18 – Dicembre ‘85

dicembre , 1985

Di fronte all’occasione mancata di una giusta valorizzazione della bella traduzione pasoliniana dell’Orestiade di Eschilo, non sappiamo se indignarci per la malafede o scandalizzarci per l’imbecillità di questi «appunti sotto forma di spettacolo» che la sciagurata idea di avanguardia teatrale, incarnata da Riccardo Vannuccini, ha oscenamente tentato di rappresentare tra il 29 e il 31 ottobre al Teatro Trianon.
Prescindendo da ciò, l’austero, se pur nervoso verso greco di Eschilo, è reso magistralmente nella traduzione in italiano, che lascia intatta la forza drammatica e l’elevatezza mistica dell’originale. Pasolini ha inteso la trilogia come un dramma civile e noi siamo pienamente in disaccordo. I «drammi civili», quando sono grandi opere d’arte, non esistono.

«Dramma civile» può essere la sciatta cronaca giornalistica di un dirottamento aereo, che ben poco ha a che spartire coi valori dell’arte. Ma siamo ben consapevoli che, dal Giulio Cesare di Shakespeare all’Orestiade, appunto, gli scontri politici si radicano e affondano nel palpitare dei sentimenti individuali, delle dinamiche inconsce, che gesti e parole della tragedia presentano e rappresentano.

Enzo Siciliano, con Franco Quadri e Francesca Sanvitale, ha curato Poesia in forma d’azione, tre serate al Teatro Valle; una elaborazione drammaturgica e scenica con lettura recitante di testi di P.P. Pasolini, (specialmente, ma non solo, di quelli in versi). Il tragitto poetico di Pasolini è ampio e brevissimo allo stesso tempo. È difficile capire se ci sia stata davvero un’evoluzione o soltanto un approfondimento. Emblematica è la sua poesia in dialetto friulano: giovanissimo inizia a scrivere i primi testi de «La meglio gioventù» che completerà nel 1953, versi spesso già perfetti nella loro compiutezza e intensità emotiva, sapidi, spavaldi e sentimentali. Nel rifacimento del 1974 de «La nuova gioventù» tornano, dopo storici mutamenti, le stesse atmosfere, con la stessa spavalderia, unita al risentimento.
Pasolini è un poeta tradizionale anche in lingua italiana: non una bizzarria avanguardistica, non un’oscurità esibizionistica. Parole sempre chiare; se il lettore si smarrisce non è per l’astrusità del verso, ma per la sua abbagliante e concreta bellezza. Itinerari mentali e politici e, dappertutto, un’intensa sensualità. Città, campagna, oggetti, odori, e sempre la sacra presenza del genitale maschile, cifra dell’essere; mai priapicamente osceno, ma vivo e desiderabile. E poi il disprezzo per la stupidità; talvolta mesto, talvolta rabbioso. Un coraggio di dire, di accusare e di scoprirsi. La morte, pur così presente come evento, è lontanissima dalla vitalità del suo mondo poetico, una «disperata vitalità».
«In un futuro aprile», prima serata e primo atto del «percorso poetico» attraverso la vita di Pasolini, vengono letti i testi giovanili, antecedenti la fuga verso Roma. Sulla scena vuota i leggii e le poltrone (sponsorizzazione non sei l’ultimo dei nostri mali) su cui sono seduti gli attori e l’ospite Giovanni Raboni; rintocchi di campane sottolineano fin dall’inizio un’atmosfera eccessivamente fantasmesca; la voce esile e salottiera di Siciliano non riesce a spezzare la funebre sommessità del tutto, eccetto che nell’intervista, che costituirà anche l’unico momento spettacolarmente dignitoso. Tra l’altro si è raggiunto un involontario ridicolo negli smiagolamenti di brani dell’Orestiade. Si salva solo Nino Prester, corretto ed equilibrato e che per le tre serate sarà la sola eccezione al disastro in cui piombano i suoi colleghi Alfredo Pea, Pietro Bontempo, Paola Bacci e Isabella Martelli. Bruttissimo l’intervento del farfugliante Raboni.
«Povero come un gatto del Colosseo» ha per argomento l’incontro con Roma. Le vicende contrastate del rapporto tra l’Uomo e la Città sono espresse con poesie e testi degli anni cinquanta e sessanta.
Forse grazie al dialetto, la lettura di brani della sceneggiatura de «La notte brava» faceva presagire qualcosa di meno deprimente della sera precedente; ma quando Paolo Graziosi è balzato a leggere «Le ceneri di Gramsci» strillando sempre, senza sfumature, ci siamo sentiti avviliti, come avviliti risultavano quei versi. L’ospite politico era l’onorevole Renato Nicolini, penoso in viola e nero con farfallino bianco. Per fortuna la corretta professionalità di Gabriele Lavia ha restituito alla serata un minimo di doverosa dignità.
Il compito di salvare il terzo e ultimo incontro poetico «Trasumanar e organizzar» è toccato a Giorgio Albertazzi il quale ha dato una bella e teatrale lettura di «Coccodrillo», ironica invettiva forse ancora inedita, contro l’avangarde; piena di spunti che l’attore ha ben valorizzato. Gli altri sono rimasti fumose presenze gratuite. Paolo Terni ha curato per le tre serate le lievi sottolineature sonore.

