18 – Dicembre ‘85

dicembre , 1985

«…in mezzo ai platani di Piazza Testaccio/il vento che cade in tremiti di bufera, è ben dolce …». Il ristorante di Augustarello, in via G. Branca, nel cuore di Testaccio dovrebbe essere un ristorante romanissimo: saletta poco accogliente, brutti quadri alle pareti, commercianti della zona, qualche impiegato e qualche turista tra gli avventori e tutti maleducatamente fumano. Il servizio è svolto da due giovanottoni, forse i figli del proprietario, piuttosto sbrigativi. La lista dei piatti non è certo ricca: tre primi e qualche secondo. Prima ancora che si abbia il tempo di pensare al cibo giunge perentoria la solita domanda: – cosa bevono? – Che sia un posto davvero autentico, dove, rusticamente, si potranno apprezzare i piatti sapidi della gloriosa tradizione?
Ma quando i piatti arrivano in tavola, le illusioni cadono miseramente: i rigatoni con la pagliata sono immersi in un liquido acquoso e rossastro, senza altro sapore che un piccantino amarognolo che resta in gola; gli agnolotti non hanno sapore del tutto, anche se la pasta è leggera. La trippa alla romana, già brutta a vedersi, risulta anche peggio in bocca e l’arrosto alla macellara è un miscuglio di carni rinsecchite che sembrano essere state messe sulla piastra il secolo scorso. L’acqua come ingrediente base torna poi nel piatto di animelle, muscoletti e funghi. I dessert, etichettati, non ci sono dispiaciuti. Imbevibili invece i vini: un bianco dei Castelli Romani anch’esso assai acquoso e un grignolino del Piemonte, vino da tavola, irriconoscibile e sgradevolissimo. Il conto non è stato alto. Sul muro della chiesa di fronte, leggiamo, all’uscita: Prega Maria.

In una notte di quelle in cui Roma è fredda e ventosa, piena «d’angoli bui tra palpitanti grotte/e inanimati grattacieli» siamo approdati, ad ora piuttosto tarda, allo Chalet, in via Tiburtina 814, le cui luci gialle attraverso i vetri opachi erano uno dei pochi segni di vita nel buio. Oltre la soglia, abbiamo trovato uno di quei ristoranti periferici con grandi stanzoni, decine di tavoli, luogo di banchetti in speciali occasioni, spesso animati nei giorni del fine settimana.
Nell’ambiente principale, deserto, crepitava il fuoco del camino e le nostre voci acquistavano strane risonanze.
Camerieri, quasi sorpresi, ci si fecero incontro ad allestire un tavolo.
Eravamo dominati dal presagio che avremmo mangiato male e, invece, senza che possiamo dire di aver scoperto una cucina eccezionale, abbiamo trovato piatti appetibili e un servizio appena un po’ stralunato.
La cosa migliore del menù è il buffet di antipasti, variati, fragranti, con sapori schietti, se pur famigliari. Le paste dei primi piatti erano un po’ passate di cottura e scarseggiava il pepe sulla carbonara; ma il sugo marinaro era gustoso, benché non abbondante. Il pesce dell’arrosto misto era di buona scelta, ma il fritto un po’ unto. Bruno l’arrosto di carni, una volta tanto non rinsecchite; appetitosi i saltimbocca alla romana, di buona tradizione. I dolci erano gelati e semifreddi industriali.
Oltre ai soliti Fontanacandida e Pinot S. Margherita abbiamo trovato, tra i vini, un Sauvignon un po’ spento e un Merlot del Molino delle Streghe dal buon profumo, che riusciva a farsi strada nonostante fosse servito troppo freddo. Il conto, data la situazione, ci è parso abbastanza alto.