Archivio di dicembre 1985

Psicoanalisi contro n. 18 – La via del riconoscimento

domenica, 1 dicembre 1985

Se ci volgiamo indietro e guardiamo la fuga degli anni, cercando di risalire col pensiero verso il momento della nascita, vediamo affollarsi ricordi, immagini, scene, colori, suoni, che si collocano su di una linea e che seguono una determinata successione. Scopriamo però anche frammenti di ricordi, non ben collocabili, che si -posano or qui or là, come foglie portate dal vento, che, per quanto ci sforziamo, non riusciamo a situare con precisione.
Possono anche essere molto vividi, ma restano fuori del tempo. Succede che non riusciamo a ricordare avvenimenti della settimana appena trascorsa, ma ricordiamo invece molto bene quello che avvenne tanto tempo fà in una primavera intensa, colma di avvenimenti. Quei giorni sono lì, intatti, ricordiamo i cibi, le bevande, i tramonti, le carezze. Così accade anche per i ricordi più remoti: alcuni sono netti, altri sono più annebbiati; poi ci sono i veri e propri vuoti di memoria. Tutto sommato, rimane l’impressione di una prospettiva sghemba, che si perde lontano, in una realtà indistinguibile.
Il dipanarsi della linea dei ricordi non corrisponde, infatti, a una prospettiva con un unico punto di fuga, ben preciso, che renda le cose a noi più vicine grandi ed evidenti e quelle più lontane negli anni rimpicciolite. I contorni sfumano. Laggiù, in quel periodo lontano che si addentra nella nostra prima infanzia, piccole immagini brulicano indistinte, come una realtà che resti però impenetrabile alla nostra conoscenza consapevole.

2.
Il mio primo ricordo risale a quando ero molto piccolo; non mi è mai stato raccontato; fui io, più tardi, a domandare se poteva veramente essermi accaduto un fatto simile; i miei famigliari non se ne ricordano, ma, dalla descrizione che io faccio dell’ambiente, lo situano nei primi mesi della mia vita, perché eravamo in montagna, in quella casa. Ero in braccio ad una mia zia e avevo attorno mio padre e mia madre; io, vestito di bianco, ero molto adirato e urlavo: mi avevano fatto un torto. La zia, per calmarmi, mi faceva guardare alcune figure colorate, forse dei santini. Fuori c’era il prato verde che declinava verso il fiume che brontolava spumeggiando, là in fondo; oltre c’erano le montagne del Piemonte. Credevo di ribellarmi a un’ingiustizia.
Quel primo ricordo resta più nitido di tutti gli altri, quasi ritagliato e circondato da una luce particolare. Sono ritornato ancora in quei luoghi, in case diverse da quella. Mi si affollano altri ricordi: ero ragazzo, con gli amici e sempre c’era la Stura laggiù, argentea e spumeggiante. Con la schiena appoggiata ai muretti, persi in lunghe discussioni, accalorate, su argomenti filosofici, ed io che, anche allora, volevo parlare dell’amore; forse perché volevo farlo e non ne avevo il coraggio. Poi una piccola chiesa, con una Madonna bianca e azzurra, dove un amico mi accompagnava a messa; e laggiù il fiume!
Eppure prevale quell’episodio accaduto quando avevo meno di un anno! Cosa c’è in esso di inventato da me? Direi nulla. Prima, è come se ci fosse solo ombra e affondare nell’utero, dove
s’erano incontrate due storie: quella di mio padre e quella di mia madre. Prima ancora, c’è la loro storia e la storia di molti altri: vedo gli anni dell’Ottocento che si snodano all’indietro, incontro Napoleone Bonaparte. A me è sempre stato simpatico Napoleone Primo; mi è invece profondamente antipatico Napoleone Terzo.

Il mio primo ricordo è di un gesto di ribellione, di rabbia; un gesto di aggressione e di difesa. L’aggressione è sempre anche una difesa; quindi già allora mi difendevo con la mia rabbia: il mio sadismo, e con quel pianto: il mio masochismo. L’uomo non si potrà dunque mai liberare dalle proprie difese, che lo stringono così fin dall’inizio?
Certo, oggi, non è possibile liberarsene; ma c’è qualcosa ancora prima della difesa: il desiderio.
Quando la persona incomincia a costruirsi? Da quando sono nate le concatenazioni dei messaggi genetici; quindi dalla creazione dell’uomo. Ma quando è sorto l’uomo? Questo è un problema che non mi interessa. Non è questione di anni o di millenni, o di migliaia di millenni. L’uomo che mi interessa è quello che c’è adesso. Sono io e gli altri che mi stanno intorno. Abbiamo incominciato, fin dal ventre materno ad orientarci in qualche modo nello spazio e nel tempo; provando sensazioni, desideri, paure; cercando subito di cogliere il mondo.
Ci sono due atteggiamenti che coinvolgono tutta la persona nel suo dirigersi verso l’altro; quell’altro senza il quale nessuno potrebbe veramente essere comprensibile: sono l’identificazione e la proiezione.
Quando si vuole chiarire un concetto, si cerca di ripercorrere la storia che lo ha formato; indagarne l’etimo può sembrare un modo di affrontare il problema dalle origini. L’etimologia è affascinante, talvolta è utile, ma spesso non dice molto. La storia di un concetto è complicata: i desideri, le situazioni sociali, l’uso linguistico, lo hanno via via modificato e la parola che oggi ci troviamo ad avere fra le mani è il frutto di molte stratificazioni successive. L’etimo è laggiù, lontano; di quale utilità ci può essere, per capire il concetto di identificazione, spingere la ricerca indietro, fino all’origine in idem, poi ancora id e l’em indeclinabile, eccetera?
Quando ci si serve di un termine d’uso comune, ci si accorge sempre che è presente nel linguaggio con più significati, che si sovrappongono e, spesso, si contraddicono. È perciò importante chiarire l’uso che si intende fare, sia del termine, sia del relativo concetto, per cercare di isolarlo dalle implicanze che non gli ineriscono. Il più delle volte, però, questa operazione aggiunge confusione a confusione, perché succede solo che la parola acquisisca per l’ennesima volta un significato diverso. Nonostante tutto, bisogna comunque operare perché la coerenza di un discorso venga mantenuta e le ambiguità ridotte al minimo.
Il termine «identificazione» ha una varietà di usi ampia e articolata; ma due sono le accezioni principali: 1) il riconoscimento di qualcosa o di qualcuno, per esempio: l’identificazione di un assassino, o di un oggetto; 2) l’accezione psicologica, che si rifà all’espressione «identificarsi» e che sta ad indicare quel processo psichico per cui una persona assume, parzialmente o totalmente, aspetti di un altro individuo.
Sebbene si ritrovi nella psicoanalisi anche il primo significato, io intendo usare questo termine solo nel suo significato di «identificarsi». Tutte le altre accezioni, se sono usate come concetti o sottoconcetti catalogabili, che esprimano atteggiamenti fondamentali della struttura psichica o del comportamento di una persona, rischiano di confondere troppo.

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Identificarsi è semplicemente ed unicamente questo: tentare di diventare simili a qualcun altro. L’intensità dell’identificazione può essere maggiore o minore: si può voler essere assolutamente l’altro, o semplicemente assimilare alcuni suoi comportamenti, in base al tipo di relazione stabilita. La gamma dei comportamenti di identificazione è infinita, come quasi infinite sono le possibilità dei gesti umani.
Qui si presentano due domande importanti: quando e perché si mette in moto l’identificazione con l’altro? Se noi risaliamo all’indietro nella nostra storia, fino ai primissimi ricordi dell’infanzia, ci accorgiamo della presenza costante di figure, interne ed esterne allo stesso tempo, che sono state per noi, anche, modelli. Non siamo però in grado di cogliere il momento in cui inizia l’identificazione con l’altro, né osservando, dall’esterno, i bambini, né fantasticando sulla loro vita intra-uterina. Possiamo solo supporre che, per cominciare a muoversi, un essere cerchi di appropriarsi di qualcosa del primo essere che percepisce; altrimenti sarebbe senza punti di riferimento. Attorno a questi punti di riferimento, la persona si costituisce e si costruisce.
Perché proprio l’identificazione ha questa caratteristica originaria? Perché l’essere umano non è del tutto dentro di sé, e neppure sparpagliato completamente fuori di sé. Egli costruisce il suo interno, cogliendo ciò che è intorno a lui. Un vecchio filosofo ha detto: «Il mondo è la mia rappresentazione». Rappresentazione, non illusione. Mia, non di un altro. La frase incomincia con: «il mondo è»; io riconosco che il mondo è, altrimenti non ci sarei neppure io. In questa circolarità si costituisce l’individualità umana, che è sempre unica e irripetibile; proprio perché ogni essere umano è un punto di vista unico sul mondo.

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L’altra attività umana che coinvolge tutta la persona e che ha caratteristiche originarie quanto l’identificazione è la «proiezione», costitutiva di ogni essere umano e che si esprime con l’attribuzione di caratteristiche proprie a altre cose o altre persone.
La psicoanalisi ne ha fatto soprattutto un meccanismo difensivo, attraverso il quale l’uomo cerca di proiettare all’esterno sentimenti e caratteristiche che gli sono propri, ma sgraditi, in modo di poterli poi ritrovare negli altri: «Non sono io che odio lui; è lui che odia me». Questa è una manifestazione tipica del delirio di riferimento nella parafrenia o paranoia. Inoltre, per S. Freud, la proiezione è tipica dei bambini e dei selvaggi, i quali animano le cose inanimate, perché non concepiscono di avere intorno a loro creature senza anima: sono infatti solo capaci di immaginare esseri a loro simili, con intenzioni, volontà e desideri. Così fanno i bambini e lo stesso fanno i selvaggi, esprimendo le loro religioni animistiche.
Io credo che vedere la proiezione soprattutto come un meccanismo difensivo – psicotico o non, – o come attività propria solo di alcune categorie di persone, rappresenti una proiezione difensiva degli psicoanalisti stessi. Nella loro ansia nevrotica di voler distinguere il normale dall’anormale, il meno perfetto e strutturato dal più perfetto e strutturato, nel delirio di onnipotenza che li rende assolutamente convinti di essere i più sani, strutturati e perfetti, essi hanno proiettato fuori di loro il meccanismo della proiezione, ritrovandola poi nei paranoici, nei bambini e nei selvaggi.
Io non nego che la proiezione sia usata anche per difesa: nessuno infatti accetta di essere tutto quello che è. Quotidianamente tutti proiettano sugli altri sentimenti che stanno sorgendo in loro; ma che non vogliono riconoscere e da cui sperano di liberarsi buttandoli al di fuori. Quanto più è misconosciuto, rifiutato e inconsapevole il sentimento che neghiamo in noi, tanto più la condanna dello stesso sentimento, attribuito all’altro, sarà rabbiosa e ricattatoria. Fino a giungere a vere e proprie situazioni di delirio, in cui gli altri non sono più percepiti, o sono percepiti in modo profondamente distorto.
La proiezione è originaria, come l’identificazione. Che anch’essa possa essere patologica e usata difensivamente è possibile; ma nessuno può fare a meno di proiettare all’esterno qualcosa di sé. Tutti gli esseri umani animano le cose: è assolutamente impossibile pensare che quello che ci sta intorno sia del tutto inanimato. La materia bruta – il più basso grado della realtà, secondo molti filosofi – è un’astrazione: la possiamo pronunciare, ma non la possiamo pensare. Possiamo dire di credere che esista, però, con ogni nostro gesto e col nostro atteggiamento psichico, neghiamo questa nostra affermazione.
Alcuni filosofi, scienziati e psicologi, hanno affermato che tutto è realmente animato e che la non vita non esiste. La non vita coincide con il non essere. Ciò che è, è vivente: avrà forme di vita diverse; ma vive. Anche il sasso ha vita, non solo perché le parti di cui è costituito sono in continuo movimento, ma perché percepisce, sente, reagisce. Riconosco che questa è per me una teoria quanto mai affascinante; ma non voglio ora cercare di provarne la validità. Mi basta affermare che essa si basa sull’impossibilità che gli esseri umani hanno di non proiettare. Noi ci sentiamo animati e non possiamo che vivere in un mondo animato. Questa è la prima proiezione, non so se dietro ci sia la verità.

5.
Come per il processo di identificazione, non siamo in grado di stabilire il momento in cui abbiamo incominciato a proiettare. La proiezione sorge dal bisogno di sentire tutto vivo e capace di risposta come noi, poiché il terrore più antico è quello della solitudine. Fin dal ventre di nostra madre, noi vogliamo essere ascoltati, vogliamo che ciò che ci sta intorno ci risponda e sia attento a noi, come noi siamo attenti ad esso. Da sempre, io amo e voglio essere riamato e proietto questo mio desiderio sull’altro; così è per l’odio e per tanti altri sentimenti.
Identificazione e proiezione: una trama sottile di fili tesse il rapporto tra la nostra persona e il mondo che la va costruendo. Ora posso capovolgere la frase del vecchio filosofo, dicendo: «Il mondo è la sua rappresentazione».
Il termine proiezione ha una molteplicità di significati in campi anche molto lontani dalla psicologia, come la geometria e l’ottica; ha poi ancora altri significati, in neurologia e in psichiatria.
C’è un particolare tipo di proiezione, per cui si proiettano su di un altro – l’analista, per esempio – caratteristiche di persone che hanno avuto per noi un significato particolare – i genitori, per esempio -. Questo meccanismo, la psicoanalisi lo ha chiamato «transfert». Io sono molto indeciso se considerare il transfert un aspetto della proiezione, o invece, date le sue caratteristiche peculiari e universali, ritenerlo piuttosto, per chiarezza metodologica, un comportamento autonomo e isolabile.
Il transfert non si realizza soltanto nel rapporto psicoterapeutico. Indubbiamente, per le particolari caratteristiche della terapia – e specialmente della psicoterapia – è facilissimo sovrapporre alla persona che ci cura, immagini, a noi interne, di personaggi importanti del nostro passato e del nostro presente, e reagire come se fossimo veramente davanti a loro. Come ho più volte ripetuto, però, il transfert è un meccanismo costitutivo dell’orientarsi della persona nel mondo. È impossibile rapportarsi a chicchessia come se quella persona fosse soltanto quella persona lì: somiglianza oggettiva, fantasie interne e il momento particolare che stiamo vivendo, favoriscono questo gioco delle parti, per cui l’altro è anche un altro e un altro ancora.
L’altro fa lo stesso con noi. Inoltre, io proietto sull’altro parte di me e forse mi identifico con lui; che, a sua volta, proietta su di me, parti di sé e, forse, si identifica con me.
Ho qui distinto tre concetti fondamentali per la costruzione della persona: l’identificazione, la proiezione e il transfert. Questi tre concetti mi sembrano sufficientemente definiti e mi pare anche abbastanza chiaro quanto sia ricco l’uso che l’uomo ne può fare. Ciò nonostante mi sono trovato tra le mani una matassa di fili eccezionalmente ingarbugliata. Se buttiamo lo sguardo più a fondo, ecco che vediamo come il transfert sia sempre biunivoco, si intrecci e forse coincida con la proiezione, la quale, a sua volta, si intreccia con l’identificazione. Per non rimanere impaniati in distinzioni e sottodistinzioni, è bene operare sul minor numero possibile di concetti, sperando di raggiungere il massimo della chiarezza.

6.
Identificarsi con l’altro può significare molte cose. Ho detto che non è possibile non identificarsi con qualcuno, perché la persona si costituisce proprio attraverso successive identificazioni. Le ragioni e le situazioni possono però essere molto diverse: alcune sono sane, altre sono malate. Identificazione sana è voler essere come l’altra persona per impulso amoroso. Se non è provocata da Eros, l’identificazione può avere caratteristiche non solo semplicemente difensive, ma addirittura espropriatrici, distruttive. La logora frase: «Voglio essere me stesso» non ha significato; è meglio sostituirla con: «Voglio essere una persona felice, che si piace, e che ha sufficiente rispetto di sé». Io so di essermi costituito attraverso una serie di identificazioni con gli altri; quindi come posso dire che voglio essere me stesso, quando il me stesso è fatto di tante identificazioni? L’identificazione è per lo più inconsapevole, ma ciò non toglie che possa ugualmente essere sana. L’innamorato vuole; ed io soggiungo: deve volere, essere simile all’amato. È giusto riconoscere la diversità e l’unicità di ciascuno, non bisogna distogliere lo sguardo quando si presentano conflitti; ma se io amo, quindi stimo, rispetto e desidero un altro, è perché, per me, qualcosa di questo altro ha valore; se ha valore, è non solo comprensibile, ma giusto, che io lo voglia imitare, in quegli aspetti che. me lo hanno reso amabile .e stimabile. Per essere amabile e stimabile ai suoi occhi, ma anche ai miei. Per essere me stesso in questo senso: cioè felice e in pace.
L’identificazione sana io la chiamo «imitazione». Troppi imbecilli castrati, quando vedono una persona amare un altro, stimarlo e ammirarlo e cercare di essere simile a lui, si lacerano le vesti e urlano: al plagio! al plagio! Ci possono essere, senza dubbio, comportamenti che imitano l’altro troppo inconsapevolmente o che sono imposti con la violenza. L’eccessiva inconsapevolezza e la violenza non sono ammissibili; ma, imitare la persona amata ed essere da essa imitati, non solo non è plagio, ma è il punto massimo della salute. Soltanto persone, troppo meschine e troppo stupide per potersi innamorare davvero, hanno paura del plagio e lo vedono dovunque. Lo vedono soprattutto dove c’è amore; lividi nella loro invidia di esclusi. Io voglio essere come l’altro, con allegria, con gioia. Proprio perché imito l’altro, scopro in me nuove possibilità. Lui ama la musica, io non la conoscevo: lentamente mi metto ad ascoltarla; lui ama il buon vino: ne scopro il sapore anch’io; mi fa conoscere nuove strade dell’amore, strade che io non avevo il coraggio di percorrere: mi sento più ricco. Mi trovo entusiasta e felice.
Vi è anche un’identificazione malata. Io la chiamo «parodia». Parà odé, simile a un canto, ma che non è quel canto: lo ricorda, ma lo schernisce. Non necessariamente la identificazione malata, o parodia, è consapevole; anzi, per lo più, non lo è. Spesso si fonda sull’invidia: essere come lui, per avere quello che ha lui, lo stesso successo che ha lui. Nell’imitazione è necessario anche lo sforzo: non si può pretendere che le cose vengano necessariamente così, con leggerezza; spesso ci vuole attenzione e impegno, studio e consapevolezza e sempre, nel fondo, ci deve essere appagamento, senza espropriazione dell’altro.
La parodia, invece, ripete i gesti degli altri, svilendoli. Gesti che diventano ridicoli in persone che ad essi rimangono estranee, senza capire, irrigidite in rituali grotteschi. Costoro non si possono certo dire plagiati; anzi: umiliano il loro ideale, cercando di rubare, non nel tentativo di raggiungerlo; ma per sovrapporsi a lui, per usurpare.
Ci si può identificare anche per paura; è una difesa volersi appropriare della violenza dell’altro per esorcizzarla: ed ecco il debole, che trema davanti al più forte; ma che si comporta brutalmente nei confronti di chi percepisce come più debole di sé. Una parodia squallida e triste, che vediamo rappresentata ogni giorno: negli uffici, sugli autobus, nei mercati e nelle chiese. Talvolta è addirittura la parodia di una parodia: omuncoli si atteggiano a potenti, prevaricando con una spietatezza, che i potenti raramente conoscono. Lo stesso può accadere nel rapporto educativo: il bambino fa la parodia del genitore più temuto; oppresso da gesti di viltà e di violenza, li ripete, confermandosi in una tragica parodia.

7.
Ho detto che la proiezione è un meccanismo originario e ineliminabile; ho detto inoltre che può essere usata come difesa. C’è – anche in questo caso – una proiezione sana e una proiezione malata. La proiezione sana voglio chiamarla: «simpatia», sentire insieme. Non soltanto soffrire o godere, ma sentire. Se desidero profondamente che un altro senta quello che sento io, lo invito, proiettando su di lui alcuni miei sentimenti, e forse mi illudo che mi ricambi: «Amor cha nullo amato amar perdona… ».
«Io desidero essere amato, dico che tu un po’ mi ami; forse così incomincerai ad amarmi». La proiezione simpatetica è l’inizio di ogni conoscenza; proietto: voglio trovare sentimenti miei negli altri e nelle cose. Questi sentimenti mi vengono ributtati addosso: io li accolgo, mi lascio andare, senza irrigidimenti. Capisco l’altro perché è simile a me; colgo però, anche, la sua diversità. Ho cominciato a sentirlo simile e dissimile, perché così volevo che fosse.
È un gioco impercettibile, ma continuo. Immediatamente dò qualcosa di me a chi mi sta di fronte e lui mi dà qualcosa di sé e in questo scambio ci avviciniamo. Lo stesso accade in quel tipo di proiezione che è detto transfert e che ha sue caratteristiche autonome: se non ci fosse una continua sovrapposizione di una persona su di un’altra non scatterebbero moltissimi motivi di interesse. Uno sguardo mi affascina perché mi ricorda un altro sguardo.
C’è anche la proiezione malata, quella che io chiamo «negazione» dell’altro, la quale è profondamente violenta ed espropriatrice. Io proietto sull’altro desideri inconsci che non ho il coraggio di riconoscere in me. Ho paura di amare e allora proietto il mio desiderio d’amore sugli altri. Mi basta un sorriso gentile o una frase non indifferente per credere di essere concupito; dico di sentirmi molestato dal desiderio sessuale dell’altro, giro, tronfio e ridicolo, con la convinzione che tutti siano innamorati di me e persuaso di dovermi difendere, non si sa bene da cosa.
Poi c’è la proiezione sugli altri dei nostri difetti: l’avaro vede intorno a sé tutti avari, il vile tutti vili. Spesso si ride dei froci senza rendersi conto del proprio sculettare e vezzeggiare come la più tenera delle checche. E così via, fino a giungere a considerare gli altri soltanto stampelle alle quali appendere i nostri fantasmi.

8.
La persona umana si costruisce quindi attraverso l’identificazione con l’altro e la proiezione; inoltre, abbiamo un’identificazione sana, guidata da Eros, che ho chiamato «imitazione» e l’altra, malata, che ho chiamato «parodia». Così per la proiezione: quella sana o «simpatia» e quella malata o «negazione» dell’altro.
A questo punto, sorge un ulteriore problema: le identificazioni e le proiezioni, siano esse sane o malate, chiudono l’uomo in un mondo di illusioni; la realtà è allora irraggiungibile? Io penso che la conoscenza piena della realtà, cioè il possesso della verità completa, non sia una possibilità umana. La verità però non è altrove: è oltre. Se fosse altrove, l’uomo non potrebbe avere nessun contatto con essa; ma, se è oltre, è possibile, parzialmente, raggiungerla.
Il mondo, gli altri, entrano in noi attraverso l’identificazione e la proiezione e allo stesso modo noi veniamo a contatto col mondo. Tutto è mosso dal desiderio; ma il desiderio non si accontenta di illusioni; il desiderio vuole la realtà; che è presente e nascosta, che si manifesta e si cela. Perciò, all’identificazione e alla proiezione, bisogna aggiungere il «riconoscimento»: l’altro da noi deve essere riconosciuto. Soltanto Eros ci può guidare per questa strada ed insegnarci a riconoscere l’altro, che deve essere percepito o conosciuto in un abbandono senza smarrimento. L’altro da noi deve comunicarci qualcosa di sé, del suo presente e del suo passato, e noi, nel riconoscerlo, riconoscenti, ci abbandoniamo a lui, senza paura.

18 – Dicembre ‘85

domenica, 1 dicembre 1985

Abbiamo già detto che consideriamo Pasolini incapace di scrivere per il teatro, ma capacissimo di coinvolgere ed entusiasmare lo spettatore con il suo cinema, senza annoiare mai. Si può considerare quindi una felice occasione questa che viene offerta al Cinema Rialto di rivedere, o vedere raccolta, tutta l’Opera cinematografica di P.P. Pasolini, sceneggiatore e regista. Noi abbiamo rivisto alcuni di questi film e ricordiamo molto bene gli altri; di tutti abbiamo apprezzato l’andamento. I momenti statici e quelli dinamici si alternano, sempre con ritmo; alle cadenze virtuosistiche di un’immagine, assaporata quasi ossessivamente, succedono movimenti di massa. Oggetti e persone vengono proposti, usando, visivamente, tutte le tecniche del contrappunto musicale. Abilissimo il regista si rivela poi nell’uso di quell’effetto che musicalmente si chiama «imitazione»: il dipanarsi cioè di un elemento – in questo caso un gesto – che viene poi ripreso da altri, quasi identico o con variazioni minime, nello spazio e nel tempo. Anche il commento musicale vero e proprio di ogni opera cinematografica è estremamente curato. Non sappiamo quanta libertà Pasolini lasciasse a chi, con lui, si occupava delle musiche; ma la musica è sempre presente, dosata con la stessa precisione di parole e immagini. Anche i silenzi hanno grande importanza e sono scelti con misurata meticolosità.

È senz’altro buona l’idea di portare le scolaresche al cinema, anche se limita l’orario delle proiezioni alle dieci del mattino; ma concede ai privilegiati di assistere al piccolo prodigio di giovani schiamazzanti, che tacciono e si commuovono, parallelamente al dipanarsi delle immagini sullo schermo.

Concludendo vorremmo osservare come Pasolini, con un mezzo di comunicazione rivolto a grandi masse, sia stato capace di scuotere le coscienze e abbia contribuito a modificare un costume sessuale e morale stagnante.

18 – Dicembre ‘85

domenica, 1 dicembre 1985

«…in mezzo ai platani di Piazza Testaccio/il vento che cade in tremiti di bufera, è ben dolce …». Il ristorante di Augustarello, in via G. Branca, nel cuore di Testaccio dovrebbe essere un ristorante romanissimo: saletta poco accogliente, brutti quadri alle pareti, commercianti della zona, qualche impiegato e qualche turista tra gli avventori e tutti maleducatamente fumano. Il servizio è svolto da due giovanottoni, forse i figli del proprietario, piuttosto sbrigativi. La lista dei piatti non è certo ricca: tre primi e qualche secondo. Prima ancora che si abbia il tempo di pensare al cibo giunge perentoria la solita domanda: – cosa bevono? – Che sia un posto davvero autentico, dove, rusticamente, si potranno apprezzare i piatti sapidi della gloriosa tradizione?
Ma quando i piatti arrivano in tavola, le illusioni cadono miseramente: i rigatoni con la pagliata sono immersi in un liquido acquoso e rossastro, senza altro sapore che un piccantino amarognolo che resta in gola; gli agnolotti non hanno sapore del tutto, anche se la pasta è leggera. La trippa alla romana, già brutta a vedersi, risulta anche peggio in bocca e l’arrosto alla macellara è un miscuglio di carni rinsecchite che sembrano essere state messe sulla piastra il secolo scorso. L’acqua come ingrediente base torna poi nel piatto di animelle, muscoletti e funghi. I dessert, etichettati, non ci sono dispiaciuti. Imbevibili invece i vini: un bianco dei Castelli Romani anch’esso assai acquoso e un grignolino del Piemonte, vino da tavola, irriconoscibile e sgradevolissimo. Il conto non è stato alto. Sul muro della chiesa di fronte, leggiamo, all’uscita: Prega Maria.

In una notte di quelle in cui Roma è fredda e ventosa, piena «d’angoli bui tra palpitanti grotte/e inanimati grattacieli» siamo approdati, ad ora piuttosto tarda, allo Chalet, in via Tiburtina 814, le cui luci gialle attraverso i vetri opachi erano uno dei pochi segni di vita nel buio. Oltre la soglia, abbiamo trovato uno di quei ristoranti periferici con grandi stanzoni, decine di tavoli, luogo di banchetti in speciali occasioni, spesso animati nei giorni del fine settimana.
Nell’ambiente principale, deserto, crepitava il fuoco del camino e le nostre voci acquistavano strane risonanze.
Camerieri, quasi sorpresi, ci si fecero incontro ad allestire un tavolo.
Eravamo dominati dal presagio che avremmo mangiato male e, invece, senza che possiamo dire di aver scoperto una cucina eccezionale, abbiamo trovato piatti appetibili e un servizio appena un po’ stralunato.
La cosa migliore del menù è il buffet di antipasti, variati, fragranti, con sapori schietti, se pur famigliari. Le paste dei primi piatti erano un po’ passate di cottura e scarseggiava il pepe sulla carbonara; ma il sugo marinaro era gustoso, benché non abbondante. Il pesce dell’arrosto misto era di buona scelta, ma il fritto un po’ unto. Bruno l’arrosto di carni, una volta tanto non rinsecchite; appetitosi i saltimbocca alla romana, di buona tradizione. I dolci erano gelati e semifreddi industriali.
Oltre ai soliti Fontanacandida e Pinot S. Margherita abbiamo trovato, tra i vini, un Sauvignon un po’ spento e un Merlot del Molino delle Streghe dal buon profumo, che riusciva a farsi strada nonostante fosse servito troppo freddo. Il conto, data la situazione, ci è parso abbastanza alto.

18 – Dicembre ‘85

domenica, 1 dicembre 1985

Il libro di Aldo Carotenuto L’autunno della coscienza (Boringhieri 1985, pagg. 118, L.16.000) ha una sola caratteristica: lo squallore di due o tre delle più ovvie banalità psicoanalitiche, trite e ritrite, monotonamente ripetute dall’inizio alla fine. Noi siamo d’accordo sul fatto che attraverso le opere di un artista, si possa intuire molto della sua struttura psichica; ma dobbiamo riconoscere però che, in genere, psicologi e psicoanalisti – Freud compreso – hanno detto per lo più cumuli di sciocchezze, quando si sono cimentati in questo genere di imprese. La psicoanalisi, allora, non potrà mai capire l’arte e l’artista? Noi crediamo che ne avrebbe la possibilità; ma sarebbe tempo di smetterla di ripetere sempre le stesse formulette, calate indiscriminatamente su autori ed opere, con il risultato di giustificare il fastidio che troppi provano per la psicoanalisi e gli psicoanalisti. Carotenuto per tutto il libro dice solo questo: Pasolini viveva un conflitto interiore, originato dalle liti fra i genitori al tempo della sua prima infanzia, odiava il padre e amava la madre, salvo, successivamente, passare ad odiare anche lei e tutte le altre donne. Da ciò sarebbe stato indotto ad avvicinarsi, con senso di colpa e paure inconsce, agli uomini. L’uccisione della madre e l’uccisione del padre sono l’esito inevitabile di un atteggiamento esistenziale che non ha saputo che proporre la scelta tra due tipi di morte. Queste belle pensate Carotenuto le ricava dall’analisi sommaria del romanzo pasolinano «Ragazzi di vita» e, ancor di più, inferendo sciacallescamente da aneddoti, più o meno verificabili, della vita dell’Autore. Urla vera miseria intellettuale al confronto dell’artista e della bella opera con cui si cimenta! Basta, crediamo, un piccolo accenno, una citazione dal libro in questione, per dare un’idea di quanto si possa mancare del senso del ridicolo professionale: «…Riccetto e compagni compiono anche altri furti: una rapina a un cieco e il furto di un chiusino di tubature. Perché proprio a un cieco e perché l’infilarsi in un tombino? Quella del cieco è una condizione particolare poiché, senza un contatto visivo diretto con la realtà esterna, egli è costretto a un rapporto simbolico col mondo, mediato dalla sua interiorità; è dunque, la cecità, una condizione che offre l’opportunità di una relazione con l’inconscio. Il furto, come espressione dell’attività cosciente, si rivolge a una dimensione più profonda. E così anche nel senso del chiusino e dei tubi.» (pagg. 34-35).

Con un’attenta lettura degli scritti pasoliniani, Enzo Golino nel volume Pasolini: il sogno di una cosa (ed. Il Mulino 1985, pagg. 274, L. 25.000), cerca di dimostrare, documentandolo, il continuo impegno pedagogico di P.P. Pasolini. Il libro contiene osservazioni di ogni genere: dalla critica letteraria alla nota di costume; ma quello che interessa Golino è il problema pedagogico: secondo lui, Pasolini è nato pedagogo, con una moralità dilaniata e oppressa dai sensi di colpa. Usando, in modo non presuntuoso, anche la psicoanalisi, l’autore delinea tratti della personalità del Poeta: l’omosessualità e il desiderio di ribellione; per giungere alla conclusione che perseguisse il sogno di essere proprio un «Padre Sole», che sarebbe il «simbolo inequivocabile, un segno radiante che nella dimensione dell’Autorità riassume il senso, di una rara assolutezza, della paideia pasolinana».
Bisogna dare atto a Golino di essersi astenuto da voyeuristiche osservazioni sulla vita del Poeta che non risultino tratte direttamente dall’opus pasoliniano (cosa che troppi hanno fatto). Il risultato complessivo è quello di offrirci un ritratto di Pasolini un po’ convenzionale, ma di grande correttezza critica e intellettuale, che dà al lettore utili elementi di riflessione e conoscenza.

Psicoanalisi contro n. 18 – Pasolini e la psicoanalisi

domenica, 1 dicembre 1985

Dopo l’uccisione di Pier Paolo Pasolini, i ben pensanti, gli amici, i nemici, dissero tante cose. Era giusto così. Quell’uomo era diventato famoso proprio per mezzo, in virtù e attraverso quei canali della comunicazione di massa, borghese, che tanto disprezzava; ma che non riuscirono mai a trasformarlo in uno stupido.

Frasi stupide su di lui se ne dissero e scrissero tante, invece. Ricordo un’affermazione particolarmente volgare: un tale, molto vicino alla psicoanalisi, disse che, se Pier Paolo Pasolini si fosse fatto curare psicoanaliticamente, non sarebbe morto in quel modo. Io dico che chi ha detto questo o non ha mai fatto psicoanalisi, oppure, se si è sottoposto a un trattamento psicoanalitico, certo, non è mai guarito. Se guarire attraverso la psicoanalisi significasse diventare imbecilli, paurosi, paghi di sfogare la propria imbelle libidine di castrati con la violenza negli stadi, la psicoanalisi sarebbe allora una ben misera cosa.

Certo, nulla accade per caso, neanche la morte; e la morte non è mai un bene. Ma che diritto ha uno «scienziato della psiche» di sentirsi così onnipotente? Con la psicoanalisi si può imparare a non avere paura, né del giorno né della notte; da essa dovremmo imparare a sostenere con allegria e con durezza le nostre opinioni; ad amare il corpo degli altri, anche del nostro stesso sesso; a cogliere la poesia delle cose e non a temere il terrorismo culturale.
Per questo, io dico che Pasolini era profondamente sano. Anche se nei suoi scritti – e non nella sua vita – è evidente un bisogno eccessivo di adeguarsi alle teorie freudiane. Non dico: al modello di salute freudiano; ma alle teorie di Sigmund Freud.
Per fortuna, le quattro formulette su cui si basa ogni teoria psicoanalitica non potevano essere sufficienti per la sua grandezza di poeta, come non lo sono per la grandezza del mondo.

Il poeta non deve aver paura di nessuna scienza!

18 – Dicembre ‘85

domenica, 1 dicembre 1985

Di fronte all’occasione mancata di una giusta valorizzazione della bella traduzione pasoliniana dell’Orestiade di Eschilo, non sappiamo se indignarci per la malafede o scandalizzarci per l’imbecillità di questi «appunti sotto forma di spettacolo» che la sciagurata idea di avanguardia teatrale, incarnata da Riccardo Vannuccini, ha oscenamente tentato di rappresentare tra il 29 e il 31 ottobre al Teatro Trianon.
Prescindendo da ciò, l’austero, se pur nervoso verso greco di Eschilo, è reso magistralmente nella traduzione in italiano, che lascia intatta la forza drammatica e l’elevatezza mistica dell’originale. Pasolini ha inteso la trilogia come un dramma civile e noi siamo pienamente in disaccordo. I «drammi civili», quando sono grandi opere d’arte, non esistono.

«Dramma civile» può essere la sciatta cronaca giornalistica di un dirottamento aereo, che ben poco ha a che spartire coi valori dell’arte. Ma siamo ben consapevoli che, dal Giulio Cesare di Shakespeare all’Orestiade, appunto, gli scontri politici si radicano e affondano nel palpitare dei sentimenti individuali, delle dinamiche inconsce, che gesti e parole della tragedia presentano e rappresentano.

Enzo Siciliano, con Franco Quadri e Francesca Sanvitale, ha curato Poesia in forma d’azione, tre serate al Teatro Valle; una elaborazione drammaturgica e scenica con lettura recitante di testi di P.P. Pasolini, (specialmente, ma non solo, di quelli in versi). Il tragitto poetico di Pasolini è ampio e brevissimo allo stesso tempo. È difficile capire se ci sia stata davvero un’evoluzione o soltanto un approfondimento. Emblematica è la sua poesia in dialetto friulano: giovanissimo inizia a scrivere i primi testi de «La meglio gioventù» che completerà nel 1953, versi spesso già perfetti nella loro compiutezza e intensità emotiva, sapidi, spavaldi e sentimentali. Nel rifacimento del 1974 de «La nuova gioventù» tornano, dopo storici mutamenti, le stesse atmosfere, con la stessa spavalderia, unita al risentimento.
Pasolini è un poeta tradizionale anche in lingua italiana: non una bizzarria avanguardistica, non un’oscurità esibizionistica. Parole sempre chiare; se il lettore si smarrisce non è per l’astrusità del verso, ma per la sua abbagliante e concreta bellezza. Itinerari mentali e politici e, dappertutto, un’intensa sensualità. Città, campagna, oggetti, odori, e sempre la sacra presenza del genitale maschile, cifra dell’essere; mai priapicamente osceno, ma vivo e desiderabile. E poi il disprezzo per la stupidità; talvolta mesto, talvolta rabbioso. Un coraggio di dire, di accusare e di scoprirsi. La morte, pur così presente come evento, è lontanissima dalla vitalità del suo mondo poetico, una «disperata vitalità».
«In un futuro aprile», prima serata e primo atto del «percorso poetico» attraverso la vita di Pasolini, vengono letti i testi giovanili, antecedenti la fuga verso Roma. Sulla scena vuota i leggii e le poltrone (sponsorizzazione non sei l’ultimo dei nostri mali) su cui sono seduti gli attori e l’ospite Giovanni Raboni; rintocchi di campane sottolineano fin dall’inizio un’atmosfera eccessivamente fantasmesca; la voce esile e salottiera di Siciliano non riesce a spezzare la funebre sommessità del tutto, eccetto che nell’intervista, che costituirà anche l’unico momento spettacolarmente dignitoso. Tra l’altro si è raggiunto un involontario ridicolo negli smiagolamenti di brani dell’Orestiade. Si salva solo Nino Prester, corretto ed equilibrato e che per le tre serate sarà la sola eccezione al disastro in cui piombano i suoi colleghi Alfredo Pea, Pietro Bontempo, Paola Bacci e Isabella Martelli. Bruttissimo l’intervento del farfugliante Raboni.
«Povero come un gatto del Colosseo» ha per argomento l’incontro con Roma. Le vicende contrastate del rapporto tra l’Uomo e la Città sono espresse con poesie e testi degli anni cinquanta e sessanta.
Forse grazie al dialetto, la lettura di brani della sceneggiatura de «La notte brava» faceva presagire qualcosa di meno deprimente della sera precedente; ma quando Paolo Graziosi è balzato a leggere «Le ceneri di Gramsci» strillando sempre, senza sfumature, ci siamo sentiti avviliti, come avviliti risultavano quei versi. L’ospite politico era l’onorevole Renato Nicolini, penoso in viola e nero con farfallino bianco. Per fortuna la corretta professionalità di Gabriele Lavia ha restituito alla serata un minimo di doverosa dignità.
Il compito di salvare il terzo e ultimo incontro poetico «Trasumanar e organizzar» è toccato a Giorgio Albertazzi il quale ha dato una bella e teatrale lettura di «Coccodrillo», ironica invettiva forse ancora inedita, contro l’avangarde; piena di spunti che l’attore ha ben valorizzato. Gli altri sono rimasti fumose presenze gratuite. Paolo Terni ha curato per le tre serate le lievi sottolineature sonore.

Pasolini è stato irrimediabilmente incapace di scrivere per il teatro.
Si badi bene: non che ignorasse le esigenze del fare spettacolo – come dimostrano benissimo tutti i suoi film -; ma i suoi testi teatrali sono irrappresentabili e sono anche tra le cose meno belle a leggersi.
Egli, senza dubbio, odiava il teatro e crediamo che quest’odio gli venisse per il profondo disprezzo provato nei riguardi del tipico spettatore del teatro di prosa: il piccolo e medio borghese, di destra e di sinistra; pensiamo che abbia scritto testi mortalmente noiosi soprattutto per punire questo esemplare sociale. Aveva pur ragione, quando affermava che il teatro d’avanguardia di quegli anni non era altro che un cascame del Living Theatre (non tutto) salvando soltanto Carmelo Bene, che noi non salviamo. Giustificata era anche le sua indignazione contro il teatro ufficiale, pieno di narcisistico birignao; ma il suo Teatro di parola non regge. Non sta in piedi neppure Orgia, che forse è il testo più sopportabile, ma che non ha senso sulla scena.
«Bestia da stile», poi meno che mai.
Sono solo parole, parole che spesso diventano sbrodolati sermoni; e la cosa più grave è che la parola non richiama il gesto, non lo esorta. Certo, in qualche punto, il Grande Poeta si manifesta e allora si rimane col fiato sospeso; ma poi la noia ha il sopravvento e ci si chiede perché ciò che potrebbe essere detto con due battute viene detto con mille. Questo testo che è stato ripetutamente rifatto tra il 1965 e il 1974, parafrasa immagini e personaggi storici e letterari della resistenza cecoslovacca, al tempo della «primavera di Praga»: Jan Palach e il poeta Novomesky, con trasparenti riferimenti autobiografici.
La realizzazione di Cherif ha cercato disperatamente di rendere teatrale la rappresentazione animandola il più possibile di pupazzi e personaggi in continuo movimento; con encomiabile sforzo, ma con deludente risultato e crediamo non per colpa del regista. Ottima l’interpretazione del personaggio di Jan, su cui si impernia tutta la narrazione: continuamente in scena Maurizio Donadoni, in una faticosa performance, è capace di trovare spunti sempre nuovi, efficace e intenso nel gesto e nella voce, con picchi di espressionismo lirico coinvolgente.
Un piccolo gioiello teatrale, il lungo monologo della Madre, in cui Marisa Fabbri ha usato tutte le sfumature possibili, passando dalla rabbia volgare e dalla declamazione alla disperazione più arrochita e interiore. Gli altri attori, giovani della Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, sono stati precisi e professionalmente adeguati, sia nelle funzioni di coro, sia negli interventi di personaggi collaterali.
Le scene e i costumi di Nicola Trussardi: nero, grigio e rosso sapientemente dosati, suggeriscono atmosfere, più che riprodurle; grandi elementi inanimati, trasformano la scena, in luogo metafisico e irreale. Vogliamo sottolineare con particolare attenzione il commento musicale scelto da Paolo Terni con musiche di Janacek, Bach, Mozart, Wagner, Weill, Zarah Leander e Perez Prado. La musica ha fatto ciò che non è riuscito alla regia: sorreggere ed animare le parole. I brani, scelti con cura, entravano ed uscivano di scena, smorzati o improvvisamente interrotti, sempre però rispettati nella loro struttura, senza tagli casuali, cui siamo stati così spesso mal abituati.

18 – Dicembre ‘85

domenica, 1 dicembre 1985

Pier Paolo Pasolini. Una vita futura è l’etichetta complessiva di due mesi di manifestazioni dedicate al Poeta scomparso dieci anni fa e che sono l’espressione della mobilitazione tardiva di una città irriconoscente; il tributo di amici ed estimatori; l’occasione per alcuni di non perdere l’ultimo tram.

C’è in questa manifestazione – ovviamente – del buono e del meno buono, i due Farfalloni si sono trovati emotivamente più coinvolti del solito e i sentimenti contano molto quando si esprimono le opinioni. L’occasione ci è parsa utile anche per affrontare in modo globale, se pure affrettato, il mondo poetico ed estetico di un uomo la cui vita e la cui morte hanno significato così tanto; l’opera del quale segna un punto fondamentale nella storia della cultura del nostro Paese.

18 – Dicembre ‘85

domenica, 1 dicembre 1985

“Buona notte, intenditore di dolore, con due occhi azzurri come due sacchetti trasparenti, dove custodire questo dolore gelosamente e con serenità. Buona notte, anche se io non potrò dormire, perché ho il cuore ferito da un’idea”
(P.P. Pasolini, Bestia da stile).

Un numero dedicato a Pier Paolo Pasolini, nel decimo anniversario della morte, può essere un’operazione doverosa e inevitabile, come inevitabili sono i gesti di minuto o grande sciacallaggio che i piccoli vivi fanno sulla pelle dei Grandi scomparsi. Pochi uomini hanno saputo essere vincitori con la dignità e la grandezza con cui Pier Paolo Pasolini ha saputo vincere, in vita e in morte, contro la mediocrità di tutta una società. Dà qui fastidio questo coro di esegeti che autonominano vendicatori di un’umanità che, se fu stroncata, non fu mai svilita e che del proprio dolore seppe fare arma invincibile.
Troppi si sono appropriati di un’eredità spirituale destinata a tutti; ma nessuno può dirsene degno. Eppure è giusto questo contendersi il patrimonio che egli ha lasciato senza tutela, proprio perché i cani si buttassero sull’osso, ultimo avanzo, ma segno rimasto presente, sostanza che non si può negare. Provare a riavvicinarsi a Pasolini, dopo dieci anni, può anche voler dire accettare di soffrire ancora, rendere concreta la differenza, con ostinazione negata lungamente, tra l’essere e il non essere più. Amore e dolore non generano necessariamente gesti buoni, non sono neppure sentimenti sempre degni.
Ma è condanna storica che i figli, legittimi e bastardi, si cibino del corpo dei padri e che di questo gesto facciano rito. Così che delitto ed espiazione diventino un gesto solo e nella ripetizione ci siano ad un tempo la colpa e la redenzione. Il sacrificio feconda la terra da prima che mitologie ariane e giudaico-cattoliche ne facessero il fondamento dei sistemi. La colpa è il solo privilegio che resta da contendersi. Non per caso, i tribunali non seppero trovare i colpevoli veri del delitto di dieci anni orsono; perché in ogni caso gli assassini erano e restano infinitamente al di sotto della loro colpa. La città, la cultura stessa non sono ancora oggi in grado di reggere il peso di un silenzio che le condanna; per questo se ne difendono con la celebrazione. Piccole e grandi chiese si affollano di officianti e ciò è doveroso che avvenga, perché sarebbe empio non farsi carico della Vittima. Solo il riconoscimento di complicità può dare il senso di questo affannarsi di oggi. Per fortuna, il pentimento non ha valore dove manca la Poesia.

18 – Dicembre ‘85

domenica, 1 dicembre 1985

«La forma dello sguardo» è la «mostra» che dal 15 ottobre al 15 dicembre resterà aperta ai Mercati di Traiano, col proposito di documentare, panoramicamente, l’opera di Pasolini. Il manifesto di Mario Schifano è l’elaborazione di una sequenza fotografica in cui è ripetuto più volte il ritratto di Pasolini: particolari del volto o l’intera figura affiorano da una pittura che è concitato segno colorato, come di un’ansia non controllata e, forse, perciò, riduttivamente accennata.

Aggirarci per quegli spazi ci ha fatto provare sensazioni diverse: commozione, irritazione, noia e un po’, anche, di disorientamento. Tutto è affastellato: cimeli della vita e dell’opera di Pasolini si sparpagliano o si ammucchiano, come in un negozio di rigattiere, mentre una serie di teleschermi trasmettono interviste filmate e la Sua voce si spande intorno. Il percorso tenta di essere cronologico, ma poi i temi si intrecciano e si procede più a zig-zag.
Ci sono rimasti impressi i suoi disegni, dal tratto sicuro, niente affatto ingenuo, aggressivo e tenero, cattivo e affettuoso, caricaturale e ironico, coerente e consapevole, che vanno dai ritratti anonimi dei tempi friulani alle laurebetti perversamente investite di bagliori di amore-odio.

Ci ha commosso la concretezza spenta dei costumi della «trilogia della vita» e di «Medea»; i tessuti e i gioielli, le fogge studiate da Donati, Tosi e Tirelli sembrano barbare spoglie, di funebre bellezza, private della vita dei personaggi pasoliniani che di esse si erano rivestiti.
Ci ha disturbato l’eterogeneità dei documenti, l’eccesso di fotografie con didascalie, la mancanza di prospettiva dell’insieme, l’intenzione un po’ cattiva di forzare un’immersione totale con poca spesa.

«Come mosche nel miele», intrigante e significativa frase colta tra i graffiti sui muri di New York, s’intitola la mostra di opere di Renzo Vespignani, allestita nell’ambito dell’Omaggio a Pasolini a villa Medici a cura di Carmine Siniscalco.
Si tratta di un centinaio di opere, oli, disegni e tecniche miste, che indagano l’universo pasoliniano, e col lavoro di nove anni – sono state tutte realizzate tra il 1976 e oggi – testimoniano il legame artistico tra il pittore e il Poeta.
Vespignani stesso ci dice da dove incomincia il viaggio che egli ci invita a compiere: da il «Reperto A-RPX-117/6», un olio che rappresenta la giacca di Pasolini, ridotta a reperto giudiziario, lacera e insanguinata, buttata su di uno scaffale, macchia sinistra contro un muro biancastro. Vespignani è un buon pittore: l’efficacia e la potenza del suo disegno, la precisione dei tratti, la maestria nell’uso dei colori, il modo con cui la presenza e l’assenza della luce scandiscono emotivamente la scena, la capacità di fissare le fisionomie e i particolari, danno l’impressione di grande maestria.
La sua poetica però non ci convince fino in fondo e proprio nel confronto di tematiche parallele a quelle pasoliniane, si vede come la sua statura sia decisamente al di sotto.

La sua opera affascina, ma in troppi momenti affiora il sospetto del tartufismo: paura, paura, paura e ancora paura. Non perché il mondo faccia paura, o perché Roma sia così laida e temibile, ma paura di parlar chiaro. A questa paura Vespignani sembra cercare di sfuggire esorcizzandola con un sadomasochismo troppo rileccato e morboso, col gusto di trasformare la spazzatura in materia preziosa: le «Nature morte» e i «Resti», i «Quartetti». In molte opere fanno capolino un’estetica e una poetica vicine a quelle di un famoso scrittore giapponese – che non sappiamo se Vespignani conosca – Mishima; ed ecco le carcasse, le motociclette, pittura sempre ad altissimo livello; ma l’arte, anche quella figurativa, non è soltanto forma: la morale e la politica ne sono l’essenza e quindi la forma della forma. Proseguendo, un’opera che ci colpisce nel profondo, «In memoria», come una esplosione; e poi altre, «Comunione», «Abbraccio» e «Pornografia» e altre ancora: finalmente il coraggio; l’amore, non più necessariamente legato al senso di colpa e al disorientamento.

Il tratto diventa potente, meno rattrappito nella precisione accademica, più disteso nell’esaltazione del corpo virile, coi sessi in evidenza; maschio che ha il coraggio di vedere e toccare l’altro maschio, quello che gli è realmente uguale e diverso allo stesso tempo. Sono, indubbiamente, presenti anche il dolore, la disperazione, presenti perché ci sono anche nella vita. C’è la malattia, «Ritratto», ma è riconosciuta e c’è la voglia di guarire.