Pasolini è stato irrimediabilmente incapace di scrivere per il teatro.
Si badi bene: non che ignorasse le esigenze del fare spettacolo – come dimostrano benissimo tutti i suoi film -; ma i suoi testi teatrali sono irrappresentabili e sono anche tra le cose meno belle a leggersi.
Egli, senza dubbio, odiava il teatro e crediamo che quest’odio gli venisse per il profondo disprezzo provato nei riguardi del tipico spettatore del teatro di prosa: il piccolo e medio borghese, di destra e di sinistra; pensiamo che abbia scritto testi mortalmente noiosi soprattutto per punire questo esemplare sociale. Aveva pur ragione, quando affermava che il teatro d’avanguardia di quegli anni non era altro che un cascame del Living Theatre (non tutto) salvando soltanto Carmelo Bene, che noi non salviamo. Giustificata era anche le sua indignazione contro il teatro ufficiale, pieno di narcisistico birignao; ma il suo Teatro di parola non regge. Non sta in piedi neppure Orgia, che forse è il testo più sopportabile, ma che non ha senso sulla scena.
«Bestia da stile», poi meno che mai.
Sono solo parole, parole che spesso diventano sbrodolati sermoni; e la cosa più grave è che la parola non richiama il gesto, non lo esorta. Certo, in qualche punto, il Grande Poeta si manifesta e allora si rimane col fiato sospeso; ma poi la noia ha il sopravvento e ci si chiede perché ciò che potrebbe essere detto con due battute viene detto con mille. Questo testo che è stato ripetutamente rifatto tra il 1965 e il 1974, parafrasa immagini e personaggi storici e letterari della resistenza cecoslovacca, al tempo della «primavera di Praga»: Jan Palach e il poeta Novomesky, con trasparenti riferimenti autobiografici.
La realizzazione di Cherif ha cercato disperatamente di rendere teatrale la rappresentazione animandola il più possibile di pupazzi e personaggi in continuo movimento; con encomiabile sforzo, ma con deludente risultato e crediamo non per colpa del regista. Ottima l’interpretazione del personaggio di Jan, su cui si impernia tutta la narrazione: continuamente in scena Maurizio Donadoni, in una faticosa performance, è capace di trovare spunti sempre nuovi, efficace e intenso nel gesto e nella voce, con picchi di espressionismo lirico coinvolgente.
Un piccolo gioiello teatrale, il lungo monologo della Madre, in cui Marisa Fabbri ha usato tutte le sfumature possibili, passando dalla rabbia volgare e dalla declamazione alla disperazione più arrochita e interiore. Gli altri attori, giovani della Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, sono stati precisi e professionalmente adeguati, sia nelle funzioni di coro, sia negli interventi di personaggi collaterali.
Le scene e i costumi di Nicola Trussardi: nero, grigio e rosso sapientemente dosati, suggeriscono atmosfere, più che riprodurle; grandi elementi inanimati, trasformano la scena, in luogo metafisico e irreale. Vogliamo sottolineare con particolare attenzione il commento musicale scelto da Paolo Terni con musiche di Janacek, Bach, Mozart, Wagner, Weill, Zarah Leander e Perez Prado. La musica ha fatto ciò che non è riuscito alla regia: sorreggere ed animare le parole. I brani, scelti con cura, entravano ed uscivano di scena, smorzati o improvvisamente interrotti, sempre però rispettati nella loro struttura, senza tagli casuali, cui siamo stati così spesso mal abituati.