una delle frasi tipiche che dicono quelli che non vogliono guarire è: «Lo sapevo già». Quando, dopo un lungo e attento lavoro di analisi, finalmente, insieme al paziente vengono chiarite alcune cose e l’analista riesce a smontare le razionalizzazioni, a capire il significato di alcuni sintomi, questo tipo di paziente non ascolta più e sbotta col suo: «Lo sapevo già!». Lo dirà con rabbia, o con aggressività, con stanchezza o con finta delusione: «Che effetto può farmi, sapere una cosa che sapevo già?». Molto spesso non è vero che lo sapeva già e proprio il colorito emotivo eccessivo con cui pronuncia la sua frase permette di capire, che forse si è trovato qualcosa di importante. Questa frase dispettosa permette al paziente di mettere una barriera tra le parole del terapeuta e la loro possibile efficacia; serve a distrarsi anziché impegnarsi su un cammino che, con fatica, potrebbe portare al superamento della situazione malata. Può allora diventare inutile cercare di sospingerlo in quella direzione: si ostinerà nel voler parlare d’altro; in questo caso è meglio lasciargli la briglia sciolta e vedere dove andrà, dove sceglierà di dirigersi, ora che la strada, comunque, è stata indicata. Ora conviene permettere una deviazione, una breve vacanza, ben attenti però a non perdere mai di vista l’obiettivo.

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Un altro modo per rendere inefficace la terapia psicoanalitica è quello di assorbire ciò che viene detto dal terapeuta e «riciclarlo» attraverso un linguaggio tecnico, per lo più usando un frasario di formulette desunte dalla teoria freudiana. Questi pazienti non sono così rari come si potrebbe pensare e, sebbene non siano la maggioranza, capitano piuttosto spesso. In genere, sono già reduci da qualche psicoterapia dalla quale sono usciti abbastanza indenni. Non è il caso di indagare se ciò sia avvenuto per la loro ostinata astuzia o per l’incapacità del terapeuta. Costoro hanno acquisito da quelle esperienze un cumulo di termini tecnici che usano indi-scriminatamente.
C’e anche chi, pur non avendo mai iniziato un lavoro di analisi, ha però letto molti libri di teoria psicoanalitica, acquisendo un linguaggio infarcito di termini tecnici.
In ogni caso, i racconti, all’inizio, sono grotteschi; costoro parlano della loro vita dei loro sintomi come se leggessero manuali di psicoanalisi: non accenneranno mai ai genitori senza parlare di rapporto o triangolo «edipico», la loro infanzia è una serie di «fasi», non avranno mai dubbi o incertezze, specie in campo affettivo, ma solo «ambivalenze»; anziché imparare hanno «introiettato», tutto è «dinamica», «complesso di castrazione», «lavoro onirico», «spostamento», «resistenza», «rimozione». Alcuni poi arricchiscono il loro vocabolario, pescando qua e là, da altre teorie, si parlerà di «seno buono» e «seno cattivo», e poi fiori e perle come: «insight», «acting out» etc. Sanno già tutto, ma non nel modo ingenuo e rozzo di quelli che «sapevano già». Questi non solo sanno tutto, ma hanno già tutto interpretato prima e lo hanno ben confezionato in un raccontino coi fiocchi, di cui beneficeranno più volte il terapeuta, nel corso del lavoro. Questi mi divertono più degli altri, perché il loro delirio difensivo è più facilmente aggredibile.

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Tutte queste forme di ostinazione nel conservare il vantaggio derivante dalla malattia sono però forme molto gravi e queste persone passano la loro vita trascorrendola tra cure di tipo psicodinamico, ma di indirizzo diverso, passando poi ad altre terapie, e finendo quasi sempre col perdersi in pratiche mistiche o parapsicologiche e solo la demenza senile li fermerà prima che abbiano esaurito i loro pellegrinaggi in cerca della taumaturgia capace di consolarli senza obbligarli a guarire.

Il disagio è presente con tutta la sua evidenza, la sofferenza spesso traspare da quei cumuli di parole stereotipe. Se l’analista, ad un certo punto, ingenuamente, prova a parlare, a dare la sua interpretazione, vede il paziente assumere espressioni di stupore, di beatitudine o di indifferenza assoluta. Il suo paziente ripeterà appresso a lui: «Già, è proprio così». Cercando, nella ripetizione di ciò che avrà appena sentito, di attutire l’urto. Se l’analista insisterà, si ripeteranno situazioni sempre uguali. Le parole cadranno inefficaci, immediatamente ingoiate da quel freddo meccanismo di frasi fatte e termini convenzionali.

Una volta, una persona che parlava appunto in questo modo, al primo colloquio mi disse: «Io mi ero ormai disamorato della psicoanalisi, la ritenevo una scienza del tutto inefficace, perché, dopo aver fatto tre analisi, e dopo aver letto moltissimi libri, credevo di aver capito tutto. Ed in effetti ho capito tutto: di me non ho più ricordi da ritrovare, tutti i miei sintomi sono stati interpretati in modo corretto, so dare un senso psicoanalitico a tutto ciò che mi accade e a ciò che accade intorno a me; ma nulla in me finora è mai cambiato. I sintomi sono rimasti, la sofferenza è la stessa. Un giorno capitai, per caso, a una sua conferenza, sentii che diceva che la presa di coscienza non basta, che le interpretazioni non vanno calate dall’alto, sul paziente, così come vengono in mente all’analista, ma debbono essere poste al momento opportuno. Sapevo anche questo, perché lo avevo letto, ma non mi ci ero mai soffermato a sufficienza». Poi proseguì, con le sue parole forbite, a parlarmi di «transfert» e «controtrasfert». Io lo interruppi e lo corressi: «Dell’innamoramento in analisi. Il «transfert» e il «controtransfert» sono un’altra cosa». Rimase disorientato per un istante, poi soggiunse: «Già, innamoramento..». Continuò ancora, parlando delle ragioni per cui quella sera era venuto a sentirmi, finché ripeté: «..allora lei, parlando del «transfert» e «controtransfert»…» Capii che sarebbe stato un lavoro molto difficile.

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È abbastanza facile capire quanto sia pericoloso, per il terapeuta, cadere nella rete del paziente, che non aspetta altro che interpretazioni, o comunque, parole, per poterle ingoiare e renderle inefficaci, inserendole nel suo universo linguistico malato. Sono molte le patologie dei vari linguaggi. Il linguaggio parlato, prigioniero delle formule e dei termini tecnici propri di una scienza o di un’arte, è uno degli esempi più clamorosi di questo tipo di patologie. Forse appena meno grave del linguaggio disorientato e affollato di neologismi del delirio, o dell’assoluto mutismo della depressione profonda. Un linguaggio troppo tecnico uccide la scienza e l’arte, anche quando lo si usi correttamente; inoltre c’è l’aggravante che per lo più è usato in modo scorretto o perlomeno approssimativo o improprio. Solo quando l’uso dei termini e delle frasi «tecniche» si allenta, la scienza e l’arte cui si riferiscono recuperano la loro efficacia e le persone coinvolte la loro dimensione reale.
C’è anche un pericolo di segno opposto: che cioè, superato un certo limite, il linguaggio diventi troppo impreciso e prolisso; talvolta un termine tecnico o una frase non equivocabile bastano ad evitare lunghi giri di parole. Anche per la parola, la salute sta nell’armonia.

Come ho già detto, non bisogna cascare nella trappola che questi pazienti tendono al loro psicoanalista, per cui diventano in grado di vanificare ogni tentativo di chiarimento, annullando ogni possibile effetto delle parole.
Se si dice esplicitamente al paziente che si è capito il suo gioco, che il suo linguaggio è funzionale a qualcosa che va in un’altra direzione da quella dell’analisi, si casca nella trappola delle interpretazioni, che non distrarrà il paziente, magari indignato o sorpreso, dal continuare nel suo atteggiamento vanificatorio. Egli sarà anche disposto ad aiutare l’analista ad interpretare il suo bisogno di interpretare, usando tutte le parole stereotipe della tecnica psicoanalitica. Se lo psicoanalista insisterà nel tentare spiegazioni di questo gioco interpreta-tivo, gli esiti possibili, quasi sempre, saranno tre; tutti e tre esiti non sani. La prima risposta sarà il silenzio, o almeno una estrema difficoltà a continuare a parlare; la seconda eventualità sarà una disorganizzazione del linguaggio che diverrà ancor più malato, mancando al paziente infuriato la capacità di costruirsene uno diverso; nel terzo caso il paziente interromperà l’analisi.
C’e anche una quarta possibilità, quella che, dopo il silenzio, dopo una breve interruzione dell’analisi, seguita da un ritorno con un linguaggio particolarmente disgregato, il paziente, lentamente, prenderà a parlare in modo più organizzato e vitale, permettendo così la prosecuzione del dialogo e la ripresa del cammino verso la salute. Ma quest’ultima è una possibilità remota.

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Un altro espediente molto efficace, ma da usarsi solo quando il legame affettivo-terapeuta-paziente sia sufficientemente intenso (ben s’intenda: non il transfert, ma l’affetto vero) è di imporre, secondo quella che si potrebbe definire una tecnica comportamentista, un modo diverso di parlare. Si chiederà al paziente di non usare mai termini tecnici, di fare piuttosto giri di frase, di rimanere magari in silenzio, ma, come in un rituale ossessivo, di non usare assolutamente mai quelle parole e quelle frasi-formula, astenendosi inoltre dal dare qualunque interpretazione personale. Parlare, all’inizio, sarà ancor più pesante che sopportare la prigionia degli schemi precedenti; ma questa nuova fatica non è più prigionia, non è più rattrappimento; è lotta. Certo, sia la fatica, sia la lotta comportano sofferenza e necessitano di controllo su di sé; ma come è possibile guarire senza lottare? Io credo nel valore della lotta e della fatica, purché non si cada nel puro gioco sadomasochistico. Forse è poco appropriato usare il termine «valore», sarebbe stato forse più giusto dire: «utilità». La lotta e lo sforzo sono utili. Certo, se il divino Eros fosse il solo signore dell’universo, potrebbero non essere necessari, ma gli esseri umani, nella loro lunga e brevissima vita, hanno incontrato tali e tanti ostacoli che non possono non essersi deformati un po’. La malattia non può non essere entrata dentro di loro. Per scacciarla, non bastano quindi eufemismi ed esorcismi: bisogna lottare.

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Vorrei ancora menzionare due dei modi possibili di spezzare la patologia di questo tipo di linguaggio. Sono entrambi estremamente difficili, perché l’abilità istrionica del terapeuta deve essere tanta, tantissima, almeno pari all’amore per il paziente. Guai se il terapeuta si lascia andare alla sua stantìa tecnica! Bisogna essere imprevedibili, anche se è molto difficile con una persona che si è trincerata nel suo linguaggio malato proprio per non essere mai colta di sorpresa. Bisogna approfittare dei momenti di distrazione e mettersi d’improvviso a parlare di tutt’altro dall’argomento che si stava trattando, senza usare neppure l’ombra di un termine tecnico. Il paziente, per un pò, rimarrà disorientato, poi cercherà di buttare addosso al suo analista la consueta rete del suo linguaggio e, rinfrancato, cercherà di riprendere il cammino abituale, col carico delle sue catene linguistiche. Solo nel momento in cui tornerà ad essere distratto, lo psicoanalista dovrà di nuovo sorprenderlo con frasi inaspettate, con un linguaggio ricco e fiorito, esibendo la fisicità del proprio corpo, ostentando la propria vicinanza fisica, evitando però ogni riferimento alle parole del paziente. Dovrà parlare in continuazione, esibirsi e insistere, tanto da obbligarlo a cercare di distrarsi, dal momento che non gli è riuscito di di-strarre l’analista.
Questo spettacolino dovrà necessariamente essere ripetuto più volte.
Una persona con cui avevo usato questa tecnica e con la quale ottenni risultati veramente soddisfacenti, parlando con me molto tempo dopo, quando ormai l’analisi stava avviandosi a conclusione, mi disse che, allora, quando mi aveva visto e sentito mettere in atto quelle mie esibizioni, aveva pensato che fossi diventato matto. Non aveva mai avuto il coraggio di dir-melo, aveva sperato che io gli dicessi che lui mi credeva matto: per fortuna, io non ero cascato nel tranello.

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L’altro espediente che vorrei suggerire ai terapeuti è quello di incontrare il paziente fuori della seduta, magari invitandolo a prendere qualcosa al bar, o andando insieme a teatro. Se non è già del tutto morto internamente, il paziente cui sarà rivolto questo tipo di invito, avrà la curiosità di vedere il proprio terapeuta nelle situazioni non canoniche; vorrà carpire i suoi segreti, conoscere i misteri della sua vita, i suoi gusti. Fantasticherà di poter vedere il corpo dell’analista senza vestiti, tutti desideri che sarà anche in grado di confessare a se stesso e di autointerpretarsi. Qualche volta sarà stato il paziente stesso ad esprimere il desiderio di incontrare l’analista fuori dello studio. La prima sorpresa, in questo caso, sarà l’accettazione dell’invito. Bisognerà essere ben sicuri, prima di farlo, che il paziente sia abbastanza preparato, per evitare che venga preso dal panico. Se l’invito del terapeuta è accettato al momento giusto, con la stessa accurata preparazione di un’ardita modulazione musicale, il paziente non dirà di no. Si sentirà in gabbia, cercherà di sottrarsi, si farà venire una malattia, ma finirà con l’accettare quell’invito che metterà entrambi uno di fronte all’altro, fuori dalla doppia protezione del setting terapeutico e del suo peculiare linguaggio. Il paziente cercherà subito la supremazia della sua verbalità, parlando del mondo e delle cose intorno con lo stesso piglio e gli stessi trucchi della seduta. Toccherà al terapeuta parlargli con tenerezza e con affetto, anche di argomenti insignificanti. Sarà necessario parlare di questo incontro anche dopo il ritorno nella stanza dell’analisi, ormai intrisa di altre atmosfere. Si potrà allora canzonare quel vecchio linguaggio, stando attenti a non fare errori di armonia, evitando troppo ardue con-trapposizioni, le note stonate, errori nel contrappunto